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Come affrontare e vincere la sfida educativa

Per le società del passato l’educazione ha sempre rappresentato un compito; per la nostra sta diventando soprattutto una sfida. Se fino a ieri sembrava quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione dei “nuovi venuti”, secondo la tradizione ereditata dai padri, oggi, chi più chi meno, tutti constatiamo la dissoluzione di questa sorta di automatismo. La parola “tradizione” è diventata non a caso sospetta, sinonimo quasi di vecchiezza e di incapacità di far fronte ai nuovi problemi; una parola insomma di quelle che suscitano reazioni emotive sfavorevoli. Quanto alla scuola, dopo la sua fase di politicizzazione più estrema e più vandalica proprio nei riguardi della tradizione, essa sembra aver accantonato qualsiasi pretesa di essere un luogo educativo al servizio dei valori fondamentali della comunità e galleggia ormai affannosamente in un mare di incertezze. Se poi consideriamo la crisi analoga che attanaglia anche la famiglia, credo che si chiarisce in che senso dicevamo che l’educazione sta diventando oggi, a tutti i livelli, una sfida, un compito sempre più difficile.

Dal momento che viviamo in una società “ipotetica”, orgogliosa della propria “debolezza” normativa e intellettuale, le nostre istituzioni educative, in particolare la scuola, finiscono necessariamente per navigare a vista; non hanno una rotta precisa, né un obbiettivo sociale da raggiungere; si sono fatte sempre più autoreferenziali, sempre più invischiate in problemi che sono esse stesse a creare, in una sorta di continuo cortocircuito con la realtà. Vengono moltiplicate le discipline di studio e contemporaneamente si registra una diffusa perdita di senso dello studio stesso; si dice che i ragazzi, studiando, debbono soprattutto divertirsi, e poi ci si sorprende che essi, alla scuola, preferiscano altri divertimenti; si parla tanto, e giustamente, di una sorta di orgia dell’informazione nella quale tutti saremmo immersi, ma la scuola, anziché fornire gli strumenti adatti a districarsi in quest’orgia, sembra farsene semplice cassa di risonanza; in nome di un malinteso pluralismo si eludono le questioni sostanziali collegate ai valori, alle convinzioni, alle tradizioni culturali dei popoli e poi ci si sorprende che i giovani non diventano per questo più aperti all’ “altro”, ma semplicemente più spaesati, più sradicati e quindi più esposti al rischio di nuovi fanatismi. La scuola, si dice, deve servire a introdurre i giovani nel mondo del lavoro; ma poi, almeno in Italia, dobbiamo registrare un’incomprensibile avversione per le cosiddette “scuole professionali”; l’introduzione delle nuove tecnologie multimediali viene presentata sovente come la nuova frontiera dell’educazione, ma in realtà sembra accentuare soltanto il disorientamento che pervade i nostri sistemi educativi, sempre più improntati a una preoccupante superficialità. Per farla breve, tutto sembra configurarsi come una sorta di alibi per eludere la questione cruciale: che cosa significa educare?

Il Ministro Fioroni ha lasciato intendere di essere intenzionato a prendere finalmente il toro per le corna. La volontà di ripristinare alcune evidenze educative fondamentali, quali lo studio della grammatica italiana, delle tabelline e della geografia, nonché il tentativo, ancorché pallido e purtroppo in gran parte rimangiato, di reintrodurre gli esami di riparazione sono stati segnali importanti. Proprio quando la situazione è complessa occorre infatti aggrapparsi a idee semplici. Per cui ora è importante andare avanti e avere il coraggio di riproporre nelle nostre scuole l’importanza della disciplina e il ritorno al vecchio voto, spazzando via quegli stucchevoli giudizi che affannano insegnanti, genitori e alunni, senza che nessuno ci creda.

“Educare l’uomo –così recita uno dei tanti aforismi fulminanti di Nicolàs Gòmes Devila- è impedirgli la libera espressione della sua personalità”. Ecco una bella provocazione per gran parte della pedagogia contemporanea. Lasciati a loro stessi, come aveva ben intuito Durkheim, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei loro desideri senza fine. Proprio per questo ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di insegnare. Ma è difficile avere l’una e gli altri se non c’è una tradizione ritenuta degna di essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto un “bene”, è giusto esigere rigore, fatica, disciplina e, incredibile dictu, fiducia nel futuro. Proprio così: fiducia nel futuro. Il principio vitale della tradizione, infatti, non è tanto e non è solo il passato, la memoria, ma la capacità di assicurare continuità alle nostre vite, predisponendole al futuro. Invece, disamorati come siamo della nostra tradizione, sempre più sfiduciati nel nostro futuro, ci siamo ormai assuefatti all’idea che a scuola non si debba mai chiedere a qualcuno di imparare qualcosa di difficile. Qualsiasi proposta educativa incentrata sulla “qualità” viene non a caso liquidata come intrinsecamente “elitaria”. Ma in questo modo, come denunciò a suo tempo Christopher Lasch, un intellettuale di certo non di destra, ci allontaniamo sempre di più dal senso stesso dell’educazione.

Anziché indirizzare l’attenzione dello studente verso quello che all’inizio egli può forse faticare a capire, ma il cui fascino potrebbe anche afferrarlo, si preferisce ricorrere, tranne in rarissimi casi privilegiati, alla semplificazione, al livellamento, all’annacquamento, ossia ad atteggiamenti che George Steiner, in una pagina memorabile della sua autobiografia intellettuale, definisce non a caso “criminali” e dietro i quali vede nascondersi una “condiscendenza volgare” verso gli studenti stessi, giudicati a priori incapaci di migliorarsi. Sembra insomma non esserci più posto per una vera e propria “formazione” (la famosa Bildung), cioè per quel processo attraverso il quale, con impegno e rigore, l’individuo assimila criticamente un determinato universo di valori non soltanto direttamente in certe discipline specifiche, poniamo la filosofia o la religione, ma anche indirettamente in tutte le altre discipline: dall’aritmentica alla grammatica, dalla storia alla geografia e perfino in quelle che una volta si chiamavano “applicazioni tecniche”. Per dirla ancora con le parole di Christopher Lasch, qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno a un determinato orizzonte di valori rischia oggi di venire considerato come un “attentato alla sua ‘libertà di scelta’”. Ma proprio se abbiamo a cuore questa libertà occorre invertire la rotta. Essa non si conquista infatti con la “neutralità etica”, né rinunciando alla formazione a vantaggio della semplice comunicazione di saperi. La Bildung è molto di più che un “sapere”. Meno che mai essa può essere ridotta a informazione. Oggi, anzi uno dei sui compiti principali deve essere proprio quello di salvarci dall’informazione, di aiutarci a resistere all’enorme flusso di informazioni dal quale siamo sopraffatti. Ma per far questo, per svolgere questa fondamentale funzione al servizio della libertà e della irripetibile unicità di ciascun individuo, la Bildung ha bisogno di tornare a radicarsi saldamente sulla tradizione cristiana e illuministica dell’Occidente; ha bisogno di tornare a essere veramente una “relazione educativa”. E tutto ciò, sia ben chiaro, non per rendere l’individuo un buon credente o un buon cittadino, ma semplicemente per aiutarlo a essere se stesso.

Per farla breve, è necessario riscoprire il significato, la rilevanza e la serietà della “relazione educativa”. Il nostro sistema educativo è attraversato da lacerazioni e problemi che interessano certo il suo ordinamento giuridico, la cosiddetta libertà d’istruzione, la sindacalizzazione forsennata o la carenza di strutture scolastiche, ma i problemi più pressanti interessano soprattutto i suoi “paradigmi pedagogici”. Non si può concepire l’insegnamento come un “esperimento”; il lavoro dell’insegnante come quello di un impiegato alle poste; la scuola come un luogo di parcheggio al servizio di genitori troppo occupati. Se è vero che viviamo ormai nella società dell’incertezza, è altrettanto vero che, proprio se vogliamo sfruttarne a pieno le grandi opportunità e non rimanerne vittime, abbiamo soprattutto bisogno di una scuola vera, di relazioni educative vere. Non è più tempo di chiacchiere pedagogiche, dietro le quali, il più delle volte, stanno soltanto interessi corporativi. A scuola i ragazzi hanno bisogno soprattutto di essere aiutati a scoprire la bellezza e la serietà della vita, a sentirsi a casa nel mondo che li circonda; in una parola, hanno bisogno di maestri. Altra idea semplice, ma fondamentale.