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Ho sempre creduto che il liberalismo fosse innanzitutto una provocazione della libertà contro ogni dogmatismo. Il frutto migliore, insomma, di quell’albero che ha alle sue radici l’umanesimo greco e quello cristiano. Non ho mai pensato che il liberalismo si potesse tramutare in una nuova forma di rivelazione, in un contenuto determinato e definitivamente acquisito. Benedetto Croce aveva forse ragione a negare che la «religione della libertà» potesse mai chiudersi in un insieme di principi definiti o in una precisa teoria politica. È proprio questo a renderla diversa da ogni altra «religione».

Don Verzè, con la recente confessione di avere aiutato molti anni fa un uomo a morire, mi ha riportato a questa riflessione sul senso del liberalismo. Al liberalismo come dovere di una critica infinita e di un’infinita capacità di comprendere le sfide cui di volta in volta la libertà ci costringe. Perché per essere all’altezza della libertà occorre lasciarsi interpellare dalla sua natura tormentata e irrequieta. Don Verzè ha fatto scandalo, come tutti coloro che non possono accontentarsi delle verità fornite dalla banalità del buon senso comune e dal diffuso rigurgito dogmatico. Don Verzè, insomma, ci ha posto di fronte a una provocazione della libertà, a cui in qualche modo dobbiamo rispondere.

E a volte i liberali rispondono in modo particolare: mentre i teologi – e i filosofi peggiori – pretendono di avere una risposta per ogni domanda, i veri liberali devono più spesso arrendersi al fatto di non avere risposte, a lasciare il campo libero alla libertà. Anzi, alle libertà, declinate al plurale, in una molteplicità irriducibile. Credo che sia questa l’unica possibilità di dare una risposta liberale al problema dell’eutanasia, che io non posso interpretare come un conflitto tra valori, ma al limite come un conflitto tra libertà: la libertà di chi vorrebbe morire contro la libertà di chi vorrebbe impedirglielo. Uno scontro, quindi, che è in realtà tra la libertà e la sua negazione. Da che parte dovrebbe stare un liberale? La domanda è evidentemente retorica. E la risposta, tuttavia, è solo parzialmente rassicurante.

Troppo facile, comunque, sarebbe sventolare i dogmi del cattolicesimo, o i simboli di un rinato sanfedismo, come se negli ultimi due secoli non fosse accaduto nulla e la secolarizzazione delle nostre società fosse solo il brutto sogno di un curato di provincia. E confesso comunque che preferisco di gran lunga una società sbigottita dalla libertà rispetto ad una società resa bigotta dai dogmi. Convinto come sono che la verità morale sia una verità plurale, non posso fare a meno che ritenere un progresso della nostra società la sua secolarizzazione e la liberazione dagli aspetti culturalmente ed eticamente più oppressivi del monoteismo. Questo non vuol dire restare sordi per principio alle ragioni delle Chiese (è bene ricordarne la pluralità), ma piuttosto impedire che le loro ragioni pretendano di tramutasi nella ragione assoluta, vincolante per tutti gli uomini. Una rilevante parte dei quali – del tutto legittimamente – non intende ascoltare le Chiese o avere un’ecclesia a cui sentirsi legato.

Il caso dell’eutanasia è uno di quelli in cui il conflitto tra i principi etici si fa aporetico, cioè irriducibile a qualsiasi norma di legge. In questi casi ogni costrizione legale diviene la manifestazione di una violenza alla libertà, perché nessuna autorità collettiva è autorizzata a decidere della responsabilità altrui. Tanto meno se vanta come sua unica forza la fede, che non può essere in alcun modo un fondamento della coercizione e non sempre sta in armonia con la ragione, come pure spesso si vorrebbe far credere, nel tentativo non di elevare la fede, ma di piegare la ragione ai suoi desideri e spogliarla della sua potenza critica e pensosa.

Quindi, se si usa il metro della libertà, non credo che il diritto all’eutanasia umili la dignità umana. Semmai la esalta. Dove la libertà umana potrebbe rivelarsi in modo così tragico ed elevato, se non nel momento in cui essa può decidere che la sua dignità vale più del mero esistere biologico? In nessuno. Né credo che dovremmo occultare questa tragedia della nostra libertà dietro la rassicurante forma delle proibizioni religiose. Piuttosto dovremmo guardarla in faccia, e riconoscere che solo ammettendola potremo rispettare quella libertà plurale e finita che costituisce la nostra tragica – ma unica – ricchezza.