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Possiamo usare il termine laicità nel 2008 così come la storia d’Italia dai suoi esordi ce l’ha tramandato? Credo di no. E a riprova di ciò valga il fatto che l’Italia è l’unico Paese al mondo dove laico significa, nel senso comune, non credente, laddove nel resto del globo esso è soltanto l’opposto di clericale. Poi, possono esserci laici che credono e laici che non credono. Perché questa distorsione semantica? Perché l’Italia è stata l’unica grande nazione moderna che si è fatta contro la Chiesa. E perché la Chiesa del Sillabo, nella sua opposizione allo Stato unitario, ha cercato di contrastare la diffusione delle libertà civili. Questa situazione originaria si è evoluta nel corso dei decenni, al punto che si può affermare che il processo di conciliazione tra Stato e Chiesa sia stato innanzi tutto il frutto di un mutamento sociale e politico di lungo periodo, i cui frutti erano visibili già alla fine della Grande Guerra.

Esso – è vero – si è compiuto quando al governo vi era il Cavaliere Benito Mussolini, confermando in molti oppositori l’idea di un’identità di fondo fra Chiesa e autoritarismo politico-sociale. Ma è circostanza storica ormai acclarata che il rapporto tra Chiesa e fascismo abbia presentato, nel corso degli anni, una complicazione che rende assai problematico il ricorso a riduzioni semplicistiche pur entrate nel senso comune, come la categoria di “clerico-fascismo”. Questa eredità, negli anni della Repubblica, ha trovato un assestamento attraverso la costituzionalizzazione del regime concordatario. Non si è trattato unicamente di una conferma del Trattato e del Concordato avvenuta con l’approvazione dell’articolo 7 della Carta Costituzionale. Quando si usa l’espressione “regime concordatario”, ci si riferisce a una prassi per la quale gli interessi della Chiesa nella vita civile erano curati dal suo braccio secolare – il partito unico dei cattolici, la Dc – che si assumeva la responsabilità di interpretare quel ruolo con un grado di autonomia più o meno ampio a seconda dei problemi e delle circostanze storiche, ma mai del tutto venuto meno.

Sicché il modello di Stato laico vigente nel periodo repubblicano è quello nel quale la Chiesa rimaneva nei propri ambiti, affidando la rappresentanza dei propri interessi al partito democristiano: salvo poi ricambiarlo prima delle elezioni, chiedendo dal pulpito ai fedeli di votarlo. Poi, all’inizio degli anni Novanta, tutto è cambiato. E’ finita l’esperienza del partito unico dei cattolici. La Chiesa ha iniziato a intervenire in prima persona per difendere i propri principi senza affidarsi alla mediazione dei partiti, anche per la presenza di un Papa che aveva vissuto, in Polonia, l’esperienza della Chiesa del silenzio, una Chiesa cioè che, anche se lo avesse voluto, non avrebbe potuto trovare canali attraverso i quali far passare le proprie istanze. Infine, è cambiata l’agenda della politica: problemi che chiamano in causa la dimensione etica e il magistero della Chiesa – l’origine della vita, la famiglia, la morte – sono divenuti centrali al punto che su di essi si formano schieramenti e si giocano partite politiche fondamentali.

In questa nuova temperie, la Chiesa non dà più indicazioni né partitiche né di schieramento. E’ un fatto che i cattolici in Italia siano presenti in entrambi gli schieramenti e non c’è indicazione delle gerarchie che possa cambiare questo loro orientamento. La Chiesa si limita a portare avanti in prima persona una battaglia culturale per difendere i propri principi e assicurarne il precipitato nella vita civile. E’ una battaglia condotta esponendosi a viso aperto, spesso combattuta da posizione minoritaria: è un fatto che in passato era la Chiesa che promuoveva i referendum abrogativi, mentre ora li subisce, e a volte, per etica della responsabilità, frena e modera chi vorrebbe che l’etica della convinzione fosse tradotta in politica senza mediazioni e senza compromessi. Se per laicità s’intende sostenere a viso aperto le proprie posizioni, senza affidarsi a meccanismi di potere invisibili, accettando di essere criticati e di essere minoranza, ma non rinunziando a quanto, dal proprio punto di vista, si ritiene non negoziabile, mi pare, in coscienza, che la situazione odierna dei rapporti tra Stato e Chiesa sia più autenticamente laica di quella che vigeva nella prima fase dell’Italia repubblicana.

Si pone, a questo punto, il problema di come si riconnetta questa nuova realtà con la dimensione di quella che i promotori di questo convegno hanno definito “multiconfessionalità”. Si tratta di un concetto che può essere declinato in vari modi e, per questo, ritengo importante chiarirne – dal mio punto di vista – il significato. Se per multiconfessionalità intendiamo “pluralismo confessionale”, possiamo dire che il nostro Paese si trova ormai da decenni in questa situazione. Essa è stata sancita costituzionalmente dal combinato disposto degli articoli 7 e 8; col primo – lo abbiamo già visto – è stata operata la “costituzionalizzazione” del metodo concordatario nei rapporti fra Stato italiano e Chiesa cattolica; col secondo non solo si è dichiarato che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” (e quindi si è superata ogni distinzione fra “religione ufficiale” e “culti ammessi”), ma si prevede – nel terzo comma – che i rapporti delle confessioni religiose non cattoliche con lo Stato siano “regolate per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.

Dopo quasi quarant’anni di mancata attuazione del dettato costituzionale, la realizzazione di questo sistema di “pluralismo confessionale” creato nel 1946-47, è concretamente iniziata con la revisione del Concordato firmata nel 1984 e con le coeve e successive intese con le altre confessioni religiose: si è così giunti a un sistema, che può presentare difetti e ancora problemi, ma mi pare garantisca la pari dignità fra le varie confessioni religiose e la loro uguale libertà previste dalla Costituzione. Questo sistema comporta ovviamente che il numero crescente di persone provenienti da culture differenti e portatrici di diverse fedi religiose, che nell’ultimo decennio sono giunte nel nostro Paese, abbiano il diritto a veder tutelata la loro libertà religiosa: può sembrare lapalissiano, ma è necessario ribadirlo. Ma tale tutela non può implicare che queste differenti religioni si possano sviluppare soltanto in uno spazio interiore, avendo come referente unicamente l’anima e la coscienza dei rispettivi fedeli ed evitando qualsiasi interferenza con la dimensione pubblica: questa idea rimanda a una concezione di laicità di stampo illuministico, che mi sembra ormai inattuale.

Soprattutto l’eguale libertà garantita dalla Costituzione non può implicare un’identità di considerazione, indipendentemente dalla storia e dalla cultura del nostro Paese. Lo ricordava già un grande giurista liberale come Francesco Ruffini: la giustizia consiste nell’”unicuique suum tribuere”, non nell’”unicuique idem tribuere”. A tal proposito, non possiamo dimenticare che la religione cristiana ha nel suo DNA la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, distinzione che altre non accettano; e non possiamo neppure scordare quanto il cristianesimo abbia offerto alla nostra identità, alle nostre tradizioni, ai nostri costumi civili, alla nostra idea di universalità dei diritti della persona. Se teniamo fermo questo punto, ne discendono alcune conseguenze concrete.

Facciamo degli esempi. E’ oggi più che ieri necessario, ad esempio, che all’ora di religione cattolica nelle scuole partecipi solo chi ne fa espressa richiesta: è questo che la coniugazione del rispetto della nostra identità con quello della libertà religiosa altrui c’impone. Quel che non si deve fare, invece, in omaggio a un malinteso multiconfessionalismo, è prevedere che accanto all’ora di religione cattolica vi possa essere quella di religione islamica, buddista, e infine anche quella per gli aderenti a Scientology. In questo stesso senso, nessuna università ha l’obbligo di invitare il Papa all’inaugurazione del suo anno accademico. Ma se lo fa deve rendersi conto di ciò che significa e del perché quell’invito non corrisponde a quello che si potrebbe rivolgere a qualsiasi altra autorità spirituale, vera o presunta: il Dalai Lama, un ayatollah, Tom Cruise o Vasco Rossi.

Si potrebbe continuare, ma quel che voglio affermare è semplice: se si resta ancorati ad un’idea di laicità ottocentesca, di fronte al fallimento della rozza convinzione positivistica che l’avanzare della secolarizzazione avrebbe infine reso la religione un fattore ininfluente nella vita delle società, si finisce inevitabilmente per rinunziare non solo al contributo etico e valoriale che ogni confessione può fornire alla vita collettiva; ma – in base a un principio di uguaglianza applicato meccanicisticamente – si rischia soprattutto di affievolire e annullare quella tradizione cristiano-cattolica che costituisce una componente così fondamentale della nostra identità di italiani e di fautori di una società libera. Per questo, di fronte alle dinamiche storiche che questo nuovo secolo ci pone con sempre più urgenza – crisi demografica, immigrazione, integrazione – definire una nuova idea di laicità che recuperi la distinzione tra la dimensione dello Stato e quella della Chiesa, ma che non pretenda che tale distinzione diventi indifferenza, è essenziale. Nessuno può girare la testa dall’altra parte. Certamente non può farlo l’università, se non vuole rinunziare al suo ruolo di coscienza critica della società. E’ questo il senso della mia presenza oggi: accettare di discutere con chi è più distante, con coloro con i quali di solito si polemizza, vuole essere un piccolo contributo affinché non ci si trinceri dietro una insopportabile neutralità. Spero possa servire a qualcosa.

(Intervento del senatore Quagliariello al convegno organizzato a Pisa nell’Aula Magna Nuova – Palazzo della Sapienza, dalla massoneria toscana sul tema “Lo Stato laico in una società multiconfessionale”).