Relazione al Convegno
Identità e futuro
Fondazione Liberal
Si può proporre una prima approssimativa definizione del “berlusconismo” dal punto di vista ideale. Esso si presenta come una forma di politicizzazione di ceti medi e popolari, attraverso il legame carismatico con una personalità estranea alla politica “ufficiale” e sulla base di un orizzonte ideologico di “liberalismo popolare”.
Se questa definizione ha un fondamento, il “berlusconismo” deve considerarsi una rilevante novità, non soltanto rispetto all’orizzonte della storia repubblicana ma persino rispetto a quella dell’Italia novecentesca. Per intendere tale novità in tutta la sua portata, si deve però ripercorrere l’evoluzione politica di quel settore della società che corrisponde alla definizione di “ceti medi”. Questi avrebbero dovuto essere gli interlocutori “naturali” di una politica “liberale” mentre in Italia il liberalismo ha dimostrato un’endemica incapacità di legarsi ai ceti medi abbandonando l’originaria dimensione elitaria e alto-borghese.
Se si vuole rintracciare la genesi di tale distacco bisognerà spingersi indietro nel tempo, fino al momento del formarsi di una politica di massa, nel corso dell’età giolittiana. Giolitti in particolare, interpretando il suo ruolo innanzitutto come ricerca continua di una mediazione fra interessi costituiti, aveva ritenuto di dover puntare sul perfezionamento dei tradizionali strumenti di controllo: i prefetti, l’apparato burocratico, il sistema elettorale maggioritario con collegio uninominale. Per questo, si era mostrato politicamente poco interessato a stabilire un collegamento organico proprio con i ceti medi non organizzati.
Questi strati sociali, però, la cui presenza nella società e il cui peso politico andavano inevitabilmente crescendo non si rassegnarono a un ruolo ancillare. Essi, alla ricerca di una propria autonomia politica, voltarono le spalle alle élites liberali e furono piuttosto attratti dal movimento nazionalista prima e da quello fascista poi.
In Italia, dunque, la politicizzazione dei ceti medi non è avvenuta tramite un moderno partito liberale e una cultura liberaldemocratica di massa, bensì attraverso la miscela di nazionalismo e antiparlamentarismo sfociata nell’adesione, più o meno attiva, al regime fascista.
All’indomani della sconfitta e della fine dello Stato monarchico, essi espressero la loro inquietudine e il proprio disagio rispetto all’affermarsi della “repubblica dei partiti” in un primo tempo concedendo forza al fenomeno del qualunquismo (all’interno del quale, al di là di tutto, non si può ignorare la presenza di una componente di liberalismo popolare) per poi confluire, nel 1948, in massima parte nella Dc. L’anticomunismo fu uno degli elementi di fondo di tale nuova collocazione. Il che fa capire come fra il 1946 e il 1948 in Italia si giocò una partita decisiva fra Dc e Uomo qualunque proprio sul monopolio dell’anticomunismo. La vinse la Dc trasformandosi così da partito cattolico in partito della “borghesia italiana”. Ed essa ereditò per questo anche la dose di anti-antifascismo presente nell’elettorato dell’Uomo Qualunque: ovvero una diffidenza radicata verso la nuova mitologia resistenziale, la pedagogia antifascista e la sensazione, che la realtà vissuta nel ventennio precedente non corrispondesse alla vulgata che si stava diffondendo.
La frana azionista e poi quella liberale, fra il 1946 e il 1948, derivarono dunque da questo mancato incontro con le proprie forze sociali di riferimento e furono all’origine della crisi della cultura politica liberale in periodo repubblicano perché ne costituirono, al tempo stesso, il sintomo rivelatore e il fattore scatenante.
L’Italia della fine degli anni ’40 era ancora prevalentemente un Paese rurale, mentre le masse urbane esprimevano una naturale insofferenza nei confronti della politica che si traduceva in diffidenza verso i partiti e che, il più delle volte, finiva per investire la stessa dimensione parlamentare. Al cospetto di tale realtà un movimento liberale maturo avrebbe dovuto votarsi a una paziente opera di recupero politico, non rompendo i ponti con le sue masse di riferimento. La parte migliore della cultura liberale, invece – si pensi, ad esempio, all’esperienza del «Mondo» di Mario Pannunzio – preferì auto-confinarsi in un ruolo minoritario, non sopportando lo iato che esisteva fra i forti richiami alla “razionalità” e all’equilibrio degli interessi, di cui si diceva portatrice, e la realtà di quella parte del Paese alla quale, naturaliter, avrebbe dovuto rivolgersi. In quelle analisi c’era più di qualche elemento di verità. Ma esisteva anche, in quel liberalismo, una vocazione minoritaria e aristocratica che gli derivava da alcuni elementi di fondo della sua forma mentis.
Al cospetto delle due Italie costrette ad una forzosa convivenza e che rappresentavano la realtà del Paese nel tempo della guerra fredda, il mondo liberale restava sovente “terzo”, oltremodo soddisfatto della sua “terzietà”. La sua supponente superiorità, quell’anticlericalismo gustoso, raffinato e composto al quale non intendeva rinunziare producevano un complessivo spaesamento rispetto alla realtà italiana, avvertita come frutto di un’arretratezza antica e di una corruzione nuova. Il liberalismo elitario della prima fase della Repubblica, insomma, non riusciva a intercettare il Paese e nelle sue potenzialità di sviluppo. Per esso l’Italia restava sempre e prevalentemente quella “alle vongole”.
Questi atteggiamenti non facevano soltanto correre il rischio di un grave difetto e di percezione delle dinamiche e dei fermenti che percorrevano la società italiana. Essi, nel lungo periodo, avrebbero potuto anche comportare una conseguenza, magari involontaria, non scontata ma probabile: la fine dell’anticomunismo. Come era accaduto dopo la guerra, quando una parte rilevante dell’intellettualità crociana e liberale era entrata nell’orbita comunista appunto in nome del laicismo, così a partire dai tardi anni Sessanta la visione “sconfortante” della realtà nazionale rischiò di indebolire le ragioni dell’alleanza fra cattolici, socialisti e liberali e, conseguentemente, di offrire una chance all’opposizione comunista, percepita non più come alternativa radicale alla democrazia liberale ma come reazione alle ragioni di scandalo o di tensione presente nella società italiana. Non casualmente, anche in casati liberali, dei comunisti si cominciò ad apprezzare la serietà, la dedizione alla politica, il disinteresse. Sono le dinamiche che trovarono uno sbocco esemplare nell’impasto politico-culturale che anima la «Repubblica» di Eugenio Scalfari. Solo che, seguendo tale percorso, alla fine degli anni Settanta, il vecchio liberalismo elitario si trasforma geneticamente in “snobismo liberale” di massa.
Non vi è dubbio che, nel corso di questo percorso, i ceti medi moderati abbiano subìto un’erosione: basti pensare al destino di alcune grandi città, come Roma e Napoli, un tempo roccaforti di destra. Il trapasso del “generone” romano dal catto-nazionalismo degli anni Cinquanta all’edonismo democratico e acculturato dei tempi di Nicolini rappresenta, in tal senso, un dato emblematico. In questo quadro però, la nascita del “berlusconismo” si presenta come una reazione alla smobilitazione che, insieme, coglie il rinnovamento del ceto medio (prodottosi a causa delle trasformazioni che nel frattempo hanno investito il mondo del lavoro e quello dell’industria in particolare) e fa ammenda di alcune colpe storiche del liberalismo politico italiano.
Nell’assolvere questo compito, il “berlusconismo” è stato aiutato dalla contingenza storica nella quale si è prodotta la sua nascita. Esso aveva alle spalle l’esempio delle esperienze thatcheriana e reaganiana che, sebbene risalenti al decennio precedente, acquistavano sul continente una rinnovata centralità a causa dei processi epocali messi in moto dall’implosione dell’impero sovietico.
In Italia, in particolare, ciò significa che il modello consociativo fino ad allora vigente si rivela insostenibile dal punto di vista finanziario poiché gli elevati costi connessi al raggiungimento di un ampio consenso determinano inevitabilmente una spesa pubblica e un deficit pubblico insostenibili.
Nel drastico mutamento di prospettiva che caratterizza questa transizione, il “berlusconismo” sin dalla sua nascita è stato portatore di una nuova cultura politica. Forza Italia ha avuto l’indubbio merito imporre un “nuovo linguaggio” in campo economico. Si è affermata in primo luogo la convinzione che l’imposizione fiscale rappresenta il nodo più sensibile delle politiche pubbliche mentre, in precedenza, era invece diffuso l’approccio secondo il quale il livello di imposizione fiscale da un lato sarebbe stato condizionato da finalità redistributive e dall’altro sarebbe consistito in una sorta di conseguenza contabile delle decisioni di spesa. A partire dal 1994 si è viceversa imposta una inedita sensibilità che rileva innanzi tutto nell’imposizione fiscale una riduzione della libertà personale che, come tale, dovrebbe essere ridotta al livello minimo indispensabile. Si trattò di una vera e propria rivoluzione copernicana che è giunta a far riconoscere erga omnes – quanto meno per la durata delle campagne elettorali salvo poi a smentirsi e, per questo, ad essere effigiati con il naso lungo di Pinocchio – che politiche di sviluppo e di crescita economica siano inevitabilmente associate a una riduzione della fiscalità.
Nello stesso solco e, in questo caso, sulla scorta di quanto avviatosi già negli ultimi anni del primo periodo repubblicano, anche termini quali “privatizzazioni” e “liberalizzazioni” trovarono una definitiva legittimazione. Anche se, come si dirà in sede di conclusioni, su questi terreni lo iato tra le enunciazioni teoriche e le realizzazioni pratiche si presenta più significativo.
Le conseguenze ideali di queste innovazioni culturali non si sono arrestate solo nell’ambito della politica economica. La rivalutazione complessiva del “modello anglosassone” infatti e, in particolare, la declinazione dell’esempio americano come esempio positivo, sono certamente dipese dalla ispirazione atlantica che la politica estera ha avuto negli anni di governo della destra. Esse, però, sono state anche alimentate dalla volontà di trovare ispirazione in una precisa cultura politica – e di politica economica in particolare – la quale, al cospetto delle crescenti difficoltà continentali, dimostra in ogni caso di saper rispondere meglio alle sfide poste dagli esordi del terzo millennio.
Resta da analizzare come il “berlusconismo” abbia superato i limiti che, per ciò che rileva la mia analisi, il liberalismo politico aveva dimostrato nella prima fase del periodo repubblicano. A me pare che questo compito sia stato assolto particolarmente bene in due ambiti che si presentano non privi di connessioni e rimandi: il rapporto con il mondo cattolico e la proposizione di un anti-comunismo che, sebbene postumo, ha saputo recuperare un vigore che andava disperdendosi.
Forza Italia è il primo grande partito italiano che supera del tutto la frattura storica tra cattolici e laici. Questa forse, tra tutte, è l’eredità più importante che il “berlusconismo” ha ricevuto dall’ancien régime. E la deve, in primo luogo, al suo prospettarsi come “uscita di sicurezza” per tanti democristiani, socialisti, repubblicani, liberali che non intendevano andare a sinistra né hanno inteso darla vinta alla sinistra. Quest’eredità, però, non è restata inoperosa. Essa, interagendo con precise situazioni storiche, con il tempo, è stata messa a frutto.
In questa prospettiva la linea del pontificato di Giovanni Paolo II ha rappresentato il vero punto di rottura nel rapporto tra cattolici e politica. Nell’orizzonte della Chiesa di Wojtyla lo spazio per salvare la Dc fu per forza di cose limitato. Come avrebbe annunciato al convegno ecclesiale di Loreto e ribadito a Palermo, la sua volle essere una pastorale culturale, che getta le basi affinché i cattolici siano prima di tutto credenti e, sulla base di alcuni principi inderogabili, compiano le proprie scelte politiche.
Allora per i cattolici italiani cambiò definitivamente la modalità di rapportarsi alla politica. Se la Chiesa ha accresciuto la propria presenza dal pulpito e fuori, quanto restava della vecchia Dc ha finito per gravitare a destra e a sinistra, rispolverando il riferimento ai due grandi filoni del cattolicesimo liberale e del cattolicesimo democratico. E tuttavia, pur ridotte ai margini le proprie percentuali elettorali, i cattolici continuano a pesare come forza di pressione sociale e identitaria che non gravita in un partito unico. E che, se deve scegliere, decide nella maggioranza dei casi di scegliere Forza Italia.
Anche in questo caso, dunque, il berlusconismo si è trovato a intercettare processi di più lunga durata per troppo tempo rimasti inespressi, che una crisi improvvisa ha portato a maturazione. Senza dubbio il “berlusconismo” scontò presso il mondo cattolico, agli esordi, l’immagine di movimento secolare alla ricerca del benessere individuale e del successo mondano, anche a scapito della solidarietà. In tal senso, l’omelia pronunziata dal Cardinale di Milano Carlo Maria Martini nel dicembre del 1995 in occasione della festa di Sant’Ambrogio, resta un documento emblematico. Ma con il passare del tempo, e in particolare dopo la svolta epocale del settembre 2001, quel secolarismo ha saputo combinarsi con una sempre più avvertita esigenza di recupero di una tradizione identitaria, realizzando in tal modo un ulteriore aggancio con alcune correnti di cattolicesimo popolare innanzitutto (ma non solo) lombarde e venete. Il contributo che in tal senso è derivato dalla riflessione svolta da Marcello Pera assieme all’allora Cardinale Joseph Ratzinger ha assolto un ruolo importante. Mentre nello stesso tempo la sinistra, impegnata a mediare tra la corrente di cattolicesimo democratico presente nelle sue fila e la componente di radicalismo relativista e di massa divenuta sempre più importante dopo il crollo delle ideologie tradizionali, si è trovata costretta, al più, a impostare il rapporto in termini «concordatari», non potendo riconoscere che ci sono dei valori sui quali un cattolico non tratta.
Forza Italia, dunque, anche per lo specifico contributo portato in tal senso dal suo coordinatore nazionale Sandro Bondi, da partito nel quale laici e cattolici convivono si sta gradualmente trasformando in partito nel quale la distinzione tra questi due mondi perde senso politico, essendovi principi e valori della tradizione cristiana su cui si fondano le libertà e il rispetto per la persona che lo Stato laico in Occidente è stato sin qui in grado di garantire. E che, per questo, rappresentano un terreno di impegno condiviso.
Anche l’ammenda del “berlusconismo” nei confronti dell’anti-comunismo deve essere colta alla confluenza di una continuità e di un nuovo tempo. Per quanto fin qui sostenuto, non è necessario soffermarsi più di tanto a ribadire l’esistenza di un deposito storico profondo – fatto di sensibilità, pulsioni istintuali, umori che hanno generato quello che si potrebbe definire un “anticomunismo esistenziale”. Di volta in volta ribattezzato “zona grigia”, “destra sommersa”, “maggioranza silenziosa”.
Quest’atteggiamento ha incarnato un’avversione tanto profonda quanto spontanea di tanta gente per lo stravolgimento violento della “naturalità sociale” e delle esigenze più elementari della vita pratica che si intuiva, e si temeva, nel comunismo bolscevico e, più in generale, in ogni forma di costruttivismo.
Con l’irrompere della guerra fredda, però, questo “anticomunismo esistenziale” fu in larga parte incorporato nell’ambito della funzione di stabilizzazione moderata del sistema politico che la Dc si era trovata a svolgere, in modo sempre più incisivo, sin dalla crisi del governo Parri.
Per ragioni sistemiche e per ragioni politiche, però, l’anticomunismo “istituzionale” della Dc ha finito con l’assorbire – garantendolo ma in un certo senso anche soffocandolo – l’espressione dell’anti-comunismo esistenziale. Questa dinamica non ha subito mutamenti sostanziali sino al crollo della Prima repubblica. Fino al punto da determinare un’asimmetria sempre più evidente tra un anticomunismo funzionale alla gestione dei delicati equilibri interni ed esterni al partito di maggioranza relativa, ma in grado altresì di raccogliere l’opinione di quel “sommerso” moderato che negli anni Settanta avrebbe alimentato il “turiamoci il naso”, e le prassi consociative della incipiente “Repubblica conciliare”, sorrette ormai da una robusta pregiudiziale favorevole al Pci.
La reazione a questa profonda trasformazione non si sarebbe prodotta innanzi tutto in casa democristiana. Essa, soprattutto, è stata merito di un gruppo di intellettuali radunati sotto le insegne del Psi di Bettino Craxi. Si trattò del recupero di un anticomunismo certamente più culturalmente sofisticato rispetto a quello “esistenziale” ma, non di meno, fu un anticomunismo esplicito. E fu questa esplicitazione del discorso anticomunista che, più di ogni altra cosa, ha messo in contatto il “craxismo” con il “berlusconismo”, consentendo il passaggio di tanti dirigenti ed elettori del Psi nelle fila di Forza Italia.
Vista in quest’ottica, il discorso anticomunista di Berlusconi non può essere ridotto, come si tende a fare, a una componente della sua strategia di comunicazione politica, a una forma nevrotica e ossessiva di demonizzazione dell’avversario o, nel migliore dei casi, a una ripetitiva figura retorica e di propaganda strumentale alla drammatizzazione dello scontro. Si è trattato, invece, del recupero di una molteplicità di profili intellettuali, morali, antropologici e istituzionali che hanno percorso il nostro Paese e della loro attualizzazione a partire dall’elementare postulato che la fine storica di un fenomeno non coincide affatto con il venir meno di una mentalità diffusa.
Da tutto ciò è possibile ricavare delle conclusioni essenziali. A me pare che la vera forza del “berlusconismo” sia consistita nell’aver saputo intercettare esigenze politiche che hanno attraversato carsicamente il periodo repubblicano e di avergli dato voce, sostanza, passione allorquando le mutate condizioni storiche avevano creato le condizioni affinché esse si manifestassero. Da qui, innanzi tutto, è derivato il suo subitaneo successo. Ma da tale caratteristica sono derivate anche altre conseguenze.
Qualora, infatti, si accolga l’interpretazione tocquevilliana della transizione italiana, si dovrà constatare come tra la sua parabola e quella del berlusconismo si sia stabilito un perfetto parallelismo. Al punto che si deve considerare il “berlusconismo” come una struttura portante della transizione italiana: è difficile immaginare questa senza quello. Si pensi, ad esempio, al bipolarismo ovvero all’influenza esercitata dal modello partitico di Forza Italia.
Questa così profonda compenetrazione del “berlusconismo” con un processo di rivolgimento storico aiuta anche a comprendere alcune ragioni delle sue persistenti indeterminatezze. Non si tratta tanto di sottolineare la mancanza di strutture e di classe dirigente, inevitabile per un fenomeno politico che ha avuto una genesi così repentina. Ancor di più, ha contato la circostanza che per il “berlusconismo” , a differenza di altri fenomeni europei che hanno segnato così profonde trasformazioni, sia mancato un momento di legittimazione istituzionale e, dunque, di conferma nazionale. In tal senso, ha certamente pesato una sottovalutazione. Ancor più, però, è pesata l’illusione dei suoi avversari (e in parte dei suoi stessi alleati) di avere a che fare con un fenomeno transitorio e riassorbibile, legato per lo più all’irripetibile epifania di un uomo. Da qui sono anche derivate le campagne di delegittimazione personale nei confronti di Berlusconi, con gli inevitabili corollari giudiziari. Da qui derivano tutt’oggi le campagne attendiste di alcuni alleati, tese a trovare l’espediente che possa accelerare la fuoruscita del “demone” assai più che a consolidare quanto di nuovo, e di buono, il “berlusconismo” ha portato nella politica italiana.
Anche a causa di tali dinamiche, dunque, il “berlusconismo” si è trovato a determinare conseguenze assai più profonde in ambito sociale e del costume che non in ambito politico-istituzionale. Sul primo terreno esso è all’origine di alcuni processi epocali. Una maggiore mobilitazione politica dei ceti medi innanzi tutto, in luogo dell’adesione silenziosa e un po’ obbligata degli anni democristiani. Si inizia a determinare, cioè, la fine di ogni complesso di inferiorità verso le culture e il popolo di sinistra: si risponde a muso duro anche sui treni o fra la gente, si polemizza, ci si fa vedere in piazza. E poi si è attivato un processo di acquisizione di un consapevole sfondo politico-culturale di liberalismo popolare che si va strutturando come senso comune, fatto di adesione alla meritocrazia, di diffidenza anti-ideologica, di propensione per il mercato, filoamericanismo e persistenza dell’anticomunismo.
Questa preminente caratterizzazione sociale se da un canto ha portato a radicare nel corpo dell’elettorato alcune novità, dall’altro ha anche maggiormente esposto il “berlusconismo” alle contaminazioni con il passato, soprattutto per quel che concerne il livello dei quadri intermedi. Ciò aiuta a spiegare il divario fra il piano delle enunciazioni e quello delle realizzazioni (particolarmente acuto nel campo economico, si pensi al capitolo delle liberalizzazioni) che si è manifestato – anche questa è un’ovvietà – soprattutto durante le fasi del governo.
Va detto però, che qualora si consideri il berlusconismo nell’intero arco della sua storia, si potrà constatare come il divario tra intenzioni e realizzazioni sia andato gradualmente attenuandosi. Come se da ogni sconfitta – in questi tredici anni ve ne sono state diverse – piuttosto che il crollo ipotizzato, sia derivato un rilancio della sfida a un livello più alto e più concreto, in grado di assorbire in parte l’originaria distanza tra ciò che è auspicabile e ciò che è realizzabile. Dall’essere agli esordi un’uscita di sicurezza in senso siloniano, il “berlusconismo” si è gradatamente trasformato in una sfida verso un futuro che, per definizione, è aperto. Ed è questo suo tratto che ne fa, per quanti in vario modo vi partecipano, ancora dopo tredici anni, un’appassionante avventura.