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Intervista al Sen. Gaetano Quagliariello, Presidente della Fondazione Magna Carta

La Fondazione Magna Carta inizia la sua attività nel 2003 sotto la guida del suo Presidente, il Senatore Gaetano Quagliariello. Fulcro del lavoro della Fondazione è l’analisi del rapporto tra identità e modernità, tema che acquista sempre più spazio nei programmi dei think tank europei e che è stato alimentato dall’incontro intellettuale tra l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI, ed il presidente onorario di Magna Carta Marcello Pera.

In che modo istituzioni di carattere culturale possono influenzare il mondo politico in Italia e quale contributo possono dare a livello europeo?

A livello italiano ritengo che le fondazioni possano dare un grande contributo alla modernizzazione della politica. La vicenda italiana presenta delle particolarità. Il sistema politico del nostro Paese, fortemente condizionato fino al termine degli anni Ottanta dalle dinamiche della Guerra Fredda, è rimasto bloccato per oltre 40 anni. Ciò, tra le altre cose, ha comportato una patologica longevità della classe politica che è rimasta legata a una concezione della lotta politica per la quale ogni decisione aveva tempi lenti e un’ampia possibilità di sedimentazione. Oggi lo scenario è cambiato del tutto. Non perché la figura del leader politico “umanista” sia tramontata, ma perché egli rappresenta il terminale di un lavoro di approfondimento e preparazione svolto dietro le quinte: opera che precede la messa in scena del conflitto politico.
L’Italia, dinanzi a questa profonda trasformazione che ha investito tutti i sistemi politici moderni, è rimasta indietro. E, a partire dal 1992-94, con il venir meno della classe politica legata ai partiti, si è prodotto un gran vuoto solo in parte occupato da élites estranee alla politica. La sinistra, quanto meno, poteva vantare un po’ di continuità ma a destra, agli esordi, il vuoto è stato veramente impressionante.
Le strutture di riflessione dette “think-tank” stanno oggi aiutando la destra a superare questo ritardo, mentre la continuità che un tempo ha avvantaggiato la sinistra si è per essa trasformata in un impedimento a prendere atto dei nuovi scenari. E ciò spiega perché in Italia, fino ad oggi, la destra ha investito più della sinistra in queste strutture di studio.
A livello europeo i conflitti politici stanno cambiando sotto i nostri occhi costringendoci a modificare molte categorie tradizionali dell’analisi politica. Per questa ragione in Europa le fondazioni possono aiutare ad evidenziare le novità “sovrannazionali” che oggi propongono le medesime sfide alle diverse formazioni del centrodestra europeo.

Come si rapporta la cultura religiosa italiana a fronte dell’ingresso di un paese di tradizione prevalentemente islamica come la Turchia nell’Unione Europea?

Dinnanzi a questo scenario vi sono due grandi problematiche. Non vi è dubbio che l’ingresso della Turchia renderebbe i già deboli confini identitari dell’Europa ancora più incerti. Inoltre, verrebbe meno il confine geografico al sud facendo correre all’Unione il rischio di perdere il carattere di esperienza storica definita per trasformarsi in un’entità dal carattere metapolitico.
Dal punto di vista della Turchia, paradossalmente, i pericoli sono speculari: a contatto con le tolleranti disposizioni europee essa potrebbe ammalarsi di “relativismo” attenuando il controllo dell’insorgenza estremista dell’islamismo dalla quale finora il governo centrale ha saputo preservare la fragile esperienza democratica del Paese. Questi due rischi sono ben presenti alla Chiesa che ha per questo fin qui modulato un atteggiamento prudente nei confronti della Turchia: di stimolo e verifica che, però, non si è mai trasformato in opposizione dichiarata.

In che modo Magna Carta si raffronta con altre fondazioni di carattere europeo e statunitense, quali sono gli elementi di affinità e quali le differenze?

Una parte del nostro lavoro è volta ad implementare questa rete di contatti. Con le fondazioni americane, oltre allo scambio reciproco di materiali, abbiamo in agenda un incontro annuale sullo stato dei rapporti transatlantici che vede la partecipazione dei migliori analisti di politica estera, sia da parte statunitense che italiana. Siamo giunti alla terza edizione. A livello europeo Magna Carta partecipa, insieme a Nuova Res Publica, al network delle fondazioni dei partiti di centrodestra che aderiscono al Partito Popolare europeo ed ha, inoltre, rapporti molto stretti con la Faes e con la Conrad Adenauer Stiftung.

Il nome Magna Carta fa riferimento ad un documento essenziale della storia politica anglosassone, la Magna Charta Libertatum, emanata nel 1215, che consisteva nella “definitiva ratifica delle libertà già vigenti”. In che modo la Fondazione si ispira a questi principi rapportandosi ai conflitti ideologici che sovrastano la società moderna?

Il riferimento è a quel tipo di liberalismo conservatore espresso dalla tradizione anglosassone. L’idea di fondo racchiusa nella forza evocativa del nome Magna Carta è che sia possibile un approccio liberale non pregiudizialmente ostile verso la modernizzazione ma che, al contempo, ritenga la tradizione un patrimonio da non disperdere. In Italia il termine “conservatore” è stato a lungo bandito perché considerato “politicamente scorretto”, e solo di recente è stato rivalutato. Anche per questo si è verificato un paradosso: i fautori di un liberalismo di tipo conservatore sono coloro che stanno innovando più profondamente la cultura politica del Paese.

La Fondazione si ispira ai “think-tank” anglosassoni, per definizione aggregazioni che hanno l’ambizione di trovare soluzioni ai problemi originati dal mutare della società. Nello specifico, in che modo Magna Carta ha affrontato i principali mutamenti sociali e politici che si sono susseguiti dalla data della sua fondazione ad oggi?

Gli ambiti problematici su cui abbiamo concentrato il nostro lavoro sono stati principalmente due: la politica estera e i suoi sconvolgimenti, innanzitutto. La caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo, il cosiddetto decennio della spensieratezza – gli anni Novanta, nel corso dei quali si era giunti a ritenere che la storia fosse finita –, l’11 settembre 2001 hanno modificato il mondo nel quale viviamo, la sue priorità e i suoi conflitti. Da questa riflessione è scaturito, per naturale derivazione, il secondo ambito d’interesse privilegiato: quello delle tematiche identitarie. Siamo infatti convinti che le nuove sfide che la politica mondiale ci sta ponendo non si risolvano soltanto sul terreno geopolitico, ma abbiano bisogno anche, e obbligatoriamente, di una risposta sul terreno culturale, recuperando l’attenzione smarrita per l’identità.

In che modo i principi di fondo della democrazia attraverso il veicolo del confronto tra le religioni possono contrastare l’escalation del fondamentalismo e della violenza terroristica culminata nell’attentato dell’11 settembre senza il rischio di cadere nel relativismo culturale?

L’Occidente deve rivendicare la propria storia, la propria tradizione, le proprie origini e tutto ciò non certo per un atteggiamento bellicista o per rinfocolare il conflitto, ma esattamente per il contrario. Perché solo laddove esistono convinzioni forti è possibile evitare che uno dei due contendenti abbia la tentazione di sovrastare l’altro. Se si vuole realmente un dialogo con il mondo islamico è necessario riguadagnare la consapevolezza della forza che ci deriva dalla nostra storia e dal nostro patrimonio culturale.

Nel confronto con altre religioni e culture in che modo è possibile preservare le proprie tradizioni e radici?

Le religioni non possono essere relativizzate per definizione, soprattutto se si tratta di religioni monoteistiche e rivelate. I dogmi della fede non possono essere posti su una bancarella e divenire oggetto di contrattazione. Quando poi le religioni “precipitano” a livello di culture, è evidente che, sotto tali spoglie, esse si contaminano. Per questo è necessario distinguere ciò che è indisponibile – quei principi che costituiscono il nucleo duro di una fede e che questa ha trasferito a una civiltà – da ciò che, invece, può e deve contaminarsi. Perché le culture si modificano un po’ ogni giorno. Non sono qualcosa né di stabile né di eterno.

Quali sono le sfide culturali e politiche che la Fondazione Magna Carta si propone per il futuro?

Un nostro obiettivo specifico è di promuovere una grande iniziativa di formazione politica che in parte abbiamo già intrapreso lo scorso anno con la prima Summer School di Magna Carta. E’ stata un’esperienza esaltante da cui è emersa una nuova generazione di giovani del centrodestra, con riferimenti culturali chiari ed unitari indipendentemente dalle loro diverse militanze partitiche. Una generazione che si potrebbe definire politicamente “rivoluzionaria”, in quanto immagina l’impegno politico in modo radicalmente diverso da quello caratteristico del passato; liberale in economia e conservatrice nei costumi.
L’altra grande battaglia è quella di declinare il tema dell’identità, intercettato anche grazie al contributo del Presidente Pera e dell’allora Cardinale Ratzinger, in alcune iniziative concrete. Per quanto concerne la cittadinanza stiamo provando a proporre un approccio di carattere “qualitativo” e non meramente “quantitativo” al fenomeno, attento non solo al numero degli immigrati ma, soprattutto, ai criteri di selezione di coloro che meritano di divenire cittadini italiani. Per quanto concerne l’ambito dell’educazione, stiamo lavorando alla proposta di un nuovo modello di scuola che possa favorire l’integrazione. Il terzo terreno d’impegno è quello di salvaguardare il più possibile il principio di parità e dignità per le donne immigrate in Italia che oggi versano in situazioni spesso drammatiche. Molte di loro si trovano in condizioni di subordinazione peggiori di quelle vigenti nei loro rispettivi Paesi d’origine.

Siamo, insomma, convinti che l’integrazione sia il tema del futuro. Gli immigrati possono essere una grande risorsa o un enorme problema. Dopo il fallimento del modello multiculturale in Inghilterra e di quello assimilazionista in Francia è necessario intraprendere una nuova strada se desideriamo evitare che i conflitti che si sono drammaticamente manifestati in altre realtà nazionali giungano anche in Italia. In questo sforzo, la politica può ricevere un grande aiuto da strutture come le fondazioni. Noi stiamo facendo tutto il possibile affinché al centro-destra questo aiuto non venga a mancare.

da Charta Minuta, numero 87, dicembre 2006