Siamo stati tra quanti, in tempi non sospetti, hanno individuato in Donald Trump una soluzione da preferire a una ipotesi di sicura decadenza. Siamo tra quanti, per serietà e non per prudenza, ritengono che bisognerà attendere del tempo per comprendere se da parte del nuovo Presidente americano l’opportunità che la storia gli ha consegnato sarà colta in tutto, in parte oppure verrà contraddetta da comportamenti non adeguati.
Quel che già da ora si può affermare, però, è che la linea di politica estera di Trump, per quanto ancora solo abbozzata, pone problemi ai quali sia l’Europa sia l’Italia farebbero bene a non sottrarsi.
Trump ha sconfessato la beatificazione della globalizzazione e, soprattutto, delle sue conseguenze. Ha preso le distanze dal multipolarismo molle dell’amministrazione Obama e dalla connessa sottovalutazione della minaccia rappresentata dal terrorismo islamico rispetto all’ordine mondiale. Ha prospettato un disimpegno dell’America nei confronti degli organismi sovranazionali e delle spese necessarie per il loro funzionamento. Ha allargato le distanze tra le due sponde dell’oceano Atlantico. Ha condito tutto ciò con una chiusura nazionalista che non rappresenta certamente una novità assoluta nella storia degli Stati Uniti.
Alcune conseguenze politiche, economiche e strategiche di questa rivoluzione si iniziano a scorgere. Altre possono essere immaginate. Non c’è dubbio, ad esempio, che la radicalizzazione della linea Brexit da parte del Premier inglese Theresa May dipenda anche dal profilarsi all’orizzonte di un ritorno a una forte solidarietà anglosassone in ambito sia strategico sia economico: quella che per lunghi periodi della storia ha portato il Regno di Sua Maestà a guardare dalla parte del “grande largo” piuttosto che verso il Vecchio Continente.
L’Europa, d’altro canto, è più isolata e, se possibile, ancora più debole.Econ realismo bisogna rendersi conto che questo isolamento e questa debolezza non agevolano gli sforzi affinché essa torni ad essere immaginata come una comunità di destino, alla quale devolvere prudentemente quote crescenti di sovranità nazionale nella prospettiva della creazione di una sovranità più ampia della quale sentirsi attori e partecipi a tutti gli effetti.
Il rischio, in altri termini, è che all’interno di un’Europa sempre più debole perché strategicamente periferica si rafforzino taluni interessi nazionali oltre il consentito e il conveniente. In particolare, che la Germania preferisca coltivare la propria influenza nell’area baltica e che la Francia si faccia potenza di riferimento della parte meridionale. Cosicché l’asse franco-tedesco, che per decenni, nel corso del Novecento, ha rappresentato il baricentro oggettivo della costruzione di un’Europa più ampia e partecipata, potrebbe trasformarsi nell’asse liquidatorio della realtà comunitaria a vantaggio dei rispettivi, e legittimi, interessi nazionali.
E’ un’ipotesi realistica. I segnali, purtroppo, vi sono tutti. Per quanto riguarda l’Italia, i più pericolosi risiedono nella penetrazione sempre più incisiva di capitali d’Oltralpe in settori strategici della nostra economia: il credito, l’energia, le assicurazioni, la comunicazione. E anche chi, come me, ritiene che i problemi del XXI secolo avrebbero bisogno di masse critiche ben più ampie di quelle assicurate dai vecchi Stati-nazione, non può esimersi dal confrontarsi con questa evenienza.
La domanda è: se questa realtà dovesse concretizzarsi e, con essa, dovesse materializzarsi in forme inedite un nuovo asse franco-tedesco, che interesse avrebbe l’Italia a perpetuare un acritico europeismo? Non avrebbe il diritto, anzi il dovere, di intraprendere strade di politica estera se non alternative quanto meno autonome rispetto alla prospettiva della costruzione europea?
Per me la risposta è sì: la stessa che si diede De Gasperi alla fine della sua vita di fronte al fallimento della Ced. Io credo che, anche allo scopo di scongiurare per il possibile la prospettiva qui evocata, l’Italia debba al più presto investire con forza sul suo ruolo strategico nel Mediterraneo, facendosi interprete e protagonista della pacificazione dell’area, anche attraverso rapporti bilaterali con Stati Uniti e Russia.
Non si tratta di una prospettiva inesplorata. Essa, interpretata con maggiore o minore consapevolezza e con variazioni sul tema legate alle contingenze, attraversa tutta la storia della politica estera della nostra Repubblica, da Fanfani fino a Berlusconi.
Il nostro tempo offre oggi ragioni oggettive per riconnettersi urgentemente a questo filo rosso. Sarebbe un modo, tra l’altro, per non lasciare il dibattito sulla sovranità, sull’Europa, sull’euro nel regno dei princìpi astratti mentre l’avanzare impetuoso della storia provvede a dipanare in nostra vece i nodi veri che non si ha il coraggio di affrontare.
Articolo pubblicato sul quotidiano “La Verità”