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Isaac Newton ultimò nel 1686 i suoi Philosophiae naturalis principia mathematica, che l’anno seguente furono pubblicati a Londra. Alla seconda edizione del 1713 Newton aggiunse uno “Scholium Generale”. Nei Principia l’interesse di Newton era rivolto principalmente a confutare la teoria cartesiana dei movimenti dei pianeti, che egli respingeva in quanto teoria materialistica. La perfezione, la regolarità di tali movimenti, scrive Newton, non poteva “avere origine da cause meccaniche” (originem non habent ex causis mechanicis).

E’ vero piuttosto che “questa elegantissima compagine a noi visibile (elegantissima haecce … compages) del sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere se non per il disegno e la potenza di un essere intelligente e potente (non nisi consilio et dominio entis intelligentis et potentis oriri potuit). E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti con un identico disegno (simili consilio constructa), saranno soggetti alla signoria di Uno solo (suberunt Unius dominio). … E affinché i sistemi delle stelle fisse non cadessero, a causa della gravità, vicendevolmente l’uno sull’altro, questo stesso pose una distanza immensa fra di loro. Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come Signore dell’universo (ut universorum dominus)”.

Ma noi possiamo riconoscere colui che “a causa della sua signoria suole essere chiamato Pantocrator”? Della sua sostanza, della sua essenza, non abbiamo alcuna idea, alcuna immagine. “Possiamo conoscere Dio solo attraverso le sue proprietà e i suoi attributi (per proprietates ejus et attributa), e tramite il sapientissimo ed ottimo ordinamento e le cause finali del mondo (per sapientissimas et optimas structuras et causas finales); e lo ammiriamo in virtù delle sue perfezioni (et admiramur ob perfectiones)”.

Per poter conferire a queste asserzioni chiarezza e incisività definitive, Newton si scaglia contro l’allora già imperante deismo (ossia la riduzione dell’operare divino ad un’attività da “orologiaio”, situata, nel tempo, soltanto all’inizio):

“Dio senza signoria, provvidenza e cause finali (deus sine dominio, providentia et causis finalibus) altro non è che fato e natura (nihil aliud est quam fatum et natura). Da una cieca necessità metafisica (a caeca necessitate metaphysica), che è sempre e ovunque la stessa, non nasce alcuna possibilità di variazione delle cose (nulla oritur rerum variatio). L’intera varietà delle cose, ordinate secondo il luogo e il tempo, ha potuto nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un essere necessariamente esistente (tota rerum conditarum pro locis ac temporibus diversitas, ab ideis et voluntate entis necessario existentis solummodo oriri potuit)”.

Questo passo dello “Scholium Generale” si chiude con le lapidarie parole:

“E questo per quanto riguarda Dio; disquisire di lui sulla base dei fenomeni è in ogni caso compito della filosofia della natura (et haec de deo, de quo utique ex phaenomenis disserere, ad philosophiam naturalem pertinet)” (Newton, Philosophiae naturalis prinicipia mathematica, III edizione, Londra 1726, 526-529).

Il celebre “Scholium” newtoniano contiene in nuce le questioni essenziali che trattiamo oggi quando affrontiamo il rapporto fra la scienza, la ragione e la fede. La passione con cui viene condotto il dibattito si è riaccesa ancora una volta con veemenza quando ho pubblicato un articolo su questo argomento sul New York Times del 7 luglio 2005.

Ma perché, sin da Galilei e Newton, queste domande vengono discusse con tale veemenza e passione? Fra gli eruditi le controversie sono sempre esistite, e sempre esisteranno. Il dibattito sulla questione se un manoscritto scoperto di recente contenga un’opera autentica di Sant’Agostino o no, riguarda una piccola cerchia di addetti ai lavori. La questione però se l’origine dell’universo, e in esso della nostra terra, e su di essa di noi uomini, sia dovuta al “cieco destino” o ad un “progetto saggissimo e buono”, tocca invece gli animi di molti, poiché riguarda le domande che ogni essere umano prima o poi si pone: “Da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è il senso della vita?”.

Ma queste domande non dovrebbero esser poste in primis alla religione? È sensato attendersi una risposta dalle scienze (della natura)? Non chiediamo forse troppo alla scienza? Che accadrebbe se gli scienziati, sulla base delle loro ricerche sulla natura, arrivassero alla conclusione di spiegare tutto come il risultato del cieco gioco di caso e necessità? La risposta religiosa alle domande essenziali dell’essere umano non diverrebbe allora infondata, senza ragione, come una ghirlanda che librandosi nel vuoto, senza motivo, senza fondamento, affermasse che ci sarebbe un senso, un progetto dietro a tutto ciò, e che tutto avrebbe un fine ultimo che Dio ha voluto e che anche realizza? A ciò si aggiunga: se l’asserzione secondo cui il mondo testimonia un progetto, una finalità da parte del Creatore si dimostrasse infondata a livello scientifico, allora il credere in un Creatore e nella sua provvidenza sarebbe irragionevole. La fede nella creazione, allora, potrebbe al massimo basarsi su un credo quia absurdum. Una fede che però si basasse su un fondamento assurdo non sarebbe una fede, ma soltanto un’illusione. La fede nel Creatore è un’illusione priva di futuro, come ad esempio ha tentato di dimostrare Sigmund Freud?

Lo “Scholium Generale” di Newton è parte di questo dibattito. Per Newton l’armonia delle orbite dei pianeti è un fenomeno che non si può spiegare “a partire da cause meccaniche”. Questa compagine “elegantissima“ può aver avuto origine soltanto in virtù del disegno e della potenza di un’intelligenza suprema. Dai fenomeni naturali si arriverebbe alla certezza riguardo al Creatore.

Dunque esiste una “prova cosmologica dell’esistenza di Dio”? Alcuni fenomeni particolarmente complessi non depongono nettamente a favore di un “disegno intelligente” nella natura? Newton si spinge ancor oltre: dal cieco gioco di caso e necessità non può avere origine la varietà delle cose. La teoria dell’evoluzione oggi diffusa afferma proprio il contrario: l’intera varietà delle specie è nata dal gioco privo di orientamento delle forze della mutazione e della selezione. Per Newton, l’intera varietà delle cose è scaturita soltanto ed esclusivamente “dalle idee e dalla volontà” dell’essere supremo. Questa è una certezza che gli deriva dalle sue ricerche. E se fosse vero il contrario? Che la sua fede nel Creatore lo induce a vedere le cose sotto questa luce? Lasciamo per il momento la questione in sospeso.

Narriamo dapprima il celebre aneddoto raccontato da Voltaire: Newton sedeva una sera sotto un albero di mele, nella fattoria dei genitori. “Cadde una mela dall’albero. Newton vide ciò e guardò la luna che brillava nel cielo della sera. In quel momento pose la questione decisiva: ‘Se la mela cade sulla terra, perché la luna non vi cade?’. La forza di gravità con cui la terra attrae la mela dovrebbe agire allo stesso modo sulla luna, più lontana, ma pur tuttavia nel raggio d’azione della terra” (R. Taschner, Das Unendliche. Mathematiker ringen um einen Begriff, Berlin-Heidelberg 2006 2, pag. 52). Ebbene, la luna non precipita sulla terra. Ciò accadrebbe se fosse ferma. Dal momento però che si muove con moto costante, senza la forza di gravità della terra si allontanerebbe da questa. Entrambe le forze agiscono insieme, il moto della luna e la forza di gravità della terra (cfr. ibid., pag. 53). Newton ha calcolato questo concorso di forze. Era però convinto che questi movimenti regolari non possono aver avuto origine da cause meccaniche, ma “soltanto in virtù del disegno” e della potenza di un essere intelligente supremo, che noi chiamiamo Dio.

Newton ritenne al riguardo che la provvidenza divina intervenga continuamente per garantire la stabilità dell’orbita dei pianeti e del sistema solare (cfr. St. L. Jaki, Intelligent Design? Port Huron, MI, USA, 2005, pag. 12). Sembrava che, senza un simile e ripetuto intervento speciale del Creatore, l’ordine delle orbite dei pianeti fosse inspiegabile. 

Leibniz rimprovera a Newton che, secondo la sua dottrina, “Dio dovrebbe ogni tanto ricaricare il suo orologio che altrimenti si fermerebbe”; secondo la visione di Newton l’opera di Dio sarebbe “così imperfetta, che Dio è costretto, di tanto in tanto, a ripulirla con un intervento straordinario e ad aggiustarla addirittura, come fa un orologiaio con la sua opera. Leibniz ritiene che questo sminuisce l’onnipotenza divina e vi contrappone la propria dottrina della “bella armonia prestabilita”, nella quale, solo, si rivela la sapienza e la potenza di Dio (vedi Samuel Clarke, Briefwechsel mit G. W. Leibniz von 1715/1716, a cura di E. Dellian, Amburgo 1990, pag. 10 sgg.; cfr.E. Dellian, Die Rehabilitierung des Galileo Galilei oder Wie die Wahrheit zu messen ist, Berlino 2006, stampa privata, pag. 326). La questione non ha perso oggi nulla della sua attualità. È presente il Creatore nella sua opera?

Quando, poco meno di un secolo dopo, Laplace fu davvero in grado di dare una spiegazione “meccanica” dell’orbita dei pianeti, rivolse a Napoleone, che preoccupato gli chiedeva quale fosse il posto di Dio in quella spiegazione, la celebre frase: “Je n’ai pas besoin de cette hypothèse” (non ho bisogno di questa ipostesi).

Laddove Dio è chiamato a riempire le lacune del sapere, il suo spazio si riduce sempre più ad ogni scoperta che riesca a chiarire qualcosa fin’allora inspiegabile. Queste “nicchie di sopravvivenza” del Creatore sono divenute sempre più ristrette e, quanto più successo hanno avuto le scienze naturali, tanto più sicuri di vittoria si sono sentiti molti degli appartenenti alla scientific community, affermando che un giorno “l’ipotesi di Dio” sarebbe divenuta del tutto superflua.

Sotto il medesimo auspicio si è presentato anche Charles Darwin. Come il professor Stanley L. Jaki ha più volte dimostrato e accuratamente documentato, Darwin era “ossessionato” dall’idea di fornire una spiegazione scientifica plausibile dell’origine delle specie che potesse prescindere del tutto da atti creativi separati, propri di Dio. La sua “teoria della discendenza”, che soltanto in seguito fu chiamata teoria dell’evoluzione, era una lunga argomentazione a favore di una spiegazione “immanente al mondo”, ossia puramente materiale, meccanica, dell’“origine delle specie”. Mentre Newton ancora affermava che dalla cieca necessità non poteva generarsi alcun mutamento e quindi alcuna varietà delle cose, poiché ciò poteva avere origine solo dalle idee divine e dalla volontà divina, Darwin sosteneva il contrario: l’intera varietà delle specie ha origine dalle mutazioni casuali e dalle loro opportunità di sopravvivenza. Allo scopo non sono necessari interventi speciali del Creatore.

Secondo le ricerche approfondite di Jaki, non resta alcun dubbio sul fatto che Darwin, con la sua teoria, intendesse favorire la vittoria scientifica del materialismo. E non era certo l’unico a volerlo, nell’Ottocento. Non a caso Karl Marx e Friedrich Engels hanno salutato con entusiasmo la teoria darwinista come fondamento scientifico per la loro teoria.

Questa componente ideologica, che implica una concezione del mondo, della teoria darwinista è probabilmente anche la causa principale del fatto che ancora oggi si continui a discutere di essa, di evoluzione e creazione, con la stessa intensità e passione del passato. Il dibattito degli ultimi mesi l’ha chiaramente dimostrato ancora una volta. Per questo ritengo che il compito prioritario sia apportare chiarezza al dibattito con i mezzi della filosofia della natura. Ciò richiede diversi passaggi:

 

Dove, nella teoria di Darwin (e nei suoi sviluppi successivi), opera realmente la scienza e dove invece si tratta di elementi ideologici legati ad una visione del mondo ed estranei alla scienza? Occorre scindere Darwin dal darwinismo, liberarlo dalle sue catene ideologiche. Ci sono buone ragioni per supporre che ciò sia possibile.

 

Deve essere pure consentito esercitare critiche obiettive degli aspetti ideologici del darwinismo. Non si capisce perché debba essere vietato (così come negli Stati Uniti) trattare la questione di Dio, nell’insegnamento delle scienze a scuola, e non chiedersi mai se in realtà sia lecito insegnare il materialismo (una visione del mondo assai discutibile) insieme alla teoria darwinista. Non deve per forza essere così, a meno di sovraccaricare ideologicamente le lezioni di biologia con elementi estranei alla materia. De facto ciò accade frequentemente, a scapito della scienza, della ragione e della fede.

 

Ciò richiede inoltre una grande libertà nel discutere le questioni aperte della teoria dell’evoluzione. Spesso, nella comunità scientifica, si escludono a priori tutti gli interrogativi mossi, a livello scientifico, ai punti deboli di tale teoria. Qui vige in parte una sorta di censura simile a quella che in passato spesso si rimproverava alla Chiesa.

 

La questione decisiva non si pone però sul piano delle scienze naturali, e neppure della teologia, bensì si colloca fra l’una e l’altra: sul piano della filosofia della natura. Sono sempre più convinto che i progressi decisivi nel dibattito sulla teoria dell’evoluzione avverranno a livello della filosofia della natura, della metafisica in ultima analisi. Farà bene a tutti noi addentrarci un po’ più in profondità nei nessi filosofici del nostro dibattito.

 

5.       Il dibattito degli ultimi mesi mi ha fatto capire, con molta chiarezza, una cosa: è una forzatura, se non addirittura una caricatura, ridurre tutto ad un conflitto fra evoluzionisti e creazionisti. Questo semplificherebbe troppo le cose. La posizione “creazionista” si basa su un’interpretazione della Bibbia che la Chiesa cattolica non condivide. La prima pagina della Bibbia non è un trattato cosmologico sull’origine del mondo in sei giorni. La Bibbia non ci insegna “how the heavens go, but how to go to heaven” (St. Jaki, Darwin’s Design, Port Huron, MI, USA, 2006, pag. 4).

È accettabile, per la fede cattolica, la possibilità che il Creatore si serva anche dello strumento dell’evoluzione. La questione è piuttosto se l’evoluzionismo (come visione del mondo) sia conciliabile con la fede in un Creatore. Tale questione presuppone, a sua volta, che si distingua fra la teoria scientifica dell’evoluzione e le sue interpretazioni ideologiche o filosofiche. Ciò presuppone, d’altro canto, che si pervenga ad un chiarimento dei presupposti filosofici, di pensiero, dell’intero dibattito sull’evoluzione.

Sono conciliabili la fede nella creazione e la teoria dell’evoluzione? Il “concordismo”, oggi ampiamente diffuso, afferma che “la teologia e la teoria dell’evoluzione non possono mai entrare in conflitto perché le due discipline si muovono in ambiti completamente diversi“ (A. Walker, Schöpfung und Evolution jenseits des Konkordismus, in: Intern. Kath. Zeitschrift Communio 35/2006). Questo tipo di rapporto, che Stephen Gould definisce “principio NOMA” (Non-Overlaping Magisteria), non regge, a mio avviso. Devono esserci necessariamente delle “sovrapposizioni“, delle intersezioni fra la teologia e le scienze naturali, fra la fede, il pensiero e la ricerca. La fede in un Creatore, nel suo progetto, nel suo “governo universale”, nel suo condurre il mondo verso un fine da lui stabilito, non può restare senza punti di contatto con lo studio concreto del mondo. Pertanto non ogni variante della teoria dell’evoluzione è conciliabile con la fede nella creazione.

Dice a tal proposito Adrian Walker (John Paul II – Institute, Washington):

“Un esempio classico di variante problematica della teoria dell’evoluzione è ciò che definisco darwinismo stretto: la tesi secondo cui il concorso di mutazione (genetica) e selezione naturale costituisca una spiegazione sufficiente della nascita di nuove forme di vita. Se infatti mutazione e selezione bastano a spiegare tale nascita, niente vieta che la materia cieca possa essere la prima origine della vita; una tesi che … è inconciliabile con la dottrina cristiana della creazione” (ibid., pag. 55 sg.).

Spesso si cerca una via d’uscita affermando che la biologia o in generale le scienze della natura sono materialistiche soltanto a livello metodologico, senza per questo professare il materialismo come visione del mondo. Anche se ciò fosse vero, resta comunque chiaro che questa opzione metodologica è un atto spirituale che presuppone ragione, volontà, libertà. Basta già questo a dimostrare che la restrizione del metodo scientifico a processi meramente materiali non è in grado di spiegare il complesso della realtà.

Continua a rimanere pienamente valida la frase di Newton, secondo cui è compito della filosofia della natura fare asserzioni su Dio ex phaenomenis, a partire dai fenomeni naturali. La fede cattolica afferma, insieme alla Bibbia dell’antica e nuova Alleanza, che la ragione può riconoscere con certezza, benché non senza fatica, l’esistenza del Creatore dalle sue tracce nella creazione. 

Che cosa può dunque riconoscere la ragione? Innanzitutto che essa esiste, e che è qualcosa di più delle sue condizioni materiali.

Vorrei spiegare tutto ciò ricorrendo a un esempio ben comprensibile:

Il filosofo ebreo tedesco-americano Hans Jonas ha scritto un’importante opera tarda, l’Etica della responsabilità. Gli era chiaro che non ha senso parlare di etica e di responsabilità se non c’è lo spirito, l’anima, la ragione e il libero arbitrio. I geni non si assumono alcuna responsabilità. Essi, se producono cellule tumorali, non saranno chiamati a giudizio. Neanche gli animali sono chiamati a rispondere di qualcosa. Soltanto gli esseri umani esercitano responsabilità e sono chiamati a render conto del loro operato (al più tardi nel giudizio universale). La quotidianità è una confutazione costante del materialismo. In economia, ad esempio, devo assumermi responsabilità. Le api e le formiche sono incredibilmente efficienti, ma il loro comportamento è guidato dall’istinto, per cui non rispondono dei loro errori. Soltanto gli esseri liberi sono responsabili dei loro errori. Benché la vita quotidiana confuti continuamente la visione materialistica, anche persone molto intelligenti incappano in questo errore. Hans Jonas decise così di premettere alla sua Etica della responsabilità una confutazione filosofica del materialismo. Diede al libretto il titolo di Potenza e impotenza della soggettività (Macht und Ohnmacht der Subjektivität, Frankfurt 1981). Egli vi riporta, subito all’inizio, il seguente aneddoto: tre giovani scienziati, destinati in futuro a divenire celebri studiosi, s’incontrarono a Berlino nel 1845 e “solennemente si promisero a vicenda con un giuramento … di far valere la verità secondo cui nell’organismo non agiscono altre forze se non quelle volgarmente fisico-chimiche”. I tre restarono fedeli per tutta la vita al loro “giuramento”. Hans Jonas afferma a tal riguardo: “Nella promessa solenne essi confidarono in qualcosa di assolutamente non fisico, nel loro rapporto con la verità, la forza che, per l’appunto, governava il comportamento dei loro cervelli, e che però essi, in generale, nel contenuto della solenne promessa, negarono” (ibid., pag. 13 sg.).

Ma quale forza è qui all’opera? Essere in grado di promettere qualcosa, sforzarsi di mantenere la promessa, con il rischio anche di poterla rompere: tutto questo non può essere effetto di forze prettamente materiali. L’ elaborazione di una teoria scientifica è un processo spirituale, persino quando la teoria in questione è materialistica. È nota l’osservazione ironica di Alfred N. Whitehead (The Function of Reason, Princeton 1929, pag. 12) su quei darwinisti che rifiutano ogni finalità della natura: “Those who devote themselves to the purpose of proving that there is no purpose constitute an interesting subject for study” (Coloro che si dedicano interamente al fine di dimostrare che non esiste alcun fine costituiscono un soggetto di studio interessante). L’uomo fa esperienza di se stesso come uno che si propone finalità e scopi. L’agire umano non sarebbe infatti pensabile se non come orientato a un fine. Non esiste esempio di un agire più finalizzato di quello scientifico, e in particolare dell’agire delle scienze naturali.

Qual’è però la situazione del mondo subumano? Cosa dire degli animali, delle piante, della natura inorganica, del cosmo stesso? Esistono qui dei fini? E, se esistono, chi è che li stabilisce? Chi persegue dei fini, se non c’è una volontà che se li prefigga? È questo probabilmente il quesito fondamentale nel dibattito su creazione ed evoluzione. Ci può essere d’aiuto un’osservazione di Darwin in una lettera del 1870 a J. Hooker (More letters of Charles Darwin, ed. F. Darwin and A. C. Seward, New York 1903, vol. I, pag. 321): “I cannot look at the universe as a result of blind chance. Yet I can see no evidence of beneficent design, or indeed any design of any kind, in the detail” (Non posso considerare l’universo come il risultato di un cieco caso. Tuttavia, nel dettaglio, non posso avere l’evidenza di un disegno benevolo o, a dire il vero, di un qualsiasi disegno).

L’osservazione della natura, lo studio dell’universo, della terra, della vita, ci parla con “overwhelming evidence”, con schiacciante evidenza (sono i termini che ho usato sul New York Times) di un ordine, di un progetto, di una armonia (finetuning), di intenzione e fine. La questione è soltanto: chi è che riconosce il disegno? E come lo riconosce? Darwin dice di non poter riconoscere alcun tipo di disegno nei dettagli della sua ricerca sulla natura. Seguendo il metodo strettamente scientifico, quantitativo e misuratore, ciò, in effetti, non è possibile. Martin Rhonheimer dice a tal riguardo: “Ciò che noi effettivamente possiamo vedere ed osservare nella natura non sono né progetti né intenzioni, ma al massimo … il loro prodotto. Noi vediamo la teleologia, gli sviluppi finalizzati, un ordine della natura che è adeguato al fine ed è bello. Non ci è dato però osservare se il principio che muove questi processi naturali siano effettivamente ‘intenzioni’ e ‘progetti intelligenti’. Ciò che vediamo nella natura non è un disegno, ma qualcosa che deve necessariamente basarsi su un disegno” (Pro manuscripto, pag. 4).

Noi diciamo sempre che “la natura” ha fatto le cose in un certo modo, che le ha organizzate ecc., come se “la natura” fosse un soggetto dotato di spirito, che si pone esso stesso dei fini e che opera mirando al loro raggiungimento. Anche i darwinisti più rigorosi, e lo stesso Darwin, parlano a più riprese della natura in questa maniera “antropomorfica”, anche se poi si correggono e dicono, come Julian Huxley (Evolution in Action, New York 1953, pag. 7): “At first sight the biological sector seems full of purpose. Organisms are built as if purposely designed … But as the genius of Darwin showed, the purpose is only an apparent one” (A prima vista il mondo biologico sembra ricco di finalità. Gli organismi sono costruiti come se fossero disegnati intenzionalmente … Ma il genio di Darwin ha dimostrato che il fine è solo un fine apparente).

“La natura” si comporta solo come se avesse dei fini? San Tommaso d’Aquino nella “quinta via”, la sua quinta “prova dell’esistenza di Dio”, aveva indicato una via di pensiero che qui prosegue oltre. I corpi fisici, egli dice, che di per sé sono privi di conoscenza, agiscono in maniera finalizzata, come possiamo vedere, per raggiungere ciò che è bene per loro. Essi raggiungono il loro fine non a caso, ma per intenzione (non a casu, sed ex intentione). Ma essendo privi di intelletto non lo raggiungono diretti dalla propria intenzione, bensì da quella di un essere intelligente che li dirige verso il fine come un arciere la freccia. Questo essere intelligente, che dirige tutte le cose naturali verso il loro fine, lo chiamiamo Dio (cfr. STh I, q.2, a.3).

C’è un testo affascinante di San Tommaso che dimostra con grande evidenza come si possa pensare l’operare del Creatore, come egli “infonda” nella natura la sua finalità (ringrazio cordialmente il professor Rhonheimer per avermi indicato questo testo così importante): il testo è particolarmente d’aiuto, poiché paragona la natura con l’arte ovvero con la tecnica (così infatti si può tradurre ars): “La natura si differenzia dall’arte/tecnica soltanto per il fatto che la natura è un principio intrinseco, mentre l’arte/tecnica è un principio estrinseco.” Per chiarire il “principio intrinseco” di “natura”, San Tommaso usa un paragone: “Se l’arte di costruire le navi fosse immanente al legno, allora la natura (del legno) produrrebbe la nave, così come normalmente fa la tecnica.” E in un brano successivo Tommaso specifica ancora una volta: “La natura non è altro che una certa arte/tecnica, ossia l’arte divina impressa nelle cose, dalla quale le cose stesse sono mosse verso un fine determinato (natura nihil est aliud quam ratio cuiusdam artis, scilicet divinae, indita rebus, qua ipsae res moventur ad finem determinatum).” E di nuovo Tommaso illustra il suo pensiero con la metafora della costruzione di una nave: “come se il costruttore di una nave fosse in grado di fornire ai pezzi di legno il potere di muoversi da sé per assumere la forma di una nave” (In Physic. lib.2, e 14, n.8).

Martin Rhonheimer commenta: “La natura si comporta teleologicamente (come se agisse secondo un progetto e in modo intelligente); ma poiché nella natura stessa non si possono individuare cause intelligenti e agenti a livello intenzionale, tale causa intelligente deve risiedere al di fuori della natura” (M. Rhonheimer, Pro manuscripto, pag. 11).

Così, come la nave porta alla domanda: “Chi l’ha costruita?”, allo stesso modo, l’esperienza evidente di adeguatezza al fine, di ordine e di bellezza della natura porta a chiedersi: “Da dove proviene tutto ciò?”. La teoria dell’evoluzione, con il suo metodo scientifico, non può dare risposta a questa domanda, essa può soltanto ricercare le cause agenti nella natura ed empiricamente constatabili. “Per questo essa non può neanche ritenere di dimostrare la non esistenza di un Dio che progetti, il cui spirito sia la causa della natura e della sua evoluzione” (ibid.).

Una frase spesso citata di George G. Simpson (The Meaning of Evolution, New Haven, 1949, pag. 344) dice: “Man is the result of a purposeless and materialistic process that does not have him in mind. He was not planned” (L’uomo è il risultato di un processo materialistico e senza scopo che non lo aveva in mente. Egli non era programmato). Se Simpson avesse detto: “mediante il metodo meramente quantitativo e meccanico non si riesce a constatare alcun progetto secondo il quale avrebbe avuto origine l’uomo”, tale affermazione avrebbe potuto corrispondere al vero. Ma questa maniera di vedere le cose non è “data per natura”, è invece un’opzione volontaria, metodica, altamente finalizzata allo scopo.

La consapevole restrizione dell’osservazione a quanto è quantificabile, numerabile e misurabile, alle condizioni e alle connessioni materiali, ha reso possibili gli enormi successi delle scienze naturali. Ma sarebbe assai problematico dichiarare come semplicemente non esistente ciò che qui si è metodicamente escluso dal campo di osservazione, a cominciare dalla ragione e dal libero arbitrio, che soli rendono possibile tale scelta metodologica.

È vero: il codice genetico dell’uomo si differenzia solo in misura minima da quello dello scimpanzè. Ma soltanto all’uomo può venire in mente di studiare il proprio codice genetico, nonché quello dello scimpanzè!

Vorrei chiarire, con un esempio, in che cosa consista il problema dei limiti del metodo scientifico. Sul settimanale Die Zeit del 3 agosto 2006 è uscito un grande dossier Il medico e il paziente che sviluppa la seguente idea: la tecnicizzazione della medicina rischia di far atrofizzare il lato umano della professione medica. Un vecchio tema tornato oggi di estrema attualità. Paul Tournier, medico ginevrino e fondatore del movimento “Médecine de la Persone”, era solito dire che il medico ha due mani e che deve usarle entrambe: l’una è quella della sua conoscenza scientifica dell’essere umano, dell’organismo e del suo funzionamento. L’altra è quella del suo cuore, della sua intuizione e della sua empatia. Il medico non può rinunciare a nessuna delle due, se vuole curare il suo paziente in modo giusto. L’uomo non è una macchina, benché il corpo umano, sotto vari aspetti, consista di meccanismi complessi e grandiosi, e di funzioni materiali. Ma nessun buon medico considererebbe l’uomo soltanto così. Prenderà sul serio anche la realtà della sua anima. La visione dell’uomo di George G. Simpson, da sola, non basterà a nessun medico. Essa è errata, se la si intende come affermazione complessiva sull’uomo nella sua interezza.

E veniamo adesso alla conseguenza decisiva che emerge dal paragone con il medico: ambedue le mani, lo strumento scientifico del medico e la sua intuizione derivante da esperienza, empatia, conoscenza dell’uomo, appartengono entrambe alla scienza medica. Soltanto la loro reciproca interazione fa sì che un medico sia bravo.

Questo modello non potrebbe aiutarci, anche nel dibattito che stiamo affrontando, a vedere le cose con maggiore chiarezza? Consentitemi di illustrare succintamente, con tre esempi, i tipici aspetti problematici del dibattito sull’evoluzionismo.

 

Il primo esempio è il concetto di specie. Il celebre libro di Darwin s’intitola The origin of species. Ma esistono davvero le specie? Il metodo meramente quantitativo riesce a coglierle? Nella teoria dell’evoluzione c’è posto per loro? Non è forse vero che tutto ciò che chiamiamo specie non è che un’istantanea nell’ampio flusso dell’evoluzione? I concetti di specie, di genere, di regno (regno animale e vegetale) non sono forse soltanto nomina nuda, pure parole, senza una realtà corrispondente? A livello di misurabilità e quantificabilità, species e genera sono parole vuote. Ma gli occhi dello spirito afferrano perfettamente che esiste la specie “gatto” (e proprio il Santo Padre Papa Benedetto, amante dei gatti, ne è un sicuro testimone!). La differenziazione fra cane e gatto è pertanto già di per sé non scientifica?

 

Ancora più evidente è la necessità di fidarsi degli “occhi dello spirito” quando ne va della questione che oggi viene più volte respinta come “non scientifica”, perché in ultima analisi è metafisica, ponendosi al di là di ciò che è meramente materiale: la questione della forma dell’essere. “Mentre il comune buon senso afferma che cose come gli alberi o gli elefanti sono appunto cose, esseri autonomi, che sono ben più che non la mera somma delle loro componenti materiali, la teoria materialistica dell’evoluzione li riduce … a mere trasformazioni epifenomeniche della materia, la quale diviene così l’unica realtà ultima essenziale all’interno del cosmo. In ultima analisi allora non esisterebbero gli alberi né gli elefanti, ma soltanto aggregati temporanei di proprietà materiali” cui noi attribuiamo questi nomi (A. Walker, op.cit., pag. 59).

Per superare la visione materialistica dell’evoluzionismo, occorre pertanto recuperare alla scienza innanzi tutto il concetto di forma o struttura (nel senso aristotelico o goethiano). Il grande zoologo svizzero Adolf Portmann ha messo in particolare evidenza questo punto nella sua critica al darwinismo. Tutto ciò che è vivente si presenta come forma, come espressione di un’interiorità che va oltre le sue componenti materiali. La ricerca biochimica analitica può prescindere, a livello metodologico, dalla questione della forma, della struttura, ma se non vuole diventare una scienza cieca, la biochimica non può prescindere, alla lunga, dal chiedersi che cosa renda la pianta, che cosa renda il cane ciò che essi sono.

Infatti ogni misurare e quantificare presuppone sempre che ci sia l’essere vivente, questo essere umano, questo animale, questa pianta come una totalità propria percepibile anche dallo spirito umano.

Come il medico non può considerare il paziente in quanto fegato, cuore, o un qualsiasi altro organo isolato, ma come questo essere umano, il cui cuore è malato o sano, così il biologo si sforzerà sempre di considerare l’essere vivente, oggetto della sua ricerca, come un tutto e vedrà tutti i suoi dettagli come gli elementi dell’intero essere vivente. Per riprendere le parole di Hans Urs von Balthasar, si sforzerà di pervenire alla “percezione della forma”, senza la quale il suo strumento di misurazione resta cieco. Ma la “percezione della forma” è anche la via per riconoscere le tracce del Creatore.

 

E vengo così al mio terzo esempio. Leggere le tracce di Dio nel creato è cosa che compete alla scienza? Gli scienziati del passato, da Copernico a Galilei a Newton, ne erano convinti. Essi conoscono, oltre al libro della Bibbia, il libro della creazione, in cui il Creatore ci parla in un linguaggio leggibile e comprensibile (cfr. R. Schaeffler, Lesen im Buch der Welt. Ein Weg philosophischen Sprechens von Gott?,in: Stimme der Zeit 2006, pagg. 363-378).

Quello che la visione materialistica della scienza non considera è lo stupore per la “leggibilità” della realtà. L’indagine scientifica della natura è possibile soltanto perché la natura ci dà delle risposte. Essa è “costruita” in maniera tale che il nostro spirito riesce a penetrare nelle sue leggi di costruzione. Che c’è dunque di più ovvio dell’ipotesi che la possibilità di indagare e quindi di conoscere la realtà (benché in modo faticoso e soltanto parziale) derivi dal fatto che essa porta la “firma” del suo autore? Dio parla nel linguaggio del suo creato e il nostro spirito, che è anch’esso sua creazione, riesce a percepirlo, ad ascoltarlo, a comprenderlo. Non è forse questo, in ultima analisi, il motivo per cui la scienza moderna è cresciuta proprio sulla terra madre della fede giudaico-cristiana nella creazione? Una comprensione materialistica e ristretta della scienza scambia le lettere per il testo. Lo studio e l’analisi delle lettere materiali sono propedeutici alla lettura del testo. Ma esse non sono il testo stesso, bensì il suo supporto materiale. Anche qui si vede ancora una volta, come già nell’esempio del medico, che la scienza che si limita soltanto alle condizioni naturali è “monca di una mano” e quindi “unilaterale”. Le manca ciò che qualifica l’uomo come tale: il dono di potersi elevare, con la ragione e l’intuizione, al di sopra delle condizioni materiali, e di penetrare fino al senso, alla verità, al “messaggio dell’autore del testo”.

E vengo alla conclusione di queste riflessioni, già troppo lunghe. Quali conseguenze pratiche risultano dalle riflessioni abbozzate? Fra le molteplici possibili riflessioni di approfondimento ne scelgo solo due:

1. Perché l’“evoluzionismo”, con il suo materialismo ideologico, è divenuto ormai quasi una sorta di surrogato della religione? Perché tanto spesso viene difeso in modo così aggressivo ed emotivo? Oso affermare che al momento non c’è probabilmente un’altra teoria scientifica contro la quale esistano obiezioni altrettanto gravi, e che ciononostante venga difesa da molti come assolutamente sacrosanta. Le obiezioni più importanti sono ben note e sono state avanzate frequentemente:

–     i “missing links”, le numerose forme intermedie mancanti fra le specie, nonostante centocinquanta anni di intense ricerche, non sono stati trovati;

–     il fatto, spesso ammesso, che finora non è mai stata realmente dimostrata un’unica forma di evoluzione da una specie all’altra;

–     l’impossibilità, a livello di “teoria dei sistemi”, che un sistema vivente (ad esempio i rettili), mediante innumerevoli mutazioni di minima entità, possa essere trasformato in un altro sistema vivente (ad es. gli uccelli);

– il problematico concetto di “survival of the fittest”. Marco Bersanelli ha dimostrato, con degli esempi, che la sopravvivenza dipende spesso soltanto dalla “fortuna”, che è una casualità, una contingenza, e non la prova di una particolare “fitness”. I dinosauri, e molte altre specie, sono scomparsi per delle catastrofi naturali e non a causa della loro non adattabilità.

Queste sono soltanto alcune delle maggiori difficoltà della teoria. Ma perché essa, nonostante ciò, è ancora così tanto considerata come teoria scientifica? Perché finora non ne esiste un’altra migliore e perché, come teoria scientifica, è semplice ed “attraente”.

Ma perché allora viene così caricata di ideologia e diviene uno shibolet materialista? Perché essa è la visione del mondo alternativa alla fede nella creazione. Chi dice creazione, dice anche necessità del Creatore. Se esiste un linguaggio leggibile del Creatore, allora esso è anche un appello, una richiesta del Creatore. Da cui deriva anche un dovere, un ordine etico, ad esempio nella questione della relazione fra i sessi o della difesa della vita. Al materialismo e al relativismo si può più facilmente collegare una visione materialistica dell’evoluzione. Non è un caso che l’evoluzionismo ideologico sia stato l’orpello scientifico sia del comunismo che del nazionalsocialismo. Ed è oggi l’orpello del darwinismo socio-economico, che giustifica la sfrenata “lotta economica per l’esistenza”.

Ci rallegra l’illogicità dell’affermazione di Richard Dawkins, principale teorico del darwinismo ideologico, quando in un’intervista, dice che non vorrebbe vivere in una società darwinista, poiché sarebbe troppo disumana. 

2. C’è però ancora un altro motivo che rende plausibile il darwinismo. La fede in un Creatore buono, nel suo “progetto intelligente del cosmo” (Papa Benedetto XVI, udienza generale del 13 novembre 2006), è messa in dubbio da una serie infinita di atrocità:

– perché questo faticoso cammino dell’evoluzione: innumerevoli tentativi, vicoli ciechi, miliardi e miliardi di anni, l’espansione dell’universo, le esplosioni gigantesche delle supernove, gli elementi che bruciano nella fusione nucleare delle stelle, la macina instancabile dell’evoluzione con i suoi infiniti inizi e distruzioni, le sue catastrofi e crudeltà, fino ad arrivare alle indicibili brutalità della vita e della sopravvivenza? Non è più sensato considerare tutto come il cieco gioco del caso, di una natura priva di progetto? Non è più onesto questo che non i tentativi di teodicea di un Leibniz, cui vengono a mancare gli argomenti? Non è forse più plausibile dire semplicemente: sì, il mondo è proprio crudele?

Giunti al termine delle nostre riflessioni va precisata una cosa: non pretendiamo dappertutto dimostrare l’“intelligent design” in maniera avventata, apologetica. Come Giobbe, neanche noi conosciamo la risposta al dolore. Abbiamo ricevuto soltanto una risposta. Ce l’ha data Dio stesso. Il Logos, attraverso il quale e nel quale tutto è creato, ha assunto la carne e con essa l’intera storia dell’universo, l’evoluzione con i suoi lati grandiosi e orribili. Ha assunto su di sé l’intera negatività del dolore, della distruzione e soprattutto del male morale. La croce è la chiave di lettura del piano e del consiglio di Dio. Per quanto sia importante, imprescindibile, uno sforzo rinnovato ed approfondito in temi di filosofia della natura, la parola della croce è l’ultima sapienza di Dio. Infatti egli ha riconciliato il mondo intero attraverso la sua santa croce. Ma la croce è la porta per la risurrezione.

Nella sua prima omelia pasquale, Papa Benedetto quest’anno ha detto: “La risurrezione di Cristo …, se possiamo per una volta usare il linguaggio della teoria dell’evoluzione, è la più grande ‘mutazione’, il salto assolutamente più decisivo, verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuto: un salto in un ordine completamente nuovo, che riguarda noi e concerne tutta la storia… È un salto di qualità nella storia dell’’evoluzione’ e della vita in genere verso una nuova vita futura, verso un mondo nuovo che, partendo da Cristo, già penetra continuamente in questo nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé” (Omelia della Veglia pasquale, 15 aprile 2006).

Se la risurrezione di Cristo è, per così dire, “la più grande mutazione”, o come dice Papa Benedetto nella stessa omelia, l’“esplosione dell’amore” che sciolse l’intreccio fino ad allora indissolubile del “muori e divieni”, allora anche noi possiamo dire: questo è il traguardo “dell’evoluzione”. A partire dalla sua fine, dal suo compimento, si manifesta anche il suo senso. Anche se nelle sue singole fasi può forse apparire privo di fine e di orientamento, dalla prospettiva della Pasqua quel lungo cammino ha avuto un senso. Non: “il cammino è la meta”, ma: “la risurrezione è il senso del cammino”.

(Il testo della relazione di S.E.R. Card. Christoph Schönborn: Fides, ratio, scientia. Il dibattito sull’evoluzionismo, Libreria Editrice Vaticana 2007)