A cura di Gaetano Quagliariello
Con il messaggio di S.E. Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato
Nello stesso giorno nel quale il testo della lezione di Benedetto XVI all’Università di Regensburg diveniva il pretesto per insulti, intimidazioni, minacce, violenze, culminate nell’assassinio di suor Leonella Sgorbati, su iniziativa del Grande Oriente d’Italia, alcuni intellettuali italiani, che a gran voce si richiamano alla tradizione “laica”, si riunivano per difendere lo Stato italiano dalla minazzia “clericale”. Pochi giorni dopo, quando il Cardinale Camillo Ruini esprimeva, a nome dei vescovi italiani, l’indignazione per l’attacco alla libertà d’espressione del Pontefice – ancor prima che alla libertà di religione – e insisteva nel rivendicare il dovere dei cattolici di difendere pubblicamente i principi della loro fede, più d’uno obiettò che il suo intervento si configurava come una violazione del Concordato.
Sono solo gli ultimi episodi che richiamano l’urgenza di una riflessione seria sullo spazio pubblico da assegnare alla religione – si badi bene, non soltanto a quella cattolica – in una fase in cui molte delle certezze del passato (vere o presunte che fossero) subiscono un significativo processo di erosione e, dall’esperienza quotidiana, emergono esigenze nuove.
Da noi, questa riflessione risulta più difficile e delicata che altrove per la complessa eredità della storia italiana recente: pesano ancora, infatti, le vicende dell’unificazione nazionale, il fatto, insomma, che il nostro paese sia stato l’unico grande Stato moderno che si sia formato contro la Chiesa.
Pesa ancora la lettura superficiale e tutta ideologica che ancora si dà della forma cavouriana “libera Chiesa in libero Stato”. In essa è stato visto uno slogan anti-clericale mentre, nella realtà dei fatti, era espressione di un indirizzo “separatista” che riteneva la religione elemento fondamentale del processo di civilizzazione e del ringiovanimento delle istituzioni liberali. All’indirizzo cavouriano si venne progressivamente contrapponendo quel “giurisdizionalismo liberale” (poi divenuto egemone), che richiedeva allo Stato di ricercare per via positiva le sue garanzie contro la temuta invadenza della Chiesa.
Pesa, e ancor di più, la convinzione che i Patti lateranensi del 1929 altro non siano che il momento culminante dell’incontro “organico” tra Chiesa e fascismo. Anche in questo caso la verità è assai più complessa. Perché la soluzione pattizia maturò lentamente e bilateralmente – dalla parte della Chiesa non meno che da parte dello Stato liberale – a partire dalle novità, dalle esigenze e dalle urgenze maturate nel corso della Prima Guerra Mondiale. Basti, a tal proposito, una sola citazione proveniente da un uomo che in seguito – evidentemente perché anti-fascista, non perché anti-cattolico – sarà un oppositore strenuo della Conciliazione. Nel 1922, pochi mesi prima della marcia su Roma, Gaetano Salvemini constatava che “la transazione [fra Chiesa e Stato], guardata con spirito sgombro da sdilinquimenti conciliatoristi e da convulsioni massoniche ritardatarie, non merita né di essere sospirata come indipendente, né condannata come dannosa, né disdegnata come del tutto inutile. E’ un frutto che va maturando”. E che in seguito – si potrebbe aggiungere – sarebbe maturato nel momento meno opportuno.
Gli Incontri di Norcia non sono un seminario di storia patria. Resta però l’esigenza di tornare su questi temi, al fine di correggere il senso comune dominante. Inoltre, il recupero di questo sfondo storico serve anche a cogliere la novità del nostro tema, che, in qualche modo, emerge dalla confluenza di due eventi epocali.
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