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 Nonostante il divieto desumibile dalla legge n. 40 del 2004, il Tribunale di Cagliari ha riconosciuto ad una coppia che aveva fatto ricorso alla fecondazione assistita il diritto di ottenere la cosiddetta «diagnosi preimpianto» dell’embrione, al fine di accertarne lo stato di salute.

Altri vorranno esprimere giudizi di tipo etico sul caso e sulla condotta dei genitori, entrambi portatori sani di beta-talassemia (con alta probabilità, quindi, di trasmettere tale malattia al feto). Qui si vuole attirare l’attenzione su una questione di tipo giuridico-costituzionale tutt’altro che secondaria: la sostanziale disapplicazione, da parte del giudice, del divieto contenuto nella legge, approvata dal Parlamento nel 2004.
La legge 40 consente infatti la ricerca clinica e sperimentale sull’embrione, ma a condizione che si perseguano finalità terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso: è perciò esclusa qualsiasi attività diagnostica finalizzata alla selezione e all’eliminazione dell’embrione malato. Ma, allora, come ha potuto il giudice – soggetto alla legge, a tenore della Costituzione – disapplicare questa precisa scelta legislativa?
La sentenza sostiene che il diritto alla salute psichica e fisica della futura madre e quello ad essere informata sulle condizioni del feto prevalgono – in quanto desumibili dalla Costituzione – sul divieto legislativo di diagnosi reimpianto. In altre parole, la legge è stata disapplicata a favore dell’applicazione diretta della Costituzione, che all’articolo 32 tutela la salute. Per la verità, alcuni dei primi commenti alla sentenza danno anche credito alla tesi che il giudice non avrebbe realmente disapplicato la legge, ma ne avrebbe fornito un’interpretazione «costituzionalmente orientata»: affermazione non corretta, perché il tenore testuale della legge 40 è sul punto inequivoco e non si presta ad operazioni interpretative di sorta.
Agli occhi del giurista, quello di Cagliari è solo uno dei tanti casi di aggiramento delle scelte legislative, pretesamente fatto «in nome della Costituzione». Dietro questo nobile slogan si annida in realtà un’insidia grave per la certezza del diritto e il rispetto delle scelte democraticamente assunte dalla rappresentanza parlamentare. Se un giudice ritenga che una disposizione di legge sia in contrasto con la Costituzione non la può, puramente e semplicemente, disapplicare: deve chiedere che essa sia annullata dalla Corte costituzionale, che è stata creata proprio a questo scopo. Nel nostro caso, si noti, il giudice questa procedura l’aveva esperita, ma la Corte non gli aveva risposto nel merito, a causa di un difetto di redazione del ricorso. Ed anziché ripresentare la questione corretta alla Consulta, il giudice ha dunque preferito decidere da sé.
Tra i tanti problemi etici e bioetici che il caso presenta, si sottolinei allora questo: o il divieto di diagnosi preimpianto è incostituzionale, e allora non dovrà più essere applicato a nessun caso, o è conforme a Costituzione, e allora non spetta al giudice di Cagliari decidere diversamente nel caso sottoposto al suo esame. Ne va della certezza del diritto, della prevedibilità delle decisioni giudiziarie e del rispetto delle prerogative del Parlamento: il quale potrà semmai decidere, se mai ve ne saranno le condizioni politiche, di modificare sul punto la legge.
Quel che davvero andrebbe evitato è esporre una questione così delicata alle discrezionali valutazioni etico-politiche dei singoli giudici, che possono decidere diversamente caso da caso, minando alla radice l’eguale applicazione delle regole legislative. Anzi, arrogandosi un potere creativo di regole che loro non spetta.

(Il Giornale, 26 settembre 2007)