1. La Spe salvi, pubblicata da papa Benedetto XVI lo scorso 30 novembre, rappresenta – al pari della precedente Deus caritas est – una non piccola novità nel genere “enciclica”, a cui pure appartiene. Lo stile fluido, non appesantito da continui richiami scritturali o da citazioni di prammatica del magistero precedente, e il confronto serrato ed esplicito, che vi viene condotto, con alcuni fra i maggiori rappresentanti della cultura contemporanea, cristiana e non, rinviano alla forte personalità del Pontefice: insomma se talora per le encicliche (anche importanti) di precedenti pontificati ci si è potuti porre il problema di chi ne fosse stato il vero estensore, qui siamo di fronte a un testo evidentemente “d’autore”, meditato e scritto dal Ratzinger teologo e pastore. Questa impronta personale è stata criticata: si è detto che Benedetto XVI continua a fare l’esegeta della teologia di Joseph Ratzinger, volendo quasi sottolineare l’unilateralità o la scarsa rappresentatività del suo insegnamento. Ma sarebbe gravemente erroneo rappresentare questa e la precedente enciclica come esercizi meramente intellettualistici privi di una reale rispondenza con la situazione spirituale della nostra epoca: essa intende, come accennerò, riproporre con forza la speranza cristiana a un mondo in cui sono “silenzio e tenebre” le grandi religioni politiche del Novecento e nel quale l’unica vera alternativa sembra restare quella dello scientismo nelle sue varie manifestazioni.
Ma non è su questi aspetti teologici che mi voglio fermare: non ne avrei neanche la competenza. Da studioso di storia, mi limiterò invece a proporre qualche riflessione sulla visione della storia umana che Benedetto manifesta in questo suo scritto recente, in particolare sul percorso della storia moderna e contemporanea. Questo perché credo che la dimensione storica (e il problema della “giustizia nella storia”) sia centrale nell’enciclica e che ad esso il Papa dia una soluzione che rinvia ad alcuni di quelli che, per lui, sono i fondamenti del cristianesimo.
2. Si possono individuare due archetipi nella concezione cristiana della storia (mi muovo – lo dico una volta per tutte – con estrema sommarietà). Agostino di Ippona la concepisce come un’eterna lotta fra due “città”, la divina e la terrestre, che sono compresenti e saranno in conflitto sino alla fine dei tempi: esse verranno distinte soltanto al momento del giudizio finale. Questa di Agostino resta la critica più radicale di ogni millenarismo, cioè di tutte quelle concezioni che hanno a più riprese sostenuto che la città divina avrebbe prevalso, in un futuro più o meno prossimo e irrevocabilmente, sulla città terrena e si sarebbe realizzata nel mondo. Essa nega che l’umanità, gravata dal peccato originale, possa conoscere nella storia un’integrale liberazione dal male: ogni generazione deve così rinnovare la sua battaglia per il trionfo del bene, pur sapendo che quel trionfo non sarà mai definitivo, e che, anzi, potranno aprirsi anche momenti di “ritornante barbarie”. Da tale concezione derivano talora atteggiamenti di rinunzia al mondo (contemptus mundi), in attesa che esso “invecchi”, ma anche un impegno intenso, pur se privo di illusioni (pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà, si potrebbe dire con un celebre motto della tradizione socialista). Si tratta di una visione tragica, non consolatoria: «Il mondo è come un torchio, che spreme. – dice Agostino – Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio, vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile».
Esiste anche un’altra linea, quella della tradizione escatologica dei primi tempi del cristianesimo, che attendeva una realizzazione storica del regno della giustizia. Essa è ripresa – un secolo prima di Dante – da Gioacchino da Fiore (il «calavrese abate Giovacchino/ di spirito profetico dotato»), che previde uno sviluppo provvidenziale del processo storico verso un’età dello Spirito, in cui l’umanità si sarebbe pienamente realizzata. E’ noto come una serie di studiosi novecenteschi (da Karl Löwith a Eric Voegelin) abbia visto nel gioachimismo un momento decisivo della storicizzazione dell’escatologia cristiana e, quindi, una premessa (anche col suo ritmo triadico) delle filosofie della storia ottocentesche.
Benedetto XVI resta nell’ambito di una concezione agostiniana della storia: lo conferma la critica che egli elabora all’idea di progresso, tipico prodotto della modernità. Bisogna intendersi: il Papa distingue tra “sviluppo” materiale (tecnologico, scientifico, economico) e “progresso morale”. Il primo è innegabile e ha apportato grandi benefici all’uomo, ma presenta anche un volto ambiguo: «senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male» (par. 22). Ma in campo morale è ipotizzabile qualcosa di simile all’accumulazione di conoscenze che si ha nella scienza, un progresso, come dice Benedetto, «addizionabile»? È possibile costruire sulle scelte etiche fatte dalle generazioni precedenti, darle come irrevocabilmente realizzate e quindi ridurre progressivamente, nel mondo, la possibilità di male, fino a farla scomparire? L’uomo del XXI secolo costituisce un progresso morale rispetto a quello del XVIII, perché ha proclamato la moratoria della pena di morte, predica il rispetto dell’ambiente e l’uguaglianza fra i sessi? Se così fosse (si potrebbe aggiungere) anche il cristianesimo sarebbe solo una tappa del cammino dell’umanità (importante quanto si vuole, ma destinato a essere superato da qualcosa di ulteriore) e la meta dell’ “oltre-uomo” predicata, in modi diversi, da Marx come da Nietzsche, avrebbe una sua plausibilità.
Il Pontefice, invece, afferma: «Nell’ambito (…) della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio». Da qui anche la possibilità di regressi morali, in quanto le nuove generazioni possono certamente «attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali» (par. 24). Non si ha dunque un progresso nella natura umana, essa non può progressivamente liberarsi dai limiti che le sono consustanziali.
Tanto meno l’uomo può sperare che la soluzione della sua esistenza possa prevenirgli dall’esterno, dal mutamento della società. Non che una lotta per una società migliore sia inutile, anzi essa è auspicabile e necessaria, e la politica può contribuire utilmente alla “minimizzazione” del male: soltanto non può distruggerne la radice e risolvere definitivamente il problema della libertà umana. Qui Benedetto XVI fa propria e, a modo suo, rielabora la critica di quello che Antonio Rosmini chiamava il “perfettismo”: «quel sistema – scriveva il filosofo roveretano – che crede possibile il perfetto delle cose umane e che sacrifica il bene presente alla immaginata futura perfezione». Dice, da parte sua, il Papa: «non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. (…) Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone strutture» (par. 24).
3. L’idea dell’indefinito progresso morale è un parto della modernità: la critica che ne fa Benedetto XVI comporta, da parte della Chiesa, il ritorno a un atteggiamento polemico verso il mondo e il pensiero moderni, la fine di quell’attenzione ai “segni dei tempi” che fu uno dei portati della svolta conciliare? Da nessuna parte si è parlato con tanta insistenza di “mondo moderno”, “pensiero moderno”, “modernità” come nel mondo cattolico degli ultimi quarant’anni: come osservava Nicola Matteucci già nel 1970, questa rincorsa è iniziata proprio mentre i laici erano ormai «i primi a non credere più al mondo moderno» e lo consideravano «soltanto un’astrazione ideologica formulata dalla filosofia hegeliana, la quale con il suo immanentismo tolse ogni spazio a un’autentica religiosità. Se si parte da questa astrazione – aggiungeva – è inevitabile l’incontro con Marx».
Ma il pensiero cattolico post-conciliare aveva le sue ragioni: voleva chiudere il tempo delle contrapposizioni, quello in cui all’astrazione «mondo moderno» si era opposta un’altra astrazione, quella di «cristianità»: il vagheggiamento, cioè, di una società organica, fortemente improntata nelle sue istituzioni civili dalla presenza cattolica, che rinviava a un mitico medio evo da restaurare. Per secoli il pensiero cattolico aveva fatto proprio (rovesciando ovviamente il giudizio di valore) l’albero genealogico che il «pensiero moderno» aveva dato di se stesso: Riforma protestante-Illuminismo-Rivoluzione francese-liberalismo-socialismo-comunismo. Quello che la modernità aveva considerato come un processo di emancipazione, esso lo considerava quale una sequela di tragedie storiche che stava precipitando l’umanità nel baratro. Ne derivava – bisogna sottolinearlo – una presa di distanza anche nei confronti delle stesse istituzioni liberali e dei valori che loro sottostavano (libertà di coscienza, pluralismo religioso, etc.).
Ora di tutto ciò nella Spe salvi non c’è traccia: è da notare, innanzitutto, che Benedetto non “condanna” la modernità, ma la invita a «un’autocritica (…) in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza» (par. 22) e, in questo dialogo, afferma anche l’esigenza di una parallela «autocritica del cristianesimo moderno» (vedremo in quale direzione). Si tratta quindi di un invito ad aprire nuove prospettive, a emendarsi (si potrebbe dire), non a rinnegare se stessa. Ma la «modernità» delineata dal Pontefice non è quella anatemizzata dal cattolicesimo anti-moderno: nella sua riflessione sulla storia moderna, la Riforma non è nemmeno menzionata e Lutero viene citato una volta sola (par. 7) per discutere una sua interpretazione di un passo (decisivo) della Lettera agli Ebrei.
Per Ratzinger la «modernità» ha un altro progenitore, Francesco Bacone: è nel suo pensiero che le «componenti fondamentali del tempo moderno (…) appaiono con particolare chiarezza». Quali sono? 1) Il carattere non più contemplativo, ma strumentale del sapere, per cui l’uomo – attraverso l’esperimento – riesce a conoscere le leggi della natura e a piegarle al suo volere. 2) La trasposizione di questa conquista sul piano teologico: è con la scienza, non con la fede in Gesù Cristo, che l’uomo riacquista quella signoria sulla natura che il peccato originale gli aveva fatto perdere: di fatto è la scienza che «redime». 3) La fede diventa, perciò, irrilevante per il mondo e viene relegata nel privato. 4) La «speranza» cambia natura: la scienza promette un processo continuo di emancipazione dai limiti della vita e un miglioramento ad infinitum della condizione umana. Nasce quella nuova idea di «progresso», di cui già si è discusso. 5) Questo atteggiamento trapassa sul piano politico: come la scienza garantisce il superamento progressivo da ogni dipendenza dalla natura, così appare sempre più necessario emanciparsi da ogni altro condizionamento: sociale, politico e religioso. 6) Emerge la prospettiva di una Rivoluzione che stabilisca il regno definitivo della ragione e della libertà (par. 17-18).
4. La negazione dello status naturae lapsae avviene, quindi, nel campo del pensiero scientifico e di qui trapassa nel pensiero politico e nella concezione della storia. Così anche il tema della “negatività” dell’Illuminismo (altro topos del cattolicesimo controrivoluzionario) non viene accennato dal Papa: anzi egli mette in evidenza che il suo rapporto con la rivoluzione francese è alquanto problematico. «L’Europa dell’Illuminismo, – scrive – in un primo momento, ha guardato affascinata a questi avvenimenti [della rivoluzione francese], ma di fronte ai loro sviluppi ha poi dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libertà». Come esempi delle «due fasi della ricezione di ciò che era avvenuto in Francia», Ratzinger presenta due scritti di Kant, in cui il filosofo rifletteva su quegli avvenimenti. Nel primo del 1792, Kant guarda con favore alle vicende di Francia e ai provvedimenti di laicizzazione del biennio dell’Assemblea costituente: essi – a suo giudizio – segnano il superamento della «fede ecclesiastica», che viene ormai rimpiazzata dalla «fede religiosa», vale a dire dalla semplice fede razionale. Ma nel saggio del 1795, il suo giudizio è assai diverso: siamo all’indomani della caduta di Robespierre, l’Europa ha assistito sbigottita alle politiche di scristianizzazione violenta e all’avvento dei culti rivoluzionari: il corrispettivo politico di questa fase è stato il Terrore. Alla mente del filosofo si affaccia un’altra eventualità: che con la fine violenta del cristianesimo (Kant accenna esplicitamente all’Anticristo) si possa verificare «sotto l’aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose» (par. 19).
Non risulta chiaro se alle «due fasi della ricezione» corrispondano – per Benedetto XVI – anche «due fasi» della rivoluzione: se, cioè, egli operi una distinzione qualitativa fra la fase “liberale” e quella “terroristica” e se quest’ultima gli appaia come una “deviazione” o uno sviluppo “necessario” della prima. Di certo non vede nel Terrore lo sbocco necessario di tutto il movimento illuministico, ma sottolinea il ripensamento di una sua parte cospicua di fronte ai risultati ultimi del processo rivoluzionario: è inutile aggiungere come da questo ripensamento sia nato il pensiero liberale dei primi decenni dell’Ottocento
Il cammino della “presunzione fatale” di importanti settori del “pensiero moderno” è dunque – per Ratzinger – diverso dallo “stemma” della modernità contro cui ha polemizzato per secoli la cultura cattolica: esso si avvia con il primo affacciarsi dello scientismo moderno in Bacone, si sviluppa in alcuni settori più radicali dell’Illuminismo e nel “costruttivismo” antireligioso del Terrore giacobino, sbocca – si potrebbe dire – nella “società opulenta” e nelle sue ideologie (scientismo, tecnocrazia, consumismo, edonismo di massa, etc.). Stranamente manca l’anello intermedio, il sansimonismo, in cui il mito tecnocratico, la divinizzazione della scienza, una morale totalmente edonistica, l’ipotesi “organizzativistica” si fondono in una prospettiva che è, insieme, anticristiana e antiliberale.
In questo cammino, certo, c’è anche Karl Marx, ma (com’è stato sottolineato da molti commentatori) l’approccio ratzingeriano al pensiero del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che liquidatorio. Per Ratzinger, Marx è – per così dire – il Bacone del proletariato: «il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose» (par. 20).
Ma gli esiti delle rivoluzioni comuniste del XX secolo costituiscono anche il primo, vero scacco di questo filone di pensiero post-baconiano e non è uno scacco casuale. Esso deriva dalla logica interna al pensiero marxista: Marx, riducendo l’individuo a una serie di rapporti sociali (negandogli un’anima, si potrebbe dire con linguaggio desueto), era convinto che il mutamento della società, «con l’espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione», avrebbe ipso facto creato l’uomo nuovo. Dopo una breve fase intermedia di dittatura, sarebbe nata la nuova Gerusalemme, in cui l’uomo sarebbe stato finalmente se stesso. Gli esiti di tutto questo pensiero si sono visti. Il fallimento del marxismo non è stato accidentale: esso è derivato dal suo costitutivo materialismo, dal non aver compreso che «l’uomo (…) non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli» (par. 21).
5. Negli ultimi due secoli, l’ateismo ha assunto dimensioni di massa. In molti casi esso non è derivato – almeno inizialmente – da un consapevole materialismo, ma è stato – scrive il Pontefice – «secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. E’ in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia»(par. 42).
In questa analisi dell’ateismo come moralismo sono avvertibili echi di certo progressismo cattolico di metà Novecento. Così, anche per Ratzinger, questo ateismo diffuso ha origine da determinati limiti del cristianesimo degli ultimi secoli. Esso si sarebbe atteggiato a religione della salvezza individuale e avrebbe rinunziato a porre su d’un piano storico-universale il problema del significato dell’esistenza e (quindi) del dolore umano: «con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito» (par. 25, ma anche 22 e 42).
Ecco l’autocritica a cui il Papa invita il cristianesimo contemporaneo ed ecco perché la Spe salvi ripropone il grande tema dell’«ingiustizia nella storia». E qui tornano i temi dell’agostinismo ratzingeriano: come abbiamo accennato, «il mondo è come un torchio che spreme»: ma che senso dare alle sofferenze di coloro che – per millenni – sono stati «spremuti»? Di quelli che – come diceva don Rodrigo – «son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno» (Promessi sposi, cap. XI)? Le filosofie della storia dei secoli passati ne hanno fatto il “materiale” su cui il progresso costruiva il suo faticoso cammino: l’uomo giunto a perfezione avrebbe dovuto volgere il capo verso di loro e dire: “noi siamo giunti finalmente alla meta, ma lo siamo anche grazie alle vostre tribolazioni”. Ciò attribuiva un significato meramente strumentale a quelle innumerevoli esistenze, ma si trattava pur sempre di un qualche significato. Ora, con la crisi irreversibile di quelle concezioni storiche, col riconoscimento diffuso che la storia non ha un “senso”, esse rischiano di perdere definitivamente un qualsiasi significato.
La questione che Benedetto pone all’uomo contemporaneo è perciò la seguente: ci dobbiamo rassegnare al fatto che l’ingiustizia abbia l’ultima parola nella storia umana? Che le sofferenze dei secoli passati e del presente siano senza riscatto? E’ in questa prospettiva che egli torna a parlare con forza del «Giudizio finale», non in un’ottica apocalittico-punitiva, ma come elemento di speranza, che ristabilisca un equilibrio nell’economia della storia del mondo: «Io sono convinto – dice mettendosi in gioco in prima persona – che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita» (par. 43). La prospettiva del giudizio finale – il Papa insiste anche su questo – non comporta rassegnazione contro le ingiustizie del presente, anzi «chiama in causa la responsabilità» di ciascuno (par. 44): ci spinge a un’etica non piattamente eudemonistica, ma a «preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita». Tale etica “ascetica” (così l’avrebbe chiamata Georges Sorel) ci è talvolta indicata anche da molti “buonismi” contemporanei: «ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso», insomma quando ne va della vita, «la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria» (par. 39).
La speranza cristiana – nell’enciclica di Benedetto XVI – torna così ad assumere una dimensione anche sovraindividuale, cosmico-storica si potrebbe dire: essa si presenta come l’unica capace di dare un senso alla storia universale.