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Pietro Scoppola è stato, all’interno della cultura cattolica, l’interprete più alto ed esplicito di una stagione etico-politica, e soprattutto della lettura della storia d’Italia che essa ha prodotto. La stagione è stata quella del progressivo slittare verso sinistra del sistema politico italiano e della convergenza tormentata fra cattolicesimo e culture marxiste. Si è aperta con gli anni Sessanta e l’avvento del centro sinistra, è culminata al termine del decennio successivo con la solidarietà nazionale, è lentamente degenerata e si è infine spenta scivolando verso Tangentopoli. Ha presieduto a uno sviluppo del paese tumultuoso seppure disordinato: culturale, sociale, economico. Ha generato – o per lo meno aggravato – difetti politici macroscopici, dei quali siamo ancora oggi ben lontani dall’esserci liberati. Difetti che per altro lo stesso Scoppola non ha mai negato né minimizzato, e che non lo hanno tuttavia mai portato a rinnegare, nella sostanza, i caratteri di quella stagione.

La Democrazia cristiana ha amato poco De Gasperi, un uomo assai distante, per concezione del cattolicesimo politico e delle istituzioni, dai suoi successori. Eppure la memoria dello statista trentino ha rappresentato all’interno del partito un’importante risorsa politica e culturale, alla quale si è fatto spesso ricorso al fine di legittimare, o viceversa delegittimare, questa o quella determinata opzione. Il noto volume di Pietro Scoppola La proposta politica di De Gasperi, pubblicato dal Mulino nel 1977, fra le tante operazioni politiche di cui è stato oggetto il grande leader democristiano è stata forse quella culturalmente più raffinata – oltre che la più fortunata. Scritto ai tempi del compromesso storico, il libro puntava a minimizzare il peso che negli anni immediatamente postbellici avevano avuto le fratture fra destra e sinistra, e a far emergere invece la distanza fra i nuovi partiti popolari e le vecchie forze politiche di élite. Leader di un partito di massa come la Democrazia cristiana, letto in questa chiave De Gasperi veniva nettamente distaccato dalla tradizione liberale e dal Pli, e sospinto invece al fianco dei socialisti e dei comunisti. E si ricostruiva così nella vicenda politica repubblicana una robusta linea di continuità che dagli anni della Liberazione e della Costituente, superando la dura stagione della Guerra Fredda, si proiettava direttamente sul centro sinistra e sulla solidarietà nazionale.

In termini storiografici, sebbene sempre intelligente e in molte sue parti fecondo, nella sostanza La proposta politica di De Gasperi era un libro sbagliato. Perfino alcune citazioni dello statista trentino riportate da Scoppola finivano in realtà per smentire la sua tesi di fondo. Della quale la storiografia più recente ha poi fatto completamente giustizia, mostrando anche sulla base della documentazione resasi disponibile negli ultimi anni, quanto importante fosse per De Gasperi il dialogo con il liberalismo, e con quanta diffidenza egli maneggiasse invece i socialcomunisti. Proprio il fatto che esso fosse storiograficamente fallato rende tuttavia ancor più interessante il successo del volume di Scoppola, capace di restare per anni la principale opera di riferimento sullo statista trentino proprio perché interpretava in maniera al contempo fedele e raffinata una stagione etico-politica – non tanto la stagione della quale il libro scriveva, ovviamente, quanto piuttosto quella in cui era stato scritto.

Quella stagione, dicevamo, degenerò negli anni Ottanta e si concluse infine con Tangentopoli. Nella sua ricostruzione di sintesi sulla storia politica postbellica, La repubblica dei partiti, pubblicata nel 1991, Pietro Scoppola mostrava di rendersi ben conto di quanto profondamente distorto fosse stato lo sviluppo politico della Penisola. Non solo: di quanto quelle distorsioni dipendessero proprio dal progressivo scivolamento verso sinistra della politica nazionale che lui stesso aveva caldeggiato e promosso, e che – permanendo l’inamovibile centralità democristiana e la conventio ad excludendum nei confronti del Pci – s’era infine tradotto in una dinamica consociativa quanto mai perniciosa.

Come un mantra, però, in più di un’occasione nel suo libro Scoppola ripeteva che, malgrado avesse avuto non poche né piccole conseguenze negative, quello scivolamento verso sinistra era stato tuttavia “inevitabile”. L’alternativa storica non essendo per l’Italia una soluzione alla gollista, ma il passaggio dalla democrazia a una qualche forma di autoritarismo. Ancora una volta il senso politico dell’operazione intellettuale era piuttosto evidente: si trattava di salvare il contenuto ideologico della convergenza fra i partiti di massa distaccandolo dalle conseguenze sistemiche che quella convergenza aveva avuto, e proiettandolo così in una “seconda” repubblica magari bipolare. Ossia di ribadire le ragioni dell’alleanza fra cattolici democratici e socialcomunisti sul terreno dell’antifascismo progressista, malgrado quell’alleanza avesse generato – o per lo meno contribuito a generare – una cogestione del potere pasticciata e inefficiente, fonte nel medio periodo di irresponsabilità e corruzione.

È evidente, per tutto quel che s’è detto, quanto alto sia il seggio che Pietro Scoppola occupa nel Pantheon del neonato Partito democratico. Quanto insomma egli abbia lavorato per traghettare una certa cultura progressista al di là delle colonne d’Ercole di Tangentopoli. E quanto robuste siano le radici che, anche grazie a lui, quella cultura affonda dentro un’interpretazione della storia d’Italia intellettualmente assai robusta e degna. Un’interpretazione però che, essendo la centralità consociativa dei partiti di massa finita non soltanto sul terreno politico, ma pure su quello culturale, per quanto sia intellettualmente robusta e degna non può più sperare di rimanere egemone così come lo è stata nei decenni passati.

(L’Occidentale, 28 ottobre 2007)