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Dunque la bozza di “parere” del CSM sosterrebbe che il ben noto emendamento sospendi-processi è incostituzionale per violazione del principio della ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111 della Costituzione.

Vedremo se il testo definitivo del documento di Palazzo dei Marescialli confermerà questa indicazione. Intanto, però, sembra opportuno precisare che quello votato dal CSM non sarà esattamente un “parere”: i pareri, infatti, il CSM li deve rendere su richiesta del Ministro della Giustizia, il quale però, nel nostro caso,  non sembra aver avanzato richieste di sorta. Si tratta piuttosto di una risoluzione o mozione, di assai dubbia legittimità, per vari motivi.

In primo luogo, perché il documento interviene nel corso dell’iter di formazione della legge: il solo Senato ha approvato gli emendamenti al decreto-sicurezza, ma la Camera si deve ancora esprimere. Il fatto che il CSM si pronunci in modo così pesante, determina una lesione delle prerogative del Parlamento e autorizza a parlare del tentativo del CSM di ergersi a “terza camera”, dotata di voce in capitolo nel procedimento di formazione delle leggi.

In secondo luogo, gridare all’incostituzionalità dell’emendamento suona come uno sgarbo istituzionale non da poco al Presidente della Repubblica, che in sede di promulgazione della legge di conversione è chiamato a valutare anche l’esistenza profili di incostituzionalità, al fine  di decidere di rinviarla alle Camere per una nuova deliberazione. I rilievi del CSM “pregiudicano” il giudizio del capo dello Stato o comunque lo imbarazzano: se anche deciderà di non tenerne conto smentirà l’organo che egli stesso presiede.

In terzo luogo, il CSM non è la Corte costituzionale: solo a quest’ultima spetta di decidere sui dubbi di costituzionalità delle leggi, se e quando investita della questione da parte di un giudice che stia decidendo uno dei processi da sospendere. La discrezione e il silenzio della Consulta sono proverbiali, ma c’è da scommettere che un filo di irritazione percorra anche quel Palazzo.

Insomma, non sarebbe proprio successo nulla di male se il CSM, anziché gridare all’incostituzionalità, avesse taciuto: il nostro ordinamento ha gli strumenti per risolvere fisiologicamente i problemi di costituzionalità delle leggi anche senza l’intervento dell’organo di governo dei magistrati.

Ciò detto, andiamo al merito del problema.

Sul fatto che l’obbligatorietà dell’azione penale sia un feticcio, e che l’adozione di criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato sia realtà quotidiana delle procure e dei Tribunali, c’è un certo consenso. Lo stesso CSM, pochi mesi fa, ebbe ad approvare (sia pur dividendosi) alcune circolari di procuratori che stabilivano criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato. E il fatto che qui sia il legislatore a intervenire sul punto, senza lasciare campo libero alle scelte autonome di p.m. e giudici, sembra corretto, perché le scelte di priorità sono in realtà scelte di politica giudiziaria, che richiedono assunzione di responsabilità politica.

E’ vero che nel caso dell’emendamento si ha a che fare non con notizie di reato, ma con processi già avviati. E, in termini di possibile incostituzionalità della previsione, si tratta di decidere se la sospensione violi il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 cost.), la quale richiede che i processi non siano solo iniziati, ma anche portati a termine. Si deve in particolare valutare se la sospensione di un anno incida in modo letale sulla possibilità che il processo giunga a sentenza: salvo approfondimenti, non sembra irragionevole ritenere che così non sia.    

Ha un che di paradossale, poi, sostenere, come fa il CSM, che l’emendamento viola il principio della ragionevole durata dei processi. I processi sospesi sono quelli per fatti commessi fino al 30 giugno 2002 che si trovino in uno stato compreso fra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado. Cioè: fatti risalenti a sei anni fa, il cui processo ancora non ha visto la chiusura del primo grado. Si potrebbe ben dire che la violazione della ragionevole durata del processo si è già ampiamente verificata! Certo, si tratterebbe semmai di non aggravarla, agendo chirurgicamente su quei soli processi la cui trattazione davvero non interessi più a nessuno. Proprio da questo punto di vista, l’emendamento presenta un profilo d’irragionevolezza (con conseguente lesione dell’art. 3 cost.) prevedendo l’assoluta automaticità della sospensione, anche per processi che magari si stanno ormai avviando verso la sentenza di primo grado, o in Tribunali che non hanno molti altri carichi pendenti: irragionevolezza che si potrebbe magari attenuare, stabilendo una certa, limitata (e ancorata a presupposti certi)  discrezionalità dell’autorità giudiziaria nel decidere la sospensione.

Infine, c’è da rimediare alla circostanza che la persona offesa dal reato o la parte civile non possono opporsi alla sospensione: qui parrebbe realizzarsi una violazione del loro diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 cost. E si potrebbe pensare alla modifica dell’emendamento in esame, stabilendosi che non solo l’imputato, ma anche questi due altri soggetti, possono chiedere al Presidente del Tribunale di non sospendere il processo.

Queste modifiche, e forse alcune altre, potrebbero attenuare il rischio che l’emendamento venga dichiarato incostituzionale (non dal CSM ma) dalla Corte costituzionale.

Nell’attesa che un lodo Schifani-Maccanico fatto a regola d’arte contribuisca a stemperare i toni di uno scontro che potrebbe sfuggire di mano a tutti i suoi protagonisti.

(L’Occidentale)