Mussi terzo atto: dopo il reclutamento per maxi-concorso e una pseudo-riforma degli ordinamenti didattici, giunge il patto con gli atenei, proposto in tandem con il ministero del Tesoro. L’analisi che il documento presenta in premessa è impietosa: si denunziano la proliferazione di corsi inutili e sedi universitarie inefficaci; un inadeguato rapporto docenti/studenti; l’assenza di servizi; borse di studio insufficienti; la scarsa selezione e il mancato orientamento degli studenti; sistemi di valutazione precari; una mobilità tra sedi che tende allo zero. E poi, ancora, un’incidenza della spesa per l’università sul Pil tra le più basse nell’area Ocse; un’inadeguata composizione del corpo docente; un uso disinvolto del reclutamento e della promozione. «Nel complesso – chiosano gli estensori del patto – per l’effetto congiunto di alcune carenze sopra esposte, nel sistema universitario italiano si registra la sostanziale assenza di qualunque meccanismo concorrenziale che premi gli atenei meglio in grado di rispondere adeguatamente alla domanda proveniente dalle famiglie e dall’impresa».
Si descrive, insomma, un’autentica Caporetto che esige un drastico cambio di rotta. Quello che noi auspichiamo da tempo. Più facile a dirsi che a farsi, è innegabile. Ma il problema non è la difficoltà del cambiamento: nel «patto Mussi» sembra chiara, piuttosto, la volontà di non cambiare niente. Così come di fronte al fallimento storico del comunismo ci fu chi coltivò l’illusione di una sua riforma per linee interne, gli estensori del documento «Misure per il risanamento finanziario e l’incentivazione dell’efficacia e dell’efficienza del sistema universitario» appaiono convinti che si possa riparare al disastro attraverso una strada alternativa alla liberalizzazione, fondata su tre capisaldi: programmazione, vincoli e valutazione.
Per ciò che concerne la programmazione, il «patto» la dilata fino al limite del «pianismo». Si richiede che i finanziamenti statali agli atenei siano assicurati in un orizzonte minimo di tre anni, e che, riguardo alle assunzioni, le università introducano piani decennali a scorrimento previa approvazione ministeriale. Quanto alle sedi in dissesto economico, si propongono «piani di rientro» con certificazione almeno trimestrale. Un’enfasi programmatoria non solo politicamente discutibile e incompatibile con una strategia di rilancio, ma anche poco realistica perché non tiene conto degli inevitabili cambiamenti che nel frattempo si verificano nello Stato, nell’università e nella realtà esterna. Ricordo un consiglio di facoltà durante il quale il mio collega Victor Zasvlasky si oppose strenuamente all’adozione di un provvedimento, per poi acconsentire alla sua approvazione quando il preside specificò che esso si sarebbe inserito in una programmazione di lì a cinque anni. Mi spiegò: conosco la storia dell’Unione Sovietica, so bene che fine fanno i piani quinquennali!
I programmi portano con sé vincoli e prescrizioni. Il patto ne contiene di ogni genere. Si prevede un vincolo effettivo d’indebitamento; la limitazione alla costituzione di enti e fondazioni collaterali per timore che servano ad aggirare divieti; blocchi nelle assunzioni e obblighi nell’allocazione dei contributi derivanti dalle tasse d’iscrizione versati direttamente alle sedi. Laddove poi si accenna a possibili misure di liberalizzazione, la prosa si fa pavida perché nulla sfugga al controllo centrale. Si auspica un ampliamento dell’autonomia delle sedi nel determinare tasse e contributi studenteschi, ma non oltre il 25% dei fondi provenienti dal Fondo Ordinario statale. Così i margini per caratterizzare una propria offerta si restringono drasticamente. E, a riprova dell’atavica resistenza ad ogni forma d’autonomia, le stesse misure di finanziamento degli studenti meno abbienti sono descritte come un salto nel buio che impone mille cautele.
Tra piani, divieti, balzelli e timori, della competizione reclamata in premessa cosa rimane? Nel «Mussi-pensiero» essa s’identifica con l’attività di valutazione da affidare ad una nuova Agenzia all’uopo creata. Ma nel leggere il documento si comprende come di tante urgenze dell’università, quella di una nuova agenzia fosse tra le meno avvertite. Non solo, infatti, si riconosce che la struttura varata dal ministro Moratti ha ben operato, ma ci si limita ad auspicare una marginale correzione del sistema vigente. Dato che mal si attaglia a tant’enfasi e tant’impellenza.
Torniamo in conclusione al siparietto tra Salvati e Mussi dal quale eravamo partiti. Nel sistema che si profila, l’Agenzia incarna la via alternativa alla competizione tra atenei in un sistema finalmente liberalizzato. Un’attività utile se ben delimitata viene dilatata e trasformata in una sorta di entità onnipotente, che in breve genererà la «casta» dei valutatori.
Ora forse è più chiara a Michele Salvati la ragione ideologica per cui, tra tante cose che non vanno, il ministro abbia iniziato mettendo mano a una delle poche che funzionava. E la replica di Mussi, che a sanzionare il ministero saranno eventualmente gli elettori, appare non più scontata. Se la nuova Agenzia di valutazione verrà indebitamente caricata delle funzioni proprie della libera concorrenza, infatti, il potere politico si svuoterà ulteriormente. Se e quando il centro-destra vincerà le elezioni, avrà ben poco da fare. Come già avviene per la maggior parte dei poteri corporati (si pensi alla magistratura), sacerdoti senza alcun mandato popolare impediranno di agire. La democrazia rappresentativa subirà l’ennesimo sfregio. E l’università italiana continuerà ad affondare mentre a bordo si svolge il «gran ballo della valutazione».