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Dopo la decisione della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, anche l’Assemblea generale dell’Onu ha voluto bocciare il muro eretto da Israele a tutela della propria popolazione contro gli attacchi terroristici dei palestinesi. Con centocinquanta voti a favore (fra cui tutti i Paesi della UE), sei contrari (fra cui gli Usa e, naturalmente, Israele) e dieci astensioni, è stata approvata una risoluzione – non vincolante – nella quale si chiede a Israele di dare seguito alla recente decisione della Corte internazionale di Giustizia, e quindi di smantellare il muro perché illegale, e poi si chiede ai Paesi dell’Onu di non riconoscere la situazione illegale scaturita dalla costruzione del muro, e quindi di non accettare né prestare assistenza “per mantenere la situazione creata da tale costruzione”. Quindi, abbattere il muro oppure isolare Israele dentro il muro. Così l’Onu è come se avesse rivoltato l’idea stessa del muro e la sua finalità: non una barriera a difesa di Israele ma una cintura per stringere ed emarginare Israele dal resto del mondo. Sarà pure questa un’interpretazione un po’ forzosa, ma la risoluzione Onu può benissimo essere letta in questi termini. Come già la decisione della Corte dell’Aja, con la quale veniva bocciata la scelta israeliana del muro perché questa “non porta affatto alla realizzazione dei suoi obiettivi nel campo della sicurezza”: un’affermazione che invade oltre modo le scelte di uno Stato perché penetra intrinsecamente nella politica dello Stato.

La vicenda del muro, o come più corretto dire della “barriera difensiva”, al di là della drammatica situazione nel Medio Oriente, mette a nudo una serie di problemi, che sono così sintetizzabili: a) come bilanciare il diritto alla sicurezza con i diritti di libertà nelle democrazie contemporanee; b) quanto è possibile incidere dall’esterno nelle scelte di sovranità interna degli Stati; c) quali sono i limiti e quali le prospettive future del diritto internazionale. Cominciando da quest’ultimo aspetto, c’è da dire, ancora una volta, che il diritto internazionale non è affatto assimilabile a quello nazionale, anche perché riposa sul consenso degli Stati. È diritto inter-nazionale, e quindi fra le nazioni; non può pretendere di essere diritto sopra le nazioni, come se fosse il vertice assoluto dell’ordinamento fra gli ordinamenti, ovvero la Grundnorm kelseniana. Ciò vuol dire, allora, che il compito del diritto internazionale nel nuovo millennio è quello di mediare e non imporre: ci sono troppe e complesse questioni che devono essere sapute gestire calandosi nella realtà concreta degli Stati e non imponendo regole e comportamenti senza comprendere le ragioni degli Stati. E questo si collega al secondo punto. Infatti, per quanto riguarda la sovranità degli Stati, si può citare un’antica dottrina: “Le limitazioni degli Stati non si presumono: devono essere provate”. E quindi il diritto non può essere sovrano, deve cioè convivere con le categorie della politica senza eroderne gli spazi vitali. Tradotto nelle vicenda israeliana, vuol dire che la scelta di una barriera difensiva compete solo alla politica dello Stato, che ha deciso di adottare questa soluzione estrema per ragioni di sicurezza, una materia questa che non può certo essere sottratta alla politica statale, e semmai può essere sindacata da un giudice interno e non internazionale. Come far convivere però il diritto alla sicurezza con i diritti di libertà? Da qui il primo dei problemi sopra elencati. Per insistere sulla vicenda della barriera israeliana, non si contesta il richiamo ai diritti dell’uomo, che nel caso israeliano sono quelli di parte della popolazione cisgiordana scacciata per fare spazio al muro; quello che lascia perplessi, piuttosto, è che sia una Corte internazionale ieri e l’Assemblea generale dell’Onu oggi, a valutare il grado di sicurezza oltre il quale uno Stato deve arrestarsi. Come se non esistesse un diritto dei cittadini alla sicurezza che oggi è anche un diritto di libertà. Come se non valesse il principio di sovranità dello Stato in ordine alla propria politica di difesa da attuare per reprimere il cancro del terrorismo, che nelle zone del medio oriente è da troppo tempo in metastasi. Come se non bastasse il giusto, doveroso e corretto richiamo giurisdizionale fatto dalla Corte Suprema d’Israele, unico organo deputato a bilanciare i diritti nel proprio territorio, sulla base di considerazioni condizionate dalla concreta realtà del Paese e dalla tensione dei valori che governano in un dato momento storico la popolazione di uno Stato.

Il diritto inter-nazionale dovrebbe prenderne atto, se vuole – come deve – continuare ad essere lo strumento con il quale gestire la pace attraverso il diritto, che sia della sicurezza e della libertà.

Il Riformista, 22 luglio 2004