La Turchia e la proposta del suo ingresso nell’Unione pongono l’Europa di fronte a delle scelte per troppo tempo eluse. Finché era in corso la Guerra Fredda, e vi era un pericolo effettivo che essa potesse trasformarsi in conflitto armato, le ragioni dell’unità e dell’alleanza con gli Stati Uniti erano di comprensione immediata. Ma oggi, perché stiamo insieme? Al quesito vi è chi risponde che la ragione di fondo risiede in un’identità geografica e culturale. Si può anche cassare dal preambolo del trattato costituzionale il riferimento alle nostre radici. Non si possono cancellare, invece, identità che affondano le loro origini in quindici secoli di storia e che hanno selezionato dei valori comuni la cui origine è essenzialmente religiosa ma che, con il trascorrere del tempo, si sono secolarizzati divenendo patrimonio anche dei laici. Il cristianesimo, infatti, a differenza di altri credi, prevede la distinzione tra la sfera spirituale e quella temporale. E su queste basi è sorta e si è sviluppata spontaneamente una civilizzazione che a Sud, essendo il Mediterraneo un mare chiuso (non a caso, negli scritti a sfondo religioso, è stato spesso assimilato al lago di Tiberiade), non è stata delimitata da un confine naturale ma culturale, che ha sempre distinto la cristianità dal mondo musulmano. Questo confine persiste, e concerne anche i turco-musulmani. Per dire le cose come effettivamente sono, la laicità dello Stato turco, per quanto proclamata nel 1924, è garantita ancora e soltanto da ristrette élites politiche e si regge, per l’essenziale, sulle baionette dell’esercito: proprio di quell’esercito nel cui potere, paradossalmente, l’Unione scorge uno dei limiti al processo di democratizzazione del Paese. Le grandi masse islamiche, di contro, sono restie ad accettare la premessa stessa della democrazia, perché nella negazione della distinzione tra Allah e lo Stato individuano un cardine irrinunciabile della loro fede. Queste masse consistono di oltre 60 milioni di persone, con una crescita demografica a cospetto della quale quella degli Stati dell’Unione impallidisce. Non si tratta di piccola cosa. Basta un dato per chiarire la portata della rottura: la Turchia, con ogni probabilità, conquisterebbe ben presto la rappresentanza più ampia in sede di Parlamento europeo, strappandola alla Germania. È bene non farsi illusioni: se l’Europa accetta l’ingresso della Turchia, infrange una barriera culturale, senza sufficienti garanzie di avere la forza innanzi tutto numerica di integrare i nuovi venuti, anziché farsi lentamente assimilare a qualcosa che le è estraneo.
C’è chi ritiene non senza qualche ragione che, però, il progetto identitario dell’Europa sia ormai fallito da tempo. E che l’avvenuto allargamento ad Est abbia rappresentato, in tal senso, il colpo mortale. Si starebbe insieme, dunque, non in nome delle identità ma allo scopo di mediare delle differenze. L’Europa sarebbe, dunque, innanzi tutto una comunità di sicurezza ed una zona di libero commercio. Non dovrebbe puntare a conquistare influenza esterna (impossibile quando le diversità divengono fondanti), ma provare ad assicurare la pace e la prosperità al suo interno. In questa prospettiva, ci si chiede, come e perché sbattere in faccia la porta alla Turchia? Proprio al più moderato tra i Paesi islamici e che, inoltre, è militarmente alleato dell’Occidente, essendo parte integrante della Nato? Il ragionamento poggia su dati di fatto, salvo assicurarsi che un allargamento ulteriore dei confini dell’Unione rafforzi effettivamente le fondamenta di una comunità di sicurezza e non rischi, di contro, di rendere evanescente anche quel poco di sostanza che l’Europa conserva.
I dubbi, come si vede, non mancano e, per essere sciolti, avrebbero bisogno di un dibattito vero: non di una pantomima portata avanti a colpi di slogan e di richieste al limite dell’assurdo. Alcuni esempi chiariscono bene i paradossi che rischiano di offuscare la comprensione del problema. L’Italia, sostenitrice della richiesta d’iscrivere nel trattato le radici giudaico-cristiane, sembra non considerare affatto che i valori si radicano nella storia assai più di quanto si possano affermare sulla carta. Per questo, quanti tengono veramente a quelle radici, più di ciò che si scrive oggi in una presunta Costituzione, dovrebbero difendere ciò che siamo da quindici secoli. La Francia, di contro, ha impedito che la prevalenza di una tradizione religiosa nel nostro patrimonio comune d’europei fosse riconosciuta. Ma oggi a Parigi c’è chi piange per lo splendore della sua Saint Denis, tempio della cristianità che alle porte della capitale affoga ogni giorno di più in un quartiere turco-musulmano. E, anche in nome di quella cattedrale, inizia a promettere barricate contro l’ingresso della Turchia. La Comunità europea ha, però, trovato il modo di risolvere il problema. E lo ha fatto da par suo: si tratterebbe solo d’esigere il rispetto di alcuni parametri (l’ormai mitico acquis communautaire) e di garantirsi che in Turchia l’adulterio non sia punito. Ci dispiace smentire François Truffaut, ma questa volta non è solo una questione di corna!
Il Messaggero, 3 ottobre 2004