Privacy Policy Cookie Policy

 

La parabola biografica di Giuseppe Siri attraversa – da protagonista attivo e da testimone -, quasi per intero il «secolo breve»: come vescovo e arcivescovo della diocesi di Genova, come primo presidente della Conferenza episcopale italiana, come protagonista della riforma dottrinale e pastorale del Concilio Vaticano II e, infine, come «papa non eletto», Siri ha incarnato un modo d’essere della Chiesa italiana e, con esso, un modo peculiare d’intendere il rapporto tra la dimensione privata della fede e quella pubblica. 

Negli anni nei quali la parabola biografica di Siri si compie, proprio questa relazione è investita da cambiamenti significativi, tanto sul piano politico-culturale quanto su quello più strettamente religioso. Ma non per questo Siri deflette dalle sue convinzioni. Persuaso della essenzialità del messaggio evangelico, combatte la sua battaglia contro l’idolatria della modernità, il comunismo, la  laicizzazione e la secolarizzazione dei costumi nella società italiana. E in questa battaglia non rinunzia mai a rivendicare per la Chiesa, «sposa di Cristo», il diritto di difendere se stessa e i suoi principi, in nome del primato che l’aspetto morale riveste nell’identità cristiana. L’affermazione della Legge Divina come principio informatore della vita umana, in ogni sua declinazione, lo induce ad assumere posizioni severe, integrali e, in qualche caso, addirittura integraliste. Lo spinge, soprattutto, a opporsi a qualsiasi tentativo di trattare sui dogmi o di cedere al cospetto di quelle richieste di «adeguamento del messaggio cristiano» non compatibili con il concetto stesso di «verità rivelata». In sintesi, si può affermare che il cristianesimo, così come la  missione storica della Chiesa, avrebbero sempre significato per Siri l’assunzione di principi «non negoziabili». 

La coerenza del suo impegno – come si è detto – interseca fasi cruciali della storia politica italiana e della storia della Chiesa del XX secolo. Un lavoro di scavo e di ricostruzione storica, dunque, dovrebbe impegnarsi a rintracciare i risultati che di volta in volta quest’interazione ha prodotto,  sia per quel che concerne le scelte personali di Siri, sia soprattutto per la loro ricaduta nello spazio pubblico. Va evidenziata, di contro, la tendenza della storiografia a leggere la biografia di Siri alla luce di un assetto invariabile – come se le costanti fossero due e non una sola -, utilizzando la tradizionale coppia antonimica reazione/rivoluzione. 

E’ presumibile che questa tendenza sia stata rafforzata dal fatto che la scomparsa di Siri, ancora recente in termini storici, sia avvenuta nel 1989: l’anno della caduta del muro di Berlino e della definitiva vittoria di quell’anticomunismo del quale egli era stato un fiero alfiere e che aveva rappresentato il leitmotiv di tutto il suo pensiero. La circostanza non di meno segnala, in termini addirittura emblematici, la difficoltà della storia di fare i conti con l’89 ponendo in atto una revisione che implichi innanzi tutto l’abbandono delle categorie interpretative ideologiche del tempo che fu.

In quest’intervento mi limiterò dunque, a offrire la traccia per una possibile rilettura. Per comprensibili ragioni di spazio, non proverò neppure l’analisi  pur necessaria dei passaggi di una biografia complessa. Proverò piuttosto a individuare gli snodi essenziali che segnano il rapporto tra Siri e il quadro politico italiano a partire dal secondo dopoguerra. E questi, in particolare, a me sembrano essere tre: il rapporto  con la modernità, la distinzione tra democrazia «politica» e democrazia «religiosa» e, infine, il significato che lui attribuisce all’unità politica dei cattolici. 

1. Siri e la modernità 

Nella riflessione dei cattolici impegnati in politica gli anni del secondo dopoguerra, e in particolare quelli che seguono la stagione del centrismo degasperiano, sono segnati in profondità dalla esigenza di fronteggiare le sfide della modernità. Sul fronte politico la stagione del centro-sinistra, il dialogo con le contestazioni del ’68 e del ’69, il compromesso storico e l’approdo ai governi di solidarietà nazionale hanno rappresentato le risposte a un cambiamento sociale ritento dai più ineluttabile e che, per questo, necessitava d’essere governato e non contraddetto. Parallelamente, sul fronte religioso, la svolta conciliare voluta da Giovanni XXIII nei suoi esiti e, ancor più, nella vocazione egemonica da essa suscitata muoveva nella stessa direzione: riformare il cristianesimo, adeguandolo alle esigenze di una società sempre più laica e inevitabilmente investita dai germi del secolarismo. Su entrambi i piani Siri interviene proprio in nome di una  peculiare concezione della modernità che si differenzia nettamente dalle posizioni della classe dirigente cattolica e di una parte non minoritaria del clero e dell’episcopato. 

Egli già nel 1944, criticando i ritmi di trasformazione dell’Italia postbellica, sostiene che: «la vera soluzione è la restaurazione di tutto in Cristo». E due anni dopo, nel maggio del 1946, nella prima omelia da arcivescovo, invita tutti i cattolici a essere cristiani nella vita pubblica come in quella privata, ribadendo al contempo l’esclusività della funzione episcopale, il primato della morale cristiana, la centralità del compito pubblico della Chiesa e il riferimento all’«orizzonte ultimo» in tutte le questioni personali e sociali. Questi spunti trovano una sistemazione più compiuta in una lunga lettera pastorale del marzo 1950, nella quale egli chiarisce i limiti dell’ingresso della modernità nella Chiesa, soprattutto se per modernità si sarebbe dovuto intendere tutto ciò che si adegua alle mode e allo spirito del tempo allora presente. In tal caso, agli occhi di Siri, sarebbero risultate facilmente individuabili le incompatibilità con i dogmi propri di una verità rivelata come quella cristiana. Vi sono realtà, infatti, che non possono mutare. Sono le verità eterne, la debolezza del peccato originale, il fine che Dio ha segnato per gli uomini. Trattare su queste verità equivarrebbe a tradire il carattere stesso della missione della Chiesa, portando alla rovina l’essenzialità del messaggio evangelico.  

Negli anni di De Gasperi, la Chiesa di Pio XII incarna bene le idee di centralità del messaggio evangelico e di autorità della Chiesa difese da Siri. All’autonomia dei cattolici rivendicata dal leader trentino, fa da contraltare la Chiesa di Pacelli: una Chiesa forte, retta su quel modello organizzativo verticistico che consente di gestire i rapporti con il partito dei cattolici secondo una logica di scambio e i reciproca influenza nella quale nessuna delle due parti, tuttavia, rinuncia alla sua identità originaria. L’impegno contro il comunismo – sul piano politico così come su quello religioso -, rappresenta poi un naturale terreno d’incontro. 

Nella prospettiva privilegiata da Siri, problemi più seri iniziano a porsi a partire dalla metà degli anni Cinquanta, quando lo scenario si modifica sia per l’avvento della cosiddetta «seconda generazione» ai vertici della Democrazia Cristiana sia per la successione di Giovanni XXIII a Pio XII. Se si  considera, infatti, la sua concezione del rapporto tra modernità e messaggio evangelico si comprende anche perché, in quel mentre, gli  sembri che nel cuore della Chiesa si possa aprire una nuova «Porta Pia». E questa volta, a differenza del passato, l’attacco muove anche dall’interno.  

Sul piano politico le scelte delle alleanze compiute dalla classe dirigente democristiana, prima con il centro-sinistra poi con il compromesso storico, sono di fatto «giustificate», da parte degli stessi promotori, con il ricorso alla categoria della «necessità». Per essi, insomma, i cambiamenti che investivano la società italiana a partire dagli anni del boom economico, si sarebbero dovuti governare attraverso decisioni politiche che consentivano di correggere gli squilibri determinati da una crescita sregolata e improvvisa. Questa propensione implica necessariamente la definizione  del prezzo da pagare alla modernità distante, se non proprio antitetica, rispetto a quella di Siri. Essa, tra l’altro, avrebbe chiesto ai cattolici di assecondare un adeguamento dell’amministrazione della cosa pubblica in un’ottica dell’evoluzione politica essenzialmente darwinistica: per garantire la governabilità, insomma, non si sarebbe potuto far altro che andare a sinistra, aprendo a interlocutori politici le cui aspirazioni riformistiche avrebbero consentito da un lato di arginare e indirizzare il cambiamento in atto, dall’altro alla Dc di non perdere la centralità innanzitutto elettorale, conquistata a partire dal 1948. 

A questo riguardo risulta emblematico il contenuto dell’appunto che Moro, in qualità di segretario della Democrazia cristiana, fa pervenire ad alcuni vescovi tra il 29 marzo e il 7 aprile del 1962 attraverso uomini del partito a lui vicini. Non certo casualmente, tracciando il quadro della situazione politica italiana, il segretario della Dc sottolinea le necessità politiche e sociali che impongono l’apertura al Psi. Al contempo, tuttavia, conoscendo le perplessità nutrite da frange non minoritarie dell’episcopato italiano, non manca di porre l’accento sulle implicazioni ideologiche e morali di quella svolta. L’analisi di Moro investe direttamente il terreno su cui l’opposizione al suo progetto è più intransigente, sostenendo che nulla del nuovo corso avrebbe intaccato il patrimonio spirituale e morale dei cattolici. E l’intento risulta chiaro: per ottenere l’avallo della Chiesa occorre depotenziare il centrosinistra del suo carattere ideologico-programmatico e degradarlo a mera necessità tattica. Si deve perciò sostenere che la formula non implichi una rinuncia all’anticomunismo. Al contrario è proprio la persistenza del pericolo comunista, e il rischio di una sua eventuale crescita, che richiedono di avvicinare il tradizionale alleato socialista al fine di privare il Pci di una sponda significativa.

Date le premesse dalle quali Siri muove, la sua opposizione a quest’argomentare non può che essere intransigente. D’altro canto, non è un caso che tra i 254 vescovi da contattare per la diffusione dell’appunto non figuri proprio il suo nominativo, insieme a quelli di esponenti dell’episcopato schierati sulle stesse posizioni: tra gli altri, mons. Rizzo e il patriarca di Venezia, mons. Urbani. Per Siri, infatti, l’opposizione al centro sinistra muove proprio da premesse dottrinali, prima che politiche o ideologiche, che definiscono il ruolo della Chiesa di fronte ai mutamenti sociali e culturali portato della modernità. La Chiesa di Siri è una Chiesa che non si adatta; che non rimette l’ambizione ad essere guida del cambiamento secondo leggi immanenti e perenni e dunque, per loro stessa natura, immutabili. 

Siri, insomma, non si arrende alla irreversibilità del centrosinistra prima e dell’apertura al Pci poi, optando per una contestazione del darwinismo presunto del sistema politico e sociale. Lo dimostrano, in primo luogo, i diversi messaggi che egli invia a Moro all’inizio degli anni Sessanta, attraverso l’intermediazione di mons. Nicodemo, arcivescovo di Bari. Al segretario della Dc Siri non rimprovera solo la negazione dei motivi dottrinari che ai suoi occhi tracciano un solco invalicabile tra i cattolici e le sinistre, quanto, e ancor di più, i continui tentativi di ricercare il consenso dell’episcopato attraverso canali che scavalchino la Cei e il suo presidente. Questi stessi concetti, d’altro canto, li ritrovano in una lettera inviata questa volta direttamente a Moro nel febbraio del 1961, a seguito della formazione della prima giunta di centro sinistra a Genova. In essa si ribadiscono le ragioni dottrinali della chiusura nei confronti dei comunisti « e di coloro i quali li sostengono e sono con loro associati» ma, ancor più, ci si preoccupa di ribadire che «la «linea» di portare assolutamente i cattolici a collaborare con i socialisti […] non può assolutamente essere condivisa dai Vescovi»: ad essere in pericolo non  è solo l’identità cristiana, ma la stessa unità politica dei cattolici. Per questa ragione la missiva si chiude con un appello accorato rivolto al segretario della Dc: «In nome di Dio – si legge – La prego di riflettere bene sulla Sua responsabilità e sulle conseguenze di quanto si sta compiendo».

L’opposizione di Siri al centro-sinistra, così come la matrice ideologica del suo anticomunismo continua, allora, a rimanere il cristianesimo. Ben prima e oltre qualsivoglia ipotesi reazionaria o conservatrice, Siri resta un cristiano. Ed è proprio la rivendicazione di questa «cristianità delle origini» che lo induce a difendere le prerogative  della Chiesa e delle sue istituzioni nelle questioni propriamente «terrene», quando sono in discussione principi per lei irrinunciabili. 

Già nel 1952, in una lettera inviata al clero, Siri, allora arcivescovo di Genova, denuncia i mali che affliggono la società italiana: la noia e la tristezza che avviliscono lo spirito umano, lo rendono sensibile al fascino di illusori messianismi e annunciate rivoluzioni. L’abitudine a seguire le mode, intese come formule anonime ed automatiche, gli appare il segnale di una «congiura per rimpoverire via via sé e gli altri». La scelta di restare in superficie, piuttosto che il sacrificio della profondità, suggerisce di «camminare in quell’equivoco, creduto una volta tanto “libertà”». L’unica fonte di vita per un cristiano rimane la corretta interpretazione della rivelazione divina. In questa chiave diventa comprensibile la sua concezione del rapporto tra la dimensione terrena e quella spirituale dell’azione della Chiesa. Pensare che l’ordine naturale e quello sovrannaturale possano procedere come una coppia di parallele destinate a non incontrarsi mai, si pone in contraddizione aperta con tutta la rivelazione divina. Il cristianesimo per Siri non scorre parallelo alla storia, ma è l’anima della storia: la legge divina, ordinando ogni atto umano, ordina tutte le situazioni dell’uomo in tutta la sua storia concreta. Ne deriva, dunque, la peculiarità della missione della Chiesa: la sua funzione di guida investe appieno ogni aspetto, immanente e terreno, insegnando agli uomini che l’ordine economico, l’ordine politico, l’ordine sociale, restano soggetti alla Legge di Dio: «davanti a Dio – avrebbe affermato Siri – non esistono extraterritorialità». 

Se, dunque, la Legge divina è il principio informatore di ogni aspetto della vita umana, ne deriva non soltanto la legittimità della partecipazione della Chiesa alle cose terrene, in quanto «società necessaria» voluta da Cristo, ma la stessa lettura delle trasformazioni che investono la società umana. Infatti, se si crede nella Legge universale non soltanto bisogna ammettere che esiste una sola verità. Bisogna anche riconoscere che su quella verità non esistono compromessi possibili. Fragilità diffuse possono creare  condizioni favorevoli per l’affermazione di ideologie contrarie al messaggio evangelico. Ma la risposta, in questo caso, dev’essere decisa  e partire proprio dal piano pastorale. 

E’ questa convinzione che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, porta Siri a combattere la battaglia in difesa della tradizione su due fronti. Perchè se sul piano politico c’è da rivendicare il legittimo diritto della Chiesa di interessarsi delle cose terrene opponendosi a qualsiasi tentativo di attenuare la difesa dei valori cristiani, sul terreno religioso l’avvento di Giovanni XXIII e lo spirito (ancor più che le conclusioni) del Concilio, ai suoi occhi, rischiano di offrire alle classe politica cattolica la copertura necessaria per giustificare le proprie scelte. Per questo la modernità, e soprattutto la subordinazione della religione ad essa, va combattuta anche all’interno della Chiesa. 

Nelle agende di Giovanni XXIII restano tracce indicative di un rapporto complesso con il presidente della Cei. In data 11 ottobre 1961, ad esempio, il papa annota: 

Udienza importante col Card. Siri, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. Ci intendiamo abbastanza bene. Naturalmente siamo viaggiatori venienti e progredenti per diverse strade e [naturalmente] ciascuno porta con sé la polvere che ha trovato sul proprio cammino. 

Questa polvere ricopre di un sottile strato sia la concezione del rapporto con la politica sia la sfera teologico-pastorale. A fronte del rivendicato disinteresse di Roncalli per le questioni più prettamente politiche, la scelta di Siri di rivendicare la competenza esclusiva della Conferenza episcopale nella gestione degli affari generali della Chiesa in Italia, rivela non solo una precisa concezione del rapporto tra Chiesa e mondo politico ma anche il tentativo di riaffermare il modello di istituzione gerarchica e piramidale voluta da Pio XII. 

Agli occhi di Siri, infatti, la Chiesa di Giovanni XXIII rischia di insinuare al suo interno i germi di una degenerazione teologica che va combattuta, nei costumi come nell’azione pastorale. Le reazioni dell’episcopato alla riforma conciliare, non meno di quelle alla svolta politica a sinistra, lo confermano della deriva che la Chiesa rischia.

Ancora nel 1960, infatti, la Chiesa dei vescovi converge sulla opposizione di Siri all’apertura al Psi. All’inizio dell’anno, in una lettera collettiva predisposta dalla Cei e dedicata al laicismo, Siri può denunciare i gravi problemi che incombono sulla società italiana stigmatizzando l’aperto rifiuto dei valori religiosi e la loro relegazione nella sfera privata, la corrosione dell’anima cattolica italiana attraverso le critiche al magistero, la propaganda scandalistica contro il clero, l’attenzione al laicato e la volontà di sottrarsi alla guida della gerarchia. Nel novembre dello stesso anno un decreto emanato dal Sant’Uffizio ribadisce la scomunica dei comunisti del 1949. E pochi giorni dopo un comunicato della Cei afferma la perenne validità della dottrina sociale della Chiesa, la sua piena efficienza nel risolvere i problemi relativi alla ordinata convivenza umana e la sua inconciliabilità con «ogni altra ideologia o atteggiamento contrastante con la sua cristallina purezza». Conferma, contemporaneamente, «l’obbligo grave che incombe ai cattolici, in particolare ai responsabili, di favorire e mantenere la più concorde unità di loro nell’esercizio dei diritti e dei doveri sociali, secondo le direttive della gerarchia, rimuovendo decisamente quanto possa dividere o creare equivoci e incertezze». 

Solo pochi mesi più tardi però, a Concilio avviato, lo stesso Siri non può fare a meno di constatare come il clima interno alla Chiesa sia cambiato. Non solo le opposizioni sono ormai ridotte a minoranza (e il sondaggio voluto da Moro lo conferma), ma la strada intrapresa nei dibattiti conciliari evidenzia ai suoi occhi la debolezza della Chiesa giovannea. E questa constatazione è all’origine di tante battaglie interne. Solo per citarne alcune, quella contro la riforma linguistica della celebrazione liturgica, contro il cambiamento degli abiti sacerdotali, contro l’introduzione della messa vespertina, contro l’accettazione del laicato nella missione ecclesiale. 

Non è difficile constatare, a questo punto, come le critiche di Siri ai cedimenti interni della Chiesa muovano dagli stessi presupposti che animano le critiche ai mutamenti del sistema politico. Siri, insomma, avversa le innovazioni non in quanto tali, ma per la loro pretesa di toccare quel nocciolo di verità intangibile su cui lui ritiene tutto il cristianesimo poggi. E proprio qui si colloca il centro della sua divergenza con la classe politica democristiana. 

Questa, infatti, da una lettura differentemente orientata della modernità e della sua incidenza sul rapporto tra Chiesa e politica deriva la convinzione che la Chiesa di Siri sia naturalmente predisposta ad arroccarsi su posizioni «reazionarie». Rispetto a questa deriva lo sguardo a sinistra in campo politico e il Concilio Vaticano II in quello ecclesiastico-pastorale aprono nuove speranze: quel nuovo inizio che tanti consensi avrebbe suscitato non soltanto nel ceto politico ma soprattutto in una parte consistente del mondo ecclesiastico e laico. La modernizzazione religiosa, soprattutto nelle sue declinazioni progressiste, diventa così il spia di un cattolicesimo che vuol posi al passo con i tempi, in grado per questo di conservare una sua influenza nella sfera politica. Non è così per Siri.  Egli è invece convinto che il Concilio abbia aperto spazi di incertezza che anziché rafforzare la religione l’avrebbero indebolita, diminuendo al contempo la sua credibilità, tanto in termini politici quanto in termini sociali. Ma per comprendere le conseguenze ultime che queste convinzioni avrebbero determinato entrando in relazione con il quadro politico italiano,  è necessario soffermarsi su altri due snodi del pensiero di Siri, il primo dei quali consiste nella differenza tra democrazia politica e «democrazia religiosa», così come egli la concepì. 

2. Democrazia politica e «democrazia religiosa»

Quest’aspetto del pensiero di Siri è strettamente connesso con la rivendicazione del ruolo della Chiesa negli affari spirituali così come in quelli materiali. 

In una lettera pastorale indirizzata al clero nel marzo 1950 Siri scrive: « La Chiesa non è una società democratica, sibbene è società gerarchica ». Essa, per questo, non è chiamata a modificare il suo modo d’essere, proprio perché non esposta ai cambiamenti delle mode e dei gusti della maggioranza. Da qui muove Siri per combattere la battaglia contro le insidie conciliari: l’allentamento della disciplina ecclesiastica, l’attenuazione dello «spirito della Croce», del senso della mortificazione, della penitenza e della rinuncia, l’ingresso all’interno della Chiesa di un principio d democratizzazione espresso attraverso l’aumento del numero dei laici e i limiti posti all’azione della gerarchia, gli appaiono concessioni che la Chiesa non può permettersi. Per sua natura, e per sua vocazione, le dinamiche che regolano i rapporti interni alla Chiesa non sono assimilabili a quelle che ordinano i rapporti sociali e politici. Dunque, se sul piano istituzionale la democrazia costituisce senza dubbio la migliore forma di governo, questo stesso principio non è applicabile alla sfera religiosa. 

 Queste convinzioni lo inducono non solo a difendere l’autorità del pontefice, alle cui direttive mostrerà, anche in momenti di dissenso, assoluta obbedienza, ma anche a rivendicare il riconoscimento della Conferenza episcopale come organismo di vertice dell’organizzazione ecclesiastica. Nella visione di Siri il pontefice e i vescovi, successori degli apostoli, rappresentano l’unica autorità riconosciuta, cui compete l’esclusiva interpretazione e diffusione del messaggio evangelico. La gerarchia è depositaria di una potestas  di origine divina che le garantisce il diritto-dovere di esprimersi su ogni aspetto della vita umana. L’organizzazione della struttura ecclesiastica rispecchia una concezione teologica di forma piramidale. 

In questa prospettiva non esistono spazi per il diritto di critica perché il principio stesso su cui si fonda il cristianesimo è rappresentato dalla verità rivelata: legge fondamentale che non consente margini di trattativa, nè tolleranza per la disobbedienza e tanto meno per il pluralismo.

Le ricadute sul piano politico sono immediatamente percepibili. Il rifiuto dell’autonomia del laicato, portato della modernità, si traduce nella difesa della funzione orientatrice della Chiesa: di una Chiesa che guida la società e non ne viene guidata; che ispira la politica senza complessi di subalternità. Non casualmente Siri, commentando gli esiti dei lavori conciliari, in più occasioni ribadisce come verso i laici sia necessario avere un atteggiamento estremamente cauto, di «sfiducia dovuta», per la loro natura ontologicamente diversa. 

La Chiesa di Siri, dunque, interviene in politica in quanto titolare del diritto di difendere principi non negoziabili contro gli attacchi del comunismo e del laicismo. E interviene sul partito dei cattolici proprio in virtù di quella autorità di cui è investita e che non può essere scavalcata. Ai cristiani, anche a quelli impegnati nella vita pubblica, in quanto credenti e dunque obbedienti, non è concesso di allentare il rapporto con il fondamento religioso. E la Democrazia cristiana, partito di cattolici, è soggetta dunque, come tutti i cristiani, all’obbedienza alla gerarchia. 

Questa concezione, tuttavia, non è certo scevra da realismo. A Siri non manca affatto il senso della drammatica realtà storica e di tutte le difficoltà che ostacolano l’inverarsi del suo ideale. Egli, infatti, già in vista dell’apertura del Concilio Vaticano II esprime il timore che la Chiesa stia rinunciando alla sua missione storica, lasciando che i laici – e tra questi in primis i democristiani -, approfittino degli spazi di autonomia che essa riconosce loro. Le conseguenze sono inevitabili: la Chiesa, accettando le sfide della «modernità politica» e accogliendo nel suo seno le istanze di democratizzazione e di pluralismo, si sarebbe resa vulnerabile. Così facendo, però, corre il rischio d’abdicare ad orientare la società e la classe dirigente cattolica e consente che il rapporto tra politica e religione si inverta: non sarebbe stata più la gerarchia a condizionare alla politica e in particolare la Democrazia cristiana, suo unico referente istituzionale, ma era la classe politica democristiana a dettare l’agenda politica, chiedendo alla Chiesa di accettarla o respingerla. Tuttavia, una Chiesa debole, che ha ormai aperto le maglie al suo interno, non è in grado, e in gran parte non intende, opporre alcuna resistenza. E si giunge così all’ultimo snodo del nostro percorso: il rapporto di Siri con la Democrazia cristiana e la difesa dell’unità politica dei cattolici. 

3. L’unità politica dei cattolici 

Si tratta di uno snodo fondamentale in quanto, a differenza di ciò che si potrebbe immaginare, le tensioni e la forte opposizione di Siri alle scelte della Democrazia cristiana di Fanfani e di Moro non si sarebbe mai tradotta in una sconfessione dell’azione politica del partito e in una legittimazione di formazioni partitiche più a destra della Dc. Siri non avrebbe mai condiviso la posizione di Tardini, di Ronca o di Gedda. La creazione di un secondo o di un terzo partito cattolico gli appaiono negazioni della delega politica che la Chiesa aveva concesso alla Dc a partire dalle elezioni del 1948. 

La ragione della difesa dell’unità politica dei cattolici la si comprende, una volta di più, tutta sul terreno religioso. Il rifiuto del pluralismo ecclesiale, estraneo come si è visto al suo pensiero, e la contemporanea salvaguardia del cristianesimo dagli attacchi del secolarismo, del materialismo, del laicismo, costituiscono valide ragioni per convergere sulla Democrazia Cristiana. Torna, sotto altra forma, l’opposizione alle interpretazioni estensive del Vaticano II. La Dc, in un’ottica prossima alla visione paceliana e per molti versi degasperiana, rimane l’unico argine contro il comunismo. Aprendo falle in quella diga, si rischia di rimanere travolti dalla piena. Il voto alla Dc, dunque, rappresenta uno degli strumenti con cui il credente dimostra la sua appartenenza e la sua obbedienza religiosa. Nonostante in diverse circostanze la Dc finisca per tradire le aspettative dei vescovi, il pericolo comunista mostra l’unica strada percorribile.  Il suo pensiero sul punto è inequivocabile: “Troppo grave – avrebbe scritto – continua ad essere il pericolo del blocco social-comunista perché ci si possa mettere al rischio di perdere la battaglia […] Troppo impegnativo per la vita della Chiesa in Italia è questo esperimento dei cattolici al Governo, al Parlamento e al Senato, perché non si debba sostenerli con tutte le proprie forze, ma insieme bisogna esigere da essi una coraggiosa e costante dimostrazione delle loro convinzioni cristiane […] La Dc  rimane di fatto l’unico baluardo politico sul quale è necessario far confluire il massimo dei consensi”. 

Questa impostazione presuppone un particolare modo d’essere della Chiesa. Al suo interno l’episcopato avrebbe dovuto mantenere posizioni unitarie sulla base delle quali delegare la Dc a intervenire in campo politico. E come il pluralismo non è ammesso all’interno della Chiesa, Siri allo stesso modo stigmatizza quelle manifestazioni di dissenso interne alla Democrazia Cristiana che non soltanto rischiano di minarne l’unità, ma che provocano l’allontanamento dei cristiani dai precetti religiosi. 

 L’oggetto degli attacchi di Siri divengono, a questo proposito, le frange del mondo cattolico sensibili all’influenza esercitata dall’Umanesimo integrale di Maritain e dal pensiero di Mounier, che avrebbero finito per teorizzare un ridimensionamento del ruolo politico della Chiesa a favore di un maggiore impegno temporale dei cristiani, intesi non come comunità di credenti ma come formazioni politiche. Nella fase postconciliare questa tendenza si sarebbe inevitabilmente tradotta nella laicizzazione e nella socializzazione del messaggio evangelico e nella contemporanea chiusura della dimensione religiosa in una sfera esclusivamente privata e personale. 

Siri denuncia questo pericolo già alla fine degli anni Cinquanta. Ma per il presidente della Cei esso non è tanto costituito dai socialisti, quanto dal fatto che i cambiamenti della società e la penetrazione del mondo cattolico gli appaiono tutti segnali inequivocabili di un pericoloso indebolimento dell’anima cristiana della nazione. In una lettera pastorale del 1959 dedicata all’ortodossia, non a caso, richiamando la Chiesa alla difesa della «verità» rivelata, Siri denuncia una volta ancora le insidie che rischiano di generare confusioni mentali e interpretazioni distorte. E tra queste particolare centralità, per la connessione con la dottrina sociale cristiana, assume ai suoi occhi la difesa del regime di «vera libertà e di un ordine economicamente solido», attentato da quanti, fingendosi dei «sociali», finiscono per rivelarsi dei traditori: «Se arrivassimo ad ipotizzare – si legge nella lettera – una pianificazione nella folle idea che la pianificazione sia sorgente, miniera, pozzo di san Patrizio, distruggendo la libertà, noi saremo diventati assassini di coloro che hanno sperato e si sono fidati». Esiste, dunque, una dottrina della Chiesa che soddisfa le esigenze della società. La Democrazia cristiana non ha per questo bisogno di «infiltrazioni socialiste». In una lettera a Gedda dell’aprile 1956 Siri, spiegando le ragioni del ripiegamento della Dc verso il socialismo, scrive: “il ripiegamento può avvenire per una vaga sensazione (dico vaga e pertanto ignorante e smontabile): a) che “sociale” equivalga a “socialista”, il che non è affatto; b) che “socializzazione” sia strumento di giustizia distributiva e di benessere, il che, parimenti, non è”. 

Di fronte a queste insidie, però, il problema per Siri non è quello di costruire nuovi partiti cattolici né, tanto meno, di spostare l’asse politico a destra o a sinistra. Il partito di centro, nonostante i suoi limiti, rimane l’unica trincea per difendere l’Italia. Il problema, semmai, è quello di armonizzare, puntando sull’unità della Chiesa, l’ordine religioso con quello politico, sotto la forte guida dell’episcopato. Almeno per quanto ciò risulti realisticamente possibile. Ed è proprio in questa direzione che va letta, ad esempio, la decisione della Cei, a conclusione della riunione del 23 gennaio 1962 voluta da Giovanni XXII, di non prendere posizioni pubbliche sulla preparazione del centrosinistra. Nonostante all’interno dell’episcopato non manchino forti opposizioni, il timore che una esposizione ufficiale possa nuocere alla Democrazia cristiana e lacerare il mondo cattolico suggerisce di limitarsi a chiedere alla classe politica di realizzare un «programma aderente alla dottrina cristiana», evitando dunque qualsiasi sconfessione.  

4. Conclusioni 

Attraverso tre snodi – critica della modernità, sostegno al principio gerarchico interno e difesa dell’unità partitica dei cattolici – è dunque possibile comprendere la peculiarità del rapporto di Siri con il quadro politico del suo tempo.  

Egli prima come vescovo della diocesi di Genova, poi dai vertici della Conferenza episcopale, infine negli anni di allontanamento dai vertici dell’episcopato, combatte la sua battaglia in nome di una distinzione che la gran parte dei suoi critici non rileva: quella tra «tradizione» e «reazione». Quanti giudicano il rapporto tra Chiesa e politica partendo da una concezione valoriale della modernità, in effetti non possono che ritenere la Chiesa di Siri «reazionaria» e, di contro, l’appuntamento conciliare un’occasione per mettere la Chiesa al passo con l’agognata modernità. 

Queste critiche, però, non comprendono come tutta l’esperienza pastorale del presule genovese muova da premesse opposte, in cui il concetto chiave non è quello di modernità, ma quello di tradizione. L’esito di una simile impostazione è immediato. Se, infatti, si fa appello alla tradizione il discorso viene elevato ad una dimensione metapolitica che è poi quella propria del messaggio religioso e dell’impegno della Chiesa. Da questa premessa derivano, sul piano politico contingente, due conseguenze che negli esiti ultimi interagiscono tra loro. 

In realtà, il rispetto della tradizione gerarchica della Chiesa, che lo porta a prendere distacco in una prospettiva interna dal principio democratico, coniugandosi con la pretesa che la Chiesa sia guida del partito unico dei cattolici, potrebbero far intravedere al fondo dell’ideale politico di Siri lo spettro di una riedizione autoritaria con venature religiose: la riproposizione moderna del vecchio binomio di trono ed altare. S’ignorerebbero, in tal caso, una circostanza fondamentale nonché le sue conseguenze. Infatti, come si è detto, il marcato anticomunismo non si traduce mai nell’appoggio a ipotesi di destra più o meno moderate; al contempo, l’opposizione a qualsiasi formula di contaminazione del cristianesimo, non giunge mai a mettere in discussione l’unità politica dei cattolici. Ne consegue che Siri non rinunzierà mai al tentativo di condizionare la Dc contrastandone le derive verso una presunta modernizzazione, ma finirà per accettare nei fatti l’autonomia di quel partito al quale non intende rinunziare. 

Il rapporto tra Chiesa e politica finisce così per attestarsi su quelle frontiere che erano state raggiunte nel corso della fase centrista. Negli anni di De Gasperi e di Pio XII, infatti, alla rivendicazione dell’autonomia politica dei cattolici e al superamento dell’aconfessionalità, aveva fatto da contraltare un impegno attivo e vincolante della Chiesa al sostegno elettorale alla Democrazia cristiana. Da questa forma di collateralismo, come anche dal ruolo che la Chiesa riesce a preservare nella fase di transizione dal fascismo alla democrazia, deriva una forza condizionante nei confronti del partito dei cattolici. Per l’essenziale: le resistenze di De Gasperi all’invadenza ecclesiastica nella sfera politica non impediscono che in diverse circostanze la stessa gerarchia impartisca alla classe dirigente democristiana direttive di marcia senza che per questo vi sia da parte del partito una rinunzia assoluta e definitiva all’autonomia. 

Già a partire dall’avvento di Fanfani alla segreteria democristiana, e in misura ancora più marcata negli anni di Moro, Giovanni XXIII e poi di Paolo VI, la prospettiva del rapporto tra Chiesa e partito dei cattolici per molti versi si rovescia a favore del partito. E questo nuovo rapporto di forze avrebbe segnato per la Chiesa un limite oltre il quale, per alcuni anni, il suo percorso autonomo avrebbe avuto difficoltà a spingersi. Siri, in definitiva, ne imputa la responsabilità alle derive del Vaticano II. Queste, assai più del Concilio, illudono i credenti che nella Chiesa vi sia spazio per la rivoluzione, intesa nel senso sociologico del termine. Mentre la vera rivoluzione per il cristiano resta il messaggio di Cristo, ancora vivente nella missione di una Chiesa chiamata certamente a rinnovarsi ma secondo un metodo e un criterio che hanno il proprio fondamento nel romano pontefice e nei vescovi in comunione gerarchica con lui, secondo la formula degli apostoli: nihil innovetur nisi quod traditum est. A posteriori non sarebbe né onesto né coraggioso negare che il rapporto tra Chiesa e politica in Italia si è mosso proprio nella direzione che Siri intuisce, senza però riuscirla a contrastare. E qui l’anno della sua morte, l’Ottantanove, ci aiuta a comprendere perché a lui sia spettata una ragione soltanto postuma.

(Intervento di Gaetano Quagliariello, senatore e presidente della Fondazione Magna Carta, al Convegno “Momenti, aspetti e figure del Ministero del Card. Giuseppe Siri” che si è tenuto a Genova il 12 e 13 settembre 2008 dal titolo “Siri e il quadro politico italiano”)