Privacy Policy Cookie Policy

 

Una Fondazione trova soluzioni

Contribuire a fondare un rapporto nuovo e fruttuoso tra credenti e non credenti comporta anche avere idee nuove su problemi antichi senza farsi prendere dalla pigrizia e dall’effetto rassicurante di schemi già percorsi.
Consiste in questo la missione di una fondazione: trovare risposte alle domande della politica, proprio quando questa mostra di non avere le idee chiare. Una fondazione che si limiti a ripetere gli slogan politici della sua area di riferimento diventa sterile e inutile.
Nel dibattito di questi giorni sull’eutanasia, nella maggior parte dei casi, si sono manifestate “posizioni” e non idee. La politica ha risposto alle sollecitazioni del caso Welby con gli automatismi classici che vedono i laici reclamare diritti e i cattolici innalzare i loro non possumus.
E’ certo che tentare vie nuove su questi temi comporta una notevole fatica e una gran dose di onestà intellettuale, ma è altrettanto certo che se si perdono occasioni di questo genere “il nuovo dialogo” che si tenta di costruire non prenderà mai il via.
Per discutere seriamente di eutanasia occorre che la materia di cui trattiamo sia messa in luce e sia sgombrato il campo da fraintendimenti.

Casi limite, ma non solo.

Proviamo a ragionare partendo da due casi limite, quello di Terri Schiavo e quello di Piergiorgio Welby, ammettendo nello stesso tempo che è proprio l’incoercibile differenza di milioni di singoli casi a rendere difficile un ragionamento sistematico e definito.
Terri Schiavo è morta 14 giorni dopo la sospensione dell’alimentazione artificiale che l’aveva tenuta in vita per 15 anni in stato di coma vegetativo persistente. Il marito di Terri Schiavo ottenne l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione – dopo anni di ricorsi giudiziarii – dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.
La vicenda di Terri, per la nostra discussione attuale, mette in campo la questione del testamento biologico. Terri non aveva lasciato un “living will”, non aveva cioè messo per iscritto le sue volontà circa il tipo di cure che avrebbe voluto o non voluto in caso di una malattia che le impedisse di esprimerle personalmente. Il “living will” o testamento biologico è in sostanza il modo per stabilire “a priori” e in anticipo quel “consenso informato” che ogni paziente ha diritto di esprimere sulle terapie che gli vengono proposte. Negli Usa si tratta di una prassi diffusa e riconosciuta, che aiuta medici e familiari a compiere scelte tenendo conto – anche se non in modo automatico – dei desideri del malato. Recenti sondaggi sostengono che un terzo degli americani hanno depositato una qualche forma di living will.
E’ stata la mancanza di un documento del genere che ha reso il caso Schiavo così lungo e controverso, anche se il marito aveva più volte sostenuto che Terri aveva espresso verbalmente il desiderio di non essere tenuta in vita in caso di coma.
Una vicenda simile in Italia è quella di Eluana Englaro, anche lei in coma da 15 anni, con il padre che cerca di ottenere il permesso di sospendere l’alimentazione forzata da almeno 12 anni. Anche in questo caso non esiste un testamento biologico. E’ il padre a sostenere che Eluana, poco tempo prima del suo incidente, assistendo alla malattia di un amico tenuto in vita artificialmente, gli avesse confidato di non volere per sé trattamenti del genere.
Davanti alla drammaticità di vicende come quelli appena ricordate, si tende a credere che la presenza o meno di un documento scritto contenente le proprie ultime volontà sia un elemento marginale. Eppure non è così: alla prova dei fatti esso si è rivelato spesso dirimente ed efficace in vicende altrimenti non decidibili.

Il testamento biologico: una piccola luce nel buio

Il testamento biologico tutela la persona su più fronti. E’ una difesa sia dall’”accanimento affettivo” di parenti non in grado di rassegnarsi alla scomparsa di un congiunto, sia – all’opposto – dal disinteresse o dall’abbandono. E insieme è una difesa, sul versante medico, sia dall’accanimento terapeutico, sia – di nuovo all’opposto – fa fenomeni estremi, frutto magari di eutanasie clandestine o più semplicemente da criteri “utilitaristici” circa l’impiego di risorse in casi dubbi. Va notato – in questo senso – che negli Usa, solo 10 Stati hanno leggi che impongono il rispetto della volontà del paziente circa l’alimentazione e l’idratazione. Tutti gli altri consentono ai medici di valutare liberamente la “qualità della vita” del paziente e di conseguenza se sospendere nutrimento e liquidi. Si vede dunque che il testamento biologico è più spesso una difesa della vita che una scorciatoia per la morte.
Il testamento biologico non è oggi previsto dalla legislazione italiana, anche se l’Italia, in sede comunitaria, ha ratificato (ma non depositato) la Convenzione di Oviedo, che all’articolo 9 recita:
I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione.
La vaghezza di questa formulazione fa immediatamente capire che la questione non è semplice come appare, perché chiama in causa una decisione circa quali siano i “desideri” del paziente che possono essere presi in considerazione e in definitiva pone la questione, non del tutto risolta, di cosa si intenda per “accanimento terapeutico”.
Lo stesso comitato nazionale di Bioetica, quando si è concentrato sulla questione del testamento biologico, ha mostrato dissensi al suo interno circa la possibilità per il “dichiarante” di inserire tra i trattamenti non desiderati l’alimentazione e l’idratazione artificiale.
La maggioranza del comitato mette in dubbio questa possibilità sostenendo che alimentazione e idratazione non siano trattamenti medici ma ordinaria assistenza di base, tale da non poter essere soggetta a interruzione né per volontà anticipata del paziente né per richiesta di terzi. Una minoranza del Comitato, basandosi sulla letteratura scientifica prevalente in materia, sostiene che si tratti di pratiche mediche a tutti gli effetti e che quindi vadano ricompresse nelle direttive anticipate.
Il versante più liberale del comitato, infine, ritiene che tutto ciò che è legalmente consentito a un paziente vigile e cosciente circa la possibilità di accettare o rifiutare qualsiasi tipo di cura o assistenza (alimentazione e idratazione comprese) può allo stesso modo essere ammesso nelle “dichiarazioni anticipate di trattamento”.
C’è ovviamente da tenere in contro la natura del tutto particolare del testamento biologico rispetto alle sue implicazioni emotive e alla sua invalicabile genericità circa le previsioni future sulla propria salute. Un conto è la scelta di lasciare qualcosa a qualcuno, un altro quella di lasciare se stessi, la propria vita e morte, all’interpretazione di un documento testamentario.
Per quanto sia possibile cambiare fino all’ultimo le proprie volontà non si può mai essere certi che quanto deciso e scritto in salute rimanga vero quando si è vittime della malattia.
Spesso avanzare un rifiuto a priori verso certe terapie estreme coincide con il rifiuto ad accettare che esse possano un giorno divenire necessarie.
Per questo non si ritiene che le volontà espresse nel living will debbano avere una applicazione automatica. E, normalmente, si affidano queste volontà ad un “fiduciario”, qualcuno che sia in grado di interpretarle e attualizzarle nel confronto con i medici e con il resto dell’entourage del malato.
Quel documento rappresenta una traccia da seguire e da interpretare, una luce nel buio.
Il testamento biologico è, in sostanza, quanto più si avvicina al principio secondo cui a ciascuno spetta di decidere sulle cure e indirettamente sulla propria morte. Più dunque che alle leggi, ai medici, ai familiari o a chiunque altro. Quando nel dibattito pubblico si parla di eutanasia c’è sempre un vizio di fondo nella discussione: si tende cioè a parlare della vita o della morte degli altri, siano essi casi di cronaca o “gli altri” in astratto. Si utilizza cioè un pensiero “solidale” o “sociale” e quasi mai un pensiero personale. Non è un caso se nei sondaggi più accurati che si fanno negli Usa, le stesse persone che si dichiarano interessate a lasciare un testamento biologico molto restrittivo riguardo a se stessi, dichiarano contemporaneamente che non applicherebbero le stesse regole nel caso di un congiunto nelle stesse condizioni.
Il testamento biologico riporta al centro della riflessione la persona, nella sua unicità e autonomia. E mette ciascuno davanti alla responsabilità di pensare a ciò che si desidera per sé per quando non si dovesse più essere in grado di chiederlo.
Nessun pretende che si tratti di soluzione perfetta e incontrovertibile ma è l’unico strumento a disposizione per affrontare casi altrimenti indecidibili solo alla luce di norme o diritti.
Per tornare la caso di Terri Schiavo non v’è dubbio che tutto sarebbe stato diverso alla presenza di un testamento biologico. Non vogliamo dire meno doloroso o meno traumatico, ma certamente meno controverso e meno inutilmente clamoroso. Se fosse stata nota la versione che Terri aveva della dignità della propria vita, di quale limite non avrebbe dovuto essere valicato per preservarla, medici e familiari avrebbero avuto una guida per le loro comunque terribili decisioni.

I cattolici conoscono il senso della rassegnazione.

Il pensiero religioso e in particolare cristiano non è estraneo a questo tipo di riflessioni. Esiste nella disposizione dei credenti verso la morte un sentimento di pia rassegnazione all’esito finale della propria vicenda terrena. Rispetto al quale l’indefinito rinvio affidato alla tecnologia medica rappresenta una forma di ubris. Papa Wojtyla, dopo le ultime inutili giornate di permanenza al Gemelli è rientrato in Vaticano, poche ore prima di morire disse: “Lasciate che io mi ricongiunga con il mio Creatore”. Il Pontefice intendeva proprio questo: non trattenetemi oltre il dovuto, la morte non è la fine ma un nuovo inizio. L’indisponibilità dell’uomo da parte dell’uomo è vera fino in fondo ma non oltre. Come dice il cardinale Caffarra nella sua relazione a Norcia, “Tutto è dell’uomo, ma non l’uomo perché questi è di Dio”.
Giovanni Paolo II era intervenuto sull’eutanasia con un messaggio importante inviato ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sulle Cure Palliative promossa in Vaticano dal Pontificio Consiglio per la Pastorale Sanitaria. Secondo Wojtyla l’interruzione della terapia “è eticamente corretta quando la stessa risulti inefficace o chiaramente sproporzionata ai fini del sostegno della vita o del recupero della salute”, con “l’obbligo di evitare ogni forma di ostinazione o accanimento terapeutico” e con quello di “lenire i sintomi di sofferenza di ordine fisico, psichico e mentale con le cure palliative”. In queste parole non c’è ovviamente alcuna traccia di condiscenda verso eventuali richieste di morte del paziente, ma c’è una doppia indicazione per i medici: è giusto sospendere cure non efficaci e sproporzionate ed è obbligatori fornire farmaci al solo scopo di lenire la sofferenza. L’azione congiunta di simili provvedimenti ammette il rischio di un’accelerazione del sopraggiungere della morte.
Si torna qui al tema dell’accanimento terapeutico e in un certo senso anche a quello di una forma indiretta di eutanasia. L’impressione generale è che per la Chiesa, ma non solo, si tratti di una questione è meno sensibile di quella dell’aborto o della manipolazione degli embrioni. In questi casi infatti è evidente (per i credenti e per i laici non laicisti) la violazione di un diritto del più debole che la società deve farsi carico di proteggere. In quelle decisioni si ha a che fare con “qualcun altro” prima ancora che con se stessi. Le scelte di un paziente riguardo alle terapie che gli vengono o gli verranno proposte attengono solo a lui stesso e non mettono in gioco diritti di altri, a meno che non si pretenda un intervento attivo in nome proprio di un qualche diritto.
Il diritto ad essere uccisi chiamerebbe in gioco il diritto del potenziale uccisore a rifiutarsi: avremmo medici e magari infermieri che invocherebbero giustamente l’obiezione di coscienza, si produrrebbero conflitti tra obiettori e non obiettori, avremmo comitati, consultori, probi viri e ricorsi al Tar. Con l’unico risultato di trasformare la morte di una lunga procedura burocratica.

Non esiste un diritto a morire e tanto meno ad essere uccisi.

In questo senso è sbagliato ritenere che attorno all’eutanasia si giochi una partita sui diritti. Non esiste un diritto a morire o ad essere “terminati”, perché questo sì lederebbe la sfera dei diritti altrui e porterebbe la morte fuori dal suo mistero e dentro la burocrazia.
L’idea che morendo si eserciti l’ennesimo e insieme l’ultimo del proprio bagaglio inalienabile di diritti o capricci è aberrante. Così come non c’è un diritto a dare la vita, a procreare, non c’è un diritto a dare o ricevere la morte. Chi organizza manifestazioni, proteste, digiuni in nome di questa pretesa crede di agire per un principio liberale e invece attua la più spaventosa deportazione del singolo nel lager della massa. Collettivizza la morte e ne pretende la pianificazione a fin di bene.

Molte delle cose che abbiamo detto sin qui valgono anche per il caso di Piergiorgio Welby, ma vale aggiungere alcune specifiche riflessioni.
A differenza di Terri Schiavo, Welby, pur affetto da una malattia totalmente invalidante e degenerativa, è cosciente e perfettamente capace di intendere, di volere e di comunicare. La sua richiesta di morire è così energica, coraggiosa, efficace che quasi paradossalmente denuncia il suo attaccamento alla vita.
Welby ha piena facoltà di scelta rispetto alle sue condizioni terapeutiche ma con conseguenze non sempre coerenti o desiderabili. Potrebbe chiedere al medico che lo assiste di sospendere la ventilazione artificiale che lo tiene in vita, ma appena persi i sensi a causa dell’asfissia, lo stesso medico sarebbe indotto a ripristinare la ventilazione pena una grave omissione nell’assistenza di un moribondo. Anche ai i familiari che eventualmente si sostituissero al medico in un operazione del genere toccherebbe un’incriminazione per diversi reati.
Welby potrebbe altresì chiedere che vengano sospese l’alimentazione e l’idratazione artificiale ma molto probabilmente non vuole andare incontro a una lenta morte per inedia ad occhi aperti.
Potrebbe infine sospendere l’assunzione di farmaci e questo potrebbe accelerare il progresso della sua malattia e il sopraggiungere della morte. Ma le conseguenze di una simile sospensione non sono interamente prevedibili e neppure prive di effetti collaterali dolorosi.
Il caso di Welby è il caso drammatico di qualcuno che reclama il diritto di morire e in definitiva di essere ucciso.
Come già detto sopra è molto dubbio che una simile soluzione possa essere prevista dal diritto positivo in nome di un diritto a morire. Forse, ma ci avviciniamo a questa ipotesi in punta di piedi, può essere ammessa una accorta depenalizzazione o attenuazione delle previsioni di reato in tali casi.

Questo consentirebbe di tenere viva una valutazione caso per caso degli infiniti e irriducibili casi di cui parlavamo all’inizio e di restituire il più possibile ad una scelta personale il momento finale della vita senza trascinare medici o familiari pietosi in un soprammercato di dolore legato alla punizione del reato. In questo caso la rinuncia dello Stato a punire non sarebbe il segno di una defezione, ma un passo indietro rispetto a una sfera in cui le sue prerogative sono giustamente limitate. Una posizione del genere non sarebbe evidentemente estranea al punto di vista liberale, ma – crediamo – neppure a quello cristiano non clericale. La Chiesa potrebbe mantenere la sua libera valutazione circa il peccato senza appellarsi alla dimensione penale. Mentre lo Stato potrebbe continuare a riconoscere l’esistenza di un reato, rinunciando in alcuni casi a punirlo. Lasciando l’onere della prova a chi si avventura sul sentiero della buona morte.