Nel programma dell’Unione il riconoscimento giuridico delle convivenze come una forma di contratto matrimoniale non c’è affatto, non vi è un solo rigo che riguardasse i Pacs (Patti civili di solidarietà) ora tradotti in “unioni civili”, e non perché tra i partiti estensori del programma nessuno ci avesse pensato ma perché immessi avrebbero allontanato la simpatia di una buona fetta di elettorato cattolico.
Il programma del centrosinistra parla di riconoscimento dei diritti individuali, cioè dei diritti che sono in capo alle persone, non di riconoscimento di un’altra forma di unione matrimoniale. La bozza del decreto legge che regola “diritti e doveri dei conviventi” prevede un registro apposito e una forma di riconoscimento pubblico delle unioni di fatto. L’art. 1 del decreto legge sui Dico prevede una “dichiarazione congiunta” dei conviventi davanti all’ufficiale dell’anagrafe. In questo caso, per le persone che vivono la condizione di coppie di fatto, la soluzione c’è già: la legge del 1955 e il regolamento del 1989. Una persona è già segnalata nell’anagrafe comunale se vive insieme a un’altra, a prescindere da quale sia il vincolo affettivo o di convenienza tra loro. Con il registro proposto dal ministro delle Pari opportunità Barbara Pollastrini, la creazione di un registro apposito, specifico, configura una forma di riconoscimento di un altro contratto matrimoniale.
Si è aperto un dibattito su una nuova legislazione famigliare e su una serie di diritti che vengono negati alle persone, anche al di fuori del matrimonio. Si è fatta una discussione di ordine ideologico, e non su fatti concreti; quali sono questi diritti visto che per molti di questi, come nel caso dell’affitto, ci sono già una serie di sentenze della magistratura che hanno già chiarito la problematica e garantiscono diritti. E’ legittimo che qualora un convivente venga ricoverato in ospedale (art. 4 del decreto legge sui Dico) possa essere assistito dal proprio partner, ma il discorso cambia quando ci addentriamo su quello che è oneroso per lo Stato come gli assegni familiari e la reversibilità delle pensioni (art. 10 del decreto legge). Occorre distinguere fra diritti della persona da garantire e diritti della persona in relazione alla coppia. Non si può equiparare qualunque genere di convivenza alla famiglia tradizionale.
I “pacsiani” si preoccupavano del fatto che nell’ipotesi che due persone non vogliono contrarre matrimonio, ma vogliono stare assieme, non sono protette dal “welfare” cioè non hanno assistenza sanitaria, pensione di reversibilità e quanto connesso. Così, questa regolamentazione giuridica delle coppie di fatto configura qualcosa di simile a un matrimonio, dove ai diritti non corrisponderebbero uguali doveri, e questa è la strada per rendere più difficile la formazione di famiglie autentiche. Le cosiddette unioni libere non sono analoghe a quelle regolate dall’unione matrimoniale e anzi molti di coloro che danno vita ad unioni di fatto vivono insieme in attesa di sposarsi. Mentre i diritti delle persone coinvolte nelle unioni possono benissimo essere garantiti dalle leggi esistenti, non esiste alcun vuoto legislativo, la giurisprudenza attuale consente a chi convive di poter tutelare le proprie volontà. Se i diritti da tutelare sono quelli del bambino, che ha diritto a crescere con una figura materna e una figura paterna, e delle persone sempre più numerose che decidono di condividere la propria vita senza ricorrere all’istituto matrimoniale: per i figli nati fuori dal matrimonio l’art. 30 della Costituzione garantisce, come è giusto, ogni forma di tutela sul piano giuridico e morale; i diritti individuali delle persone che danno luogo a convivenza sono già garantiti ampiamente dalle norme vigenti, come gli articoli 143, 144, 147 e seguenti del codice civile.
Si crea così un altro istituto pubblico per non garantire nulla, una legge che introduce un nuovo matrimonio e riconosce i diritti anche a cittadini omosessuali e quelle coppie che hanno scelto una forma di convivenza diversa dal matrimonio, creando così una “parafamiglia” o piccolo matrimonio. L’architrave della nostra società è la famiglia fondata sul matrimonio, come riconosce la nostra Costituzione, e gioca un ruolo unico, rigenerativo e fecondo. Chi liberamente fa una scelta diversa da quella del matrimonio civile o religioso va rispettato, ma decidendo di non prendersi determinate responsabilità non può essere equiparato alla famiglia nelle attenzioni dello Stato. La famiglia ha un ruolo fondamentale nella società, e il riconoscimento delle unioni di fatto in quanto tali appare come una sorta di via parallela al matrimonio con il rischio di equiparazione tra matrimonio e convivenze di fatto. La società può pensare al suo futuro solo se c’è chi rischia un progetto forte e stabile, mette su una casa dove crescere dei figli. I Pacs per regolarizzare le convivenze istituzionalizzano non la cosa più umana e naturale che c’è, l’amore eterno, bensì l’amore che ha già stabilito di non voler prendersi un impegno totale e duraturo davanti alla comunità. Lo Stato tutelando la famiglia mette la base per resistere, e impone la sua concezione della famiglia fondata sul matrimonio, monogamica ed eterosessuale.
Viviamo in un’epoca che tende a dilatare la sfera del soggettivo e dei desideri scambiandoli per bisogni, dove al termine di questo processo si vorrebbe che i propri desideri divenissero delle leggi. In questo mutamento,è indispensabile resistere contro la tentazione del relativismo radicale che porta a ridefinire istituzioni fondamentali nella nostra cultura come quella della famiglia o del matrimonio, elemento essenziale e fondamentale per la società.In nome del bene morale che viene prima del bene comune proprio della politica, con coraggio e chiarezza, è necessario difendere in questo processo le istituzioni, le tradizioni, i nostri valori.