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A quasi trent’anni dall’introduzione della legge sull’interruzione di gravidanza in Italia, i grandi cambiamenti intervenuti nel costume, nelle pratiche mediche e nelle tecniche diagnostiche, rendono indifferibile un adeguamento della legge attraverso l’emanazione di linee guida da parte del Ministero della Salute.

 

Il dibattito è stato aperto da casi concreti che hanno scosso l’opinione pubblica. Per esempio quello di Tommaso, il bimbo abortito alla 23° settimana per una diagnosi di atresia dell’esofago all’ospedale Careggi di Firenze, e poi nato vivo. La vicenda è finita sui giornali (marzo 2007) per una doppia anomalia: perché il bimbo è sopravvissuto autonomamente alcuni giorni, e perché la malformazione diagnosticata dai medici (peraltro operabile nella stragrande maggioranza dei casi) non c’era.

 Quanti casi del genere accadono? Quante diagnosi prenatali che portano ad interrompere la gravidanza si rivelano poi sbagliate? Quanti bimbi abortiti nascono vivi? Nello stesso periodo una ginecologa del San Camillo di Roma dichiarò pubblicamente che il problema dei nati vivi, nel suo reparto,veniva risolto facendo preventivamente decidere alle madri, grazie al consenso informato, se volevano che il bimbo venisse o no rianimato. E’ evidente che una legge che lasci questo tipo di scelte ai singoli ospedali, permettendo che ciascuno si regoli come meglio creda (fino a legittimare con il consenso informato l’omissione di soccorso al neonato) manca gravemente di indirizzi e interpretazioni certe. C’è inoltre il problema dell’introduzione strisciante della pillola abortiva, la cosiddetta Ru486, utilizzata in palese violazione della legge e contro i due pareri emessi dal Consiglio Superiore di Sanità (18 marzo 2004 e 20 dicembre 2005) in cui si dice con chiarezza chealla luce delle conoscenze disponibili, i rischi dell’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti ai rischi del metodo chirurgico solo se l’intera procedura abortiva viene completata all’interno delle strutture pubbliche, come previsto dalla legge 194.Inoltre, nell’ambito del protocollo di intesa siglato tra Governo e regioni per il patto nazionale per la salute, la legge finanziaria per il 2007, ha stabilito che l’uso “off label” di farmaci importati grazie alla cosiddetta legge Di Bella è accettabile solo nell’ambito delle sperimentazioni cliniche.Nonostante questo, numerosi ospedali, in almeno 8 regioni (in primo luogo la regione Toscana) hanno adottato il metodo abortivo chimico grazie alla formula dell’importazione diretta, richiedendo il primo farmaco necessario, il mifepristone, all’estero, e utilizzando il secondo, il misoprostol, al di fuori delle indicazioni previste dal nostro ente di controllo dei farmaci. A Milano nel settembre 2007, all’ospedale Buzzi, si scopre che un medico ha “sperimentato” come abortivo su 53 pazienti, senza nessuna autorizzazione ministeriale, un farmaco, il methotrexate, non ammesso da nessun protocollo internazionale, e registrato come antitumorale.

Tutti questi casi configurano l’evidente necessità di indicazioni ministeriali, sia per fornire interpretazioni certe, sia per raccogliere dati e informazioni.

Sulla 194 possiamo contare sui rapporti annuali presentati in Parlamento, e sulla recente indagine conoscitiva promossa dalla Commissione Affari Sociali nel 2006, eppure ci sono dati che non vengono raccolti e presi in considerazione.

Le linee guida dovrebbero servire anche a richiedere alle regioni informazioni attualmente trascurate, per esempio:

–         Il numero di colloqui svolti nei consultori e il corrispondente numero di certificati rilasciati. Questo dato (necessariamente parziale, perchè esclude le donne che si rivolgono ai medici privati) può però fornire un’idea dello stato di applicazione dell’articolo 2 della legge, cioè della capacità dei consultori di intervenire per evitare gli aborti, e proporre alle donne aiuti concreti e soluzioni agli eventuali problemi che le inducono ad interrompere la gravidanza.

–         Il numero di bambini nati vivi in seguito ad aborti tardivi (effettuati cioè oltre i 90 giorni)

–         Quando si tratti di interruzioni di gravidanza tardive, dovrebbe sempre essere comunicata la settimana di gestazione (e non soltanto l’indicazione generica “entro i 90 gg” e “oltre i 90gg”)

–         Quando, secondo l’articolo 6, l’interruzione di gravidanza viene effettuata perché sono accertate “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determino un grave pericolo per la salute psichica o fisica della donna”, l’accertamento dagnostico deve essere verificato dopo l’aborto. E’ di fondamentale importanza, infatti, sapere quale effettivo riscontro hanno le diagnosi prenatali, che spesso si basano non su certezze ma su probabilità.

–         Per promuovere politiche di sostegno alle maternità difficili, e campagne mirate contro l’uso dell’aborto a fini eugenetici, è importante conoscere e rendere pubblici i dati sulle patologie fetali in base alla quale si ricorre all’articolo 6. Sarebbe utile compilare annualmente una casistica delle patologie in base alle quali le donne italiane decidono di interrompere la gravidanza, e prevedere la raccolta di informazioni (per esempio grazie a un colloquio con uno psicologo) sui motivi che spingono le donne a non tenere un figlio diversamente abile.

 

Oltre a raccogliere nuovi elementi di informazione, le linee guida devono però fornire alcune indicazioni specifiche per l’applicazione della legge.

E’ opportuno prima di tutto fissare il limite di tempo entro cui è possibile ricorrere all’aborto, considerando le aumentate speranze di vita per i grandi prematuri e seguendo le migliori pratiche già adottate in alcuni ospedali. Si tratta di dare attuazione all’articolo 7, che stabilisce che solo il rischio di vita della madre può rendere lecita l’interruzione di gravidanza “quando sussista la possibilità di vita autonoma del feto”. La legge 194 non parla di “probabilità” ma di “possibilità” di vita autonoma del feto, esprimendo la chiara volontà del legislatore di adottare un criterio di massima cautela. Gli studi internazionali concordano ormai sull’esistenza di alte possibilità di sopravvivenza neonatale già alla 22° settimana (“Pediatrics”, per esempio, una delle più autorevoli riviste di pediatria nel mondo, organo ufficiale dell’American Academy of Pediatrics, riporta uno studio norvegese che parla del 30-40% di sopravvivenza). Il limite temporale (peraltro già adottato da numerosi ospedali, come la Clinica Mangiagalli di Milano) a cui sarebbe bene attenersi per evitare che si verifichino casi drammatici, dovrebbe dunque essere fissato a 22 settimane.

E’ essenziale anche chiarire in cosa consista l’obbligo di effettuare l’interruzione di gravidanza nella struttura pubblica. Le nuove metodologie abortive, in particolare quelle di tipo chimico, devono uniformarsi al criterio, chiaramente stabilito dal legislatore, di mantenere la procedura abortiva all’interno degli ospedali, con le garanzie di un costante controllo medico. Bisogna recepire nelle linee guida la sostanza dei due pareri già citati espressi dal CSS, in cui si ritiene equivalente il livello di rischio tra metodo chirurgico e farmacologico solo se l’aborto viene completato in ospedale. Va quindi specificato che l’intera procedura abortiva va effettuata in regime di ricovero; oppure è necessario chiarire che per interruzione di gravidanza si intende l’espulsione dell’embrione o del feto, e non soltanto l’atto medico (per esempio l’assunzione di un farmaco) finalizzato all’espulsione dell’embrione. In questo modo, anche introducendo nuovi metodi abortivi, si esclude il rischio dell’aborto a domicilio e di pratiche selvagge che sfruttino il divario tra la lettera della legge e le nuove metodologie.

(Mozione presentata alla Camera dei Deputati dall’on. Sandro Bondi, coordinatore di Forza Italia)