Il dibattito di questi giorni sull’eutanasia cade a poco più di un anno da quello sulla vita nascente, che poneva invece, tra gli altri, seri interrogativi sulla ricerca e selezione di embrioni. Ed è probabilmente da qui che bisogna ripartire. Pensare infatti di poter intervenire sul termine di un’esistenza può presupporre che ci si ritenga anche in grado di poter stabilire quando essa inizi o, perfino, in che modo debba cominciare.
All’origine si ritrova una precisa idea dell’individuo e delle sue possibilità, ovvero della posizione in cui lo si colloca: al di sopra o al di sotto di certe scelte.
E’ d’obbligo una premessa. Non si sta in nessun modo tentando di mettere in discussione quel libero arbitrio di cui l’uomo per natura dispone, e che anzi è moralmente chiamato ad “esercitare” di fronte alle quotidiane scelte dell’esistenza. E’ invece un altro l’interrogativo, e cioè quali siano i limiti a tale facoltà di decisione del singolo e quanto essa sia davvero libera. Il fatto che un malato – giunto a certe condizioni, e per effetto di sofferenze che possono realmente diventare insopportabili – chieda di porre termine al proprio cammino, non deve farci distogliere lo sguardo né dal valore intrinseco della vita né dal messaggio che potrebbe filtrare, giungendo ad altri malati in situazioni diverse, e forse più vivibili.
In altre parole, quella con cui ci confrontiamo non è solo l’oggettiva situazione di sofferenza, peraltro diversa caso per caso, ma una concezione che ci porta a presumere di poter assegnare la patente di dignità ad un’esistenza. Il pericolo sottostante a tale generalizzazione del dibattito è che si galoppi – e in questo confermati dai miraggi della tecno-scienza – verso una civiltà che esclude la sofferenza dalla propria sfera e che, sotto pretesa di migliorarla, si arroga la facoltà di stabilire quando una vita può essere definita tale e quando no.
Ma il rischio è tutto qui: chi sarebbero questi giudici di vita degna? E, soprattutto, quali criteri sono all’origine delle loro sentenze? Per giunta considerando che, valutazione esterna a parte, lo stesso malato può cominciare a sentirsi inutile – e il sistema socio-sanitario-assistenziale in questo certo non aiuta – e, da qui, un peso per chi lo circonda. Ecco allora come, sia un giudizio esterno, sia una propria personale valutazione (certamente NON obiettiva, nella misura in cui si è coinvolti emotivamente, fisicamente, affettivamente), con facilità può tramutarsi in libero arbitrio mal orientato. Anzi, mal concepito. E poiché non si tratta di un’auto vecchia, ma di quel bene supremo e indisponibile che è la vita, la cautela dovrebbe quantomeno raddoppiare.
Per paradosso, appaiono profeticamente più attuali oggi le parole di Giovanni Paolo II, provato in prima persona dal male fisico, che così rifletteva nella Salvifici doloris del 1984:«Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell’uomo».
A ben vedere, allora, parlare di eutanasia fa astutamente scivolare il problema. Che infatti resta irrisolto. Perché nessuno si chiede che cosa porta un malato a chiederla? Perché anche qui l’ipocrisia e il pietismo signoreggiano? Certo, è assai più comodo (e utile) discutere di come tagliare il problema alla radice anziché affrontare il problema in sé. Forse è arrivato il momento di mettere loro, i malati, al centro – anche nella vita pubblica – insieme alla loro solitudine e al loro mistero. Forse è ora di cominciare a ragionare in termini di vita e non di morte. «In questo quadro evangelico – scriveva Wojtyla– è messa in risalto in modo particolare la verità sul carattere creativo della sofferenza». Davvero non c’è termine più scandaloso: creativo, cioè contrario di mortifero. Che se ne parli allora – della sofferenza e della malattia – con rispetto e coraggio, ma che non si riduca tutto a una questione di vita degna. Perché, se è per questo, lo è ogni vita.