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Il politologo Ernesto Galli della Loggia ha dedicato una pagina intera del Corriere della Sera a una iniziativa di una nuova università di Firenze, l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM), quella di “costituire una rete permanente tra i professori italiani nel campo delle scienze umane per favorire scambi di informazioni, colegamenti, sinergie” (domenica 18 febbraio).

Quella del SUM è un’iniziativa lodevole, che in termini molto simili, ricordo di avere proposto io stesso nel corso dell’ultimo decennio almeno due volte alla Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturali del nostro Ministero degli Affari Esteri. Proposta molto informale, certo, e molto lodata, ma mai raccolta dagli organi competenti, soprattutto, mi si disse, per mancanza di mezzi e di personale.

Sempre secondo Galli della Loggia, tale iniziativa avrebbe anche lo scopo di fare del SUM “uno stabile punto di riferimento, una sorta di sponda privilegiata pet tutta la comunità studiosa italiana in America settentrionale”, per esprimerne “se possibile un senso, un volto complessivi”.

Galli della Loggia descrive una galassia di “nostri studiosi e ricercatori che oggi lavorano all’estero”, intellettuali italiani i quali si misurano giornalmente con “le frontiere più avanzate del sapere” ma sono contemporaneamente, ogni giorno, “rimandati alla vicenda culturale” del loro paese, l’Italia.

Su quest’ultima definizione di “studioso italiano all’estero” non sono d’accordo. Occupandomi di Stati Uniti e di Canada, lavoro spesso all’estero, tanto in Nord America quanto nel resto dell’Europa,. La mia esperienza mi dice che questa visione di “studiosi italiani all’estero”, quali fossero profughi in esilio, rifugiati politici, o semplicemente studiosi costretti a guadagnarsi il pane tramite l’emigrazione, non appartiene alla maggior parte di coloro che incontro nelle università e degli istituti di ricerca esteri.

Certo, è gente che sa l’italiano, continua a seguire le vicende italiane, torna spesso “a casa”, fa parte di reti internazionali di cui a volte l’Italia fa parte, e non manca di una certa nostalgia per i luoghi della famiglia e delle amicizie, e che spesso schiuma di rabbia per il fatto che certe occasioni di carriera (personal fulfilment) siano arrivate da Harvard, Toronto o Glasgow, piuttosto che non da Torino, Brescia o Catanzaro.

Ma non si “tratta di studiosi all’estero” che non aspettano altro che una nuova legge per il rientro dei cervelli (magari applicata un po’ meglio dell’ultima) per tornare a casa. Si tratta, invece, quasi sempre di personalità multilaterali, dalla doppia identità, i quali vivono altrettanto bene dall’una parte o dall’altra dell’Oceano Atlantico, e sono di casa dovunque si trovino (e si troveranno).

Non “studiosi italiani all’estero”, dunque, ma cittadini di un mondo occidentale sempre più unificato, in cui la scienza e la conoscenza non hanno più nazionalità, e in cui i primati si valutano a livello internazionale, e non secondo un vecchi provincialismi nazionalisti. Gli uomini e le donne del Nord Europa (olandesi e scandinavi su tutti) l’hanno capito da tempo, e nonostante il loro numero ridottissimo, sono sempre tra i migliori in tutti gli organismi internazionali e in tutti le competizioni volte all’acquisizione di fondi per la ricerca.

Pieni voti, dunque, all’iniziativa del SUM, purché l’idea di “studiosi italiani all’estero” non venga intesa, una volta di più, nel senso riduttivo dell’esilio temporaneo.