Privacy Policy Cookie Policy

 

In questi giorni per gli ebrei è Hanukkah, la festa delle luci. Intorno le luci di Natale. Ma a scuola i miei figli non incontrano un’esperienza religiosa diversa. Trovano soltanto Babbo Natale con una slitta carica di giocattoli e di luoghi comuni multiculturali. Non devo spiegare loro chi era Gesù e cos’è il cristianesimo, bensì difendere la loro esperienza religiosa dall’assedio del consumismo, o arrabbattarmi a spiegare l’insipida storiella di Natale raccontata a scuola: la storia di un bambino italiano, svedese o musulmano (ma musulmano è una nazionalità?) che diventa un bambino qualsiasi per non far torto a nessuno.

Mi si potrebbe chiedere cosa mai pretenda. Rimpiango forse i tempi della mia fanciullezza, in cui circolava abbondantemente l’antigiudaismo? Tempi in cui potevo incontrare un sacerdote che spiegava alla classe che gli ebrei erano crudeli deicidi e, carezzandomi la testa, aggiungeva che io, poverino, non c’entravo, dopodichè nessuno voleva più sedere nel banco con me. Non li rimpiango, apprezzo il grande cammino percorso e non sono di quei masochisti che preferiscono non vederlo mentre amano farsi torturare dall’antisemitismo islamico. Quel che voglio lo vedo tangibilmente nel rapporto con gli amici di Comunione e Liberazione: un chiaro e dignitoso senso della propria identità, rispettoso di quella altrui, senza sincretismi e senza tentativi di conversioni, obliqui o invadenti che siano. Un atteggiamento che è la chiave dell’unico dialogo possibile, quello così ben spiegato da Benedetto XVI nel discorso alla sinagoga di Colonia.

È un atteggiamento che ho appreso da mio padre in quei tempi in cui era più difficile assumerlo: tanto egli era rigoroso nel contrastare ogni sussulto antiebraico, quanto era tenace nel difendere più che la possibilità, la necessità del dialogo ebraico-cristiano. Da lui ho appreso – e vorrei trasmettere ai miei figli – a ravvisare nelle preghiere cristiane e nella messa le frasi e le benedizioni delle ricorrenze ebraiche, a scoprire che la benedizione ebraica impartita dai genitori ai figli (“Il Signore ti protegga e ti custodisca”) è la stessa di San Francesco a Frate Leone. La propria identità religiosa non rischia nulla nel cercare quel che unisce, nel riconoscere che “non si può essere cristiani se non si è ebrei” (come ha detto il cardinale Caffarra) e che la prima esperienza religiosa con cui un ebreo deve misurarsi e con cui deve dialogare è quella cristiana.

Il dialogo non è soltanto reso impossibile dagli atteggiamenti di sopraffazione integralista, ma è vanificato dal buonismo confusionario che, alla fine, svela più intolleranza di quanto sembri. Ho incontrato questo secondo atteggiamento alla fine della mia vita scolastica, quando nel mondo religioso avanzava il progressismo. Il docente di religione nel mio liceo era un sacerdote molto “avanzato”, poi divenuto redattore di un giornale comunista. Mi propose di restare nell’ora di religione per “dialogare”. Poi quando vide che difendevo senza complessi le mie vedute mi invitò seccamente a non disturbare le lezioni… Aveva creato attorno a sé un circolo di adepti assai motivati, molto (troppo) pervasi di una sicurezza di sé che respingeva la mia identità di ebreo non meno drasticamente dei più incalliti integralisti. Colpiva il modo in cui trasformavano l’esperienza religiosa in un’esperienza meramente sociale.

Una decina di anni fa assistetti in Spagna al matrimonio cattolico di una coppia di amici. Un prete alquanto informale eseguì il rito in modo casereccio, fino a che lo sposo non salì dietro l’altare e tenne una specie di conferenza colloquiale per spiegare il significato del rito secondo le vedute più “progredite”. Finì con una chitarrata. Espressi a qualcuno il mio disappunto sollevando un’ondata di ilarità: un ebreo che assumeva le vesti del cattolico tradizionalista… Tentavo di spiegare che un rito assume valore se è circondato da un’atmosfera di intensa partecipazione e di silenzioso e assorto rispetto e che perdere questa dimensione è quanto distruggere l’esperienza religiosa alle radici. Non apprezzo la confusione chiassosa delle sinagoghe romane: malgrado ciò, nel momento della benedizione finale del giorno di Kippur, quando i figli si raccolgono sotto il manto di preghiera dei genitori, si crea un silenzio irreale, su cui si staglia soltanto la voce del rabbino celebrante, davvero “la voce del silenzio”. I riti religiosi hanno bisogno di questi momenti di intensità. Assistendo a una messa ho sempre evitato l’atteggiamento del curioso, cercando di capire l’esperienza religiosa e i sentimenti dei fedeli. Non vi è nulla da rimproverare alle forme più o meno mondane di socializzazione, ma è incongruo e insensato surrogare con esse l’esperienza religiosa. Inoltre, chi pretende di creare questi surrogati tende a conferire alle sue pratiche la sacralità della funzione originale e ad assumere atteggiamenti arroganti e intolleranti tipici dell’integralismo. Visto che si considera investito del potere di tradurre i riti della sua fede nelle forme socializzate da lui decise, figuriamoci quale rispetto può avere per le fedi altrui. Un giorno pranzai con uno di questi sacerdoti iperprogressisti che mi spiegò con sussiego e sdegno che l’ebraismo era una religione rozza e brutale e che il cristianesimo, pur avendo fatto qualche progresso, aveva ancora molto da apprendere da una religione tanto più evoluta come l’islam… Non poteva darsi una manifestazione più clamorosa di odio di sé.

Non rimpiango un certo passato ma non mi piace il “presepe” di oggi. L’evoluzione dell’insegnamento di religione nelle scuole illustra ulteriormente l’andazzo. Le novità introdotte dal secondo Concordato non hanno costituito affatto un progresso. Certo, prima occorreva chiedere l’esenzione dall’ora obbligatoria di religione, che però veniva concessa sempre: se eri piccolo restavi in classe a fare quel che volevi e l’unico rischio era di incontrare qualche persona malevola; quando eri più grande uscivi prima o entravi dopo, perché la collocazione dell’ora lo consentiva sempre. La perversa introduzione delle ore sostitutive obbligatorie crea un sentimento di esclusione molto più grave. Il mio figlio più grande fu costretto a sorbirsi un’annata di lettura del Corano, i più piccoli si destreggiano tra attività improbabili e libercoli intrisi di un insopportabile buonismo multiculturale da cui ricavano un’unica sbagliatissima conclusione: che sono “diversi”. Su tutto domina la tiritera secondo cui l’ora di religione è sì confessionale, ma a tal punto “aperta” che non può che “far bene a tutti”. Il guaio, per l’appunto, è che è troppo aperta, fino a generare il proselitismo del nulla. Così, può capitare l’insegnante – non meno devastante del sacerdote della mia infanzia – che invita i piccoli a fare pressioni psicologiche sul loro compagno perché partecipi anche lui e si tolga dall’isolamento. Sono manifestazioni di arrogante debolezza che alimentano soltanto il discredito e la disaffezione per l’insegnamento della religione.

È questo un tema su cui si possono fare proposte precise per un’ora di religione obbligatoria non confessionale ma per nulla confusamente “storico-culturale”, la quale trasmetta i valori spirituali che sono a fondamento delle nostre società. Ma è un discorso troppo serio e complesso per rischiare di trattarlo male in poche righe.

Vorrei concludere dicendo che occorre arrestare la corsa verso il disprezzo della spiritualità, in particolare di quella religiosa. Un Natale così non fa bene a nessuno. Si ricominci pure a fare i presepi nelle scuole e a cantare “Stille Nacht”. Ho accompagnato tante volte delle compagne di scuola a comprare le bellissime figurine dei presepi di stile napoletano e sono ancora qui, senza aver perso nulla della mia identità ebraica. È molto più importante sbarazzarsi di questo Babbo Natale politicamente corretto, con la pelle multicolore a vestito di Arlecchino e la slitta vuota di spiritualità e carica di cellulari.

da Avvenire