Signor Presidente, signora Ministro, onorevoli senatori, siamo alla fine di un percorso parlamentare intenso, che ha conosciuto momenti di tensione, di confronto duro, come è giusto che sia in democrazia, ma anche sforzi di comprensione reciproca e di fair play. Permettetemi, dopo aver raggiunto tali alture, di scendere un po’ più in basso e ringraziare tutti i colleghi del Popolo della libertà che anche in questa occasione hanno dato prova di saper interpretare con umiltà, responsabilità e coerenza il ruolo di maggioranza parlamentare in un momento decisivo della storia del Paese ed hanno voluto rivendicare con forza, con il loro comportamento, il diritto della maggioranza stessa di assolvere agli impegni assunti con gli elettori. Noi non dimentichiamo che in nome di quel diritto sediamo in questa Assemblea.
Permettetemi, in particolare, di ricordare il lavoro che su questo provvedimento hanno svolto il collega Possa, che ha presieduto i lavori della Commissione istruzione, la collega Poli Bortone, che ne è stata la relatrice designata e il collega Asciutti, capogruppo in quella stessa Commissione. A volte l’adesione ai processi democratici significa il sacrificio di legittimi protagonismi, ma il risultato che oggi la maggioranza consegue non di meno è intriso del lavoro e del contributo intelligente di questi colleghi. Noi tutti ne siamo consapevoli.
Sono state dette molte cose e molte cose non vere sul provvedimento che oggi ci accingiamo ad approvare. Non c’è tempo per smentirle tutte, ma su una cosa non è possibile transigere: colleghi della Sinistra, per decenni ci avete voluto far credere che l’economia fosse tutto e che il resto, compresa l’essenza delle persone, dovesse essere degradato a – come dicevate? – sovrastruttura. Per decenni la nostra opposizione nei vostri confronti è stata anche un’opposizione a questo modo di vedere le cose. Ora, improvvisamente, sembra quasi ve ne siate dimenticati, fagocitati come siete da quei salotti radical chic nei quali il riferimento alla cultura viene utilizzato per coprire uno spaventoso vuoto di idee e di passioni vere.
In caso contrario non si comprenderebbe come mai vi siete opposti ad una norma che imponendo ad autori ed editori di rinnovare i libri di testo solo in presenza di effettivi aggiornamenti culturali vuole evitare che la cultura degradi a strumento di sfruttamento per le famiglie meno abbienti. Non di meno i dati economici sui quali voi siete sempre più distratti sono una realtà della quale chi ha l’ambizione di governare un Paese non può fare a meno di tenere conto, soprattutto in momenti di crisi internazionale. Non neghiamo perciò che di questa situazione debba tener conto anche il nostro sistema scuola.
D’altro canto, nella storia italiana le riforme che in maniera più incisiva hanno segnato la nostra scuola sono nate proprio da propositi di ristrutturazione della spesa. Pensiamo, pensate, tra tutte, alla riforma Gentile.
So bene che si tratta di un parallelismo che, per molti versi, potrebbe risultare improprio. Vorrei ricordarvi però che anche Gentile si trovò alle prese con forti vincoli di bilancio e nel ridurre le spese della scuola eliminando le cosiddette classi aggiunte, tagliando gli sprechi e cercando di far coincidere l’organico di fatto con quello di diritto, seppe porre alla base della razionalizzazione contabile un progetto culturale complessivo sul quale costruì la sua riforma e sul quale la nostra nazione per tanti anni è andata avanti.
Ai nostri giorni, dunque, deve esser chiaro che, pur in una situazione difficile, noi non siamo disposti a sottoporre a criteri di mera economicità il futuro dei nostri figli. Se abbiamo proposto il maestro unico, il ritorno ai voti, il voto in condotta, il grembiulino – come dice il presidente Finocchiaro – è perché siamo convinti che nella scuola debba tornare ad abitare un principio di autorità e di rispetto, che si debba arrestare quel processo di degradazione che sempre più sovente sfocia in bullismo e offende – non ve ne siete accorti? – i più deboli e i più indifesi.
Si deve smettere di considerare il comparto istruzione come un grande parcheggio per masse mal pagate e ancor peggio considerate nella società. Il maestro deve tornare a suscitare quell’antico riconoscimento sociale che aveva quando era in grado di penetrare i cuori e le menti dei bambini e deve avviarsi verso quel livello di retribuzione europea che meritano coloro cui affidiamo il compito di formare il cittadino del futuro. A questo mira il nostro provvedimento ed è questo il primo passo per una riforma ancora più ambiziosa.
Non voglio però sottrarmi, presidente Finocchiaro, al confronto con il movimento, invero non così numeroso come vorrebbero far credere i mass media, soprattutto in giorni di pioggia (ma sappiamo che ci sono anche le rivoluzioni asciutte e non solo evidentemente nei contenuti), che in questi giorni si è mobilitato contro i provvedimenti sulla scuola e soprattutto contro i provvedimenti sull’università, che ancora non esistono.
In passato, dal ’68 in poi, l’acquiescenza delle classi dirigenti nei confronti di questa protesta – aprite i vostri album di famiglia – ha generato drammi individuali e drammi sociali. Per questo credo che l’unico modo per manifestare attenzione e rispetto nei confronti di questi giovani sia quello di dire loro la verità.
Non è la prima volta che gli studenti si mobilitano contro il loro futuro e vengono resi massa di manovra di interessi di elite corporative. È accaduto anche nel ’68 quando il movimento studentesco si coagulò contro la cosiddetta legge Gui, uno degli sforzi più importanti di elaborazione riformatrice del centrosinistra che guidava allora il Paese. Il fallimento di quella legge ha avuto conseguenze devastanti per il nostro sistema universitario. Anche allora la mobilitazione studentesca si collegò alle resistenze di corporazioni interne all’università, gli incaricati e gli assistenti che volevano il posto ope legis, ovvero senza concorso. Lo hanno avuto sulla pelle dei giovani che allora ingannarono mettendo le basi per la corruzione e il deterioramento che sono poi proseguiti per decenni.
Ma allora, presidente Finocchiaro, quantomeno si era nel pieno della cosiddetta stagione dell’opulenza; vi erano risorse, tra cui il sapere, e si chiedeva che fossero democratizzate. I modi per farlo si sono rivelati sbagliati ma l’obiettivo era comprensibile.
Io vengo dal mondo universitario, so bene quante persone vi lavorano con dedizione, tirano la carretta con stipendi risibili, sostenute solo dalla passione per la ricerca e lo studio. Non sputerò nel piatto nel quale per tanto tempo ho mangiato, ma chiedo agli studenti che oggi protestano se sono sicuri di stare dalla parte di questa parte migliore o se invece con il loro atteggiamento non stanno difendendo sprechi inammissibili e privilegi intollerabili: 5.500 corsi di laurea per i quali oggi ci si può laureare in «cura del cane e del gatto» o in «acquacoltura»; bilanci truccati, corridoi di dipartimenti in cui lo stesso cognome appare anche su dieci targhette (Applausi dal Gruppo PdL); una struttura del corpo accademico per cui le risorse sono sempre più impegnate a creare professori ordinari a scapito di tanti giovani ricercatori che restano soli con le loro illusioni.
L’università è malata e bisogna cambiarla; non serve chiedere più fondi se questi verranno dissipati. Scuola e università statali insomma, se vogliono essere davvero popolari, devono essere riportate ad un livello di eccellenza che consenta chi proviene da classi sociali disagiate di modificare la propria condizione.
Meritocrazia per noi è sinonimo di democrazia. Se invece prevale il vostro falso egualitarismo, se si continuano a favorire una scuola e una università di serie C (sì, di serie C!), si premia chi ha i mezzi per accedere alle università migliori e più costose, spesso fuori dai confini della Nazione.
Noi dobbiamo questa chiarezza di linguaggio a chi protesta, ma soprattutto la dobbiamo a quei tanti giovani che sono la maggioranza silenziosa del Paese e che pensano che per il loro futuro sia proficuo seguire corsi, dare esami e magari esprimere fiducia nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Questa maggioranza silenziosa inizia a parlare nei blog e a farsi sentire con raccolte firme e cartoline inviate ai rettori; non ha alle spalle i mass media e il clamore degli slogan di piazza, ma deve sapere che ha in questa maggioranza parlamentare orecchie attente e rappresentanti del popolo, di tutto il popolo, che impediranno che i loro diritti siano calpestati.
Nel passato queste stesse cose furono enunziate e assai meglio da pochi profeti disarmati nei confronti di un movimento che era partito nel Sessantotto con grandi speranze e che ha prodotto lo sfascio che abbiamo sotto gli occhi: posizioni di privilegio per autentiche caste, che poi, dopo aver usurpato i posti di ricercatori e di professori senza mai farsi vedere in un ateneo, si sono magari anche assunte la libertà di indossare i panni dei moralisti nella battaglia contro la casta politica.
Voglio ricordare alcuni di questi profeti in quest’Aula: Augusto Del Noce, Sergio Cotta e Nicola Matteucci sono i nostri maggiori. Loro si limitarono a dire la verità quando questa verità era difficile da dire.
Noi siamo la classe dirigente che ha l’ambizione di cambiare questo Paese, di modernizzare la scuola, di rinnovare radicalmente l’università e abbiamo ricevuto il consenso dei cittadini per farlo. Non possiamo fermarci laddove da loro abbiamo ricevuto il testimone: abbiamo il dovere di andare avanti e di proporre riforme che possano veramente rinnovare in profondità, affinché questo Paese possa guardare con più fiducia al suo futuro. È un impegno per il Governo, è un impegno per questa maggioranza parlamentare.
(L’intervento in Aula del presidente Gaetano Quagliariello in occasione dell’approvazione del decreto legge 137)