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Giovedì scorso serata di gala della fondazione “Farefuturo”; sabato lettura annuale della fondazione “Magna Carta”. Ho preso parte ai due appuntamenti. Mi sono così reso conto che nel PdL è in corso un dibattito politico-culturale sulla modernità e i suoi problemi. Questo confronto passa per gli interventi congressuali, per i convegni, i dibattiti e l’attività di diverse fondazioni. E’ sobrio e rispettoso. Non ha bisogno di ricorrere ad anatemi né di produrre fazioni e liti intestine, come è accaduto nel Pd: alla faccia di chi ha parlato di “pensiero unico”.

Questo dibattito ha un punto di partenza, che è anche una consapevolezza condivisa: l’agenda del nuovo secolo è drasticamente cambiata e comprende temi diversi da quelli con i quali a lungo siamo stati abituati a confrontarci.

Problemi quali l’immigrazione, la società multi-religiosa, la sfida antropologica si trovano oggi al centro delle preoccupazioni di quanti cercano di comprendere il domani. Il tutto, sullo sfondo di una crisi che ha messo in dubbio le sorti progressive del capitalismo e ha spiegato come il mercato sia un insieme complesso di regole che vanno rispettate. Non certo uno spirito selvaggio che si afferma contro tutto e contro tutti.

Di fronte a questo scenario, nel centro-destra iniziano a intravedersi due differenti risposte. La prima è quella che punta su una secolarizzazione ritenuta inevitabile. Da qui un approccio apparentemente più laico sui temi della bio-politica; la convinzione che i problemi dell’immigrazione possano risolversi con una buona dose di tolleranza; le aperture alle presunte ragioni dell’islam, anche il più estremo, in quanto questo sarebbe destinato a seguire la stessa sorte del cristianesimo: scolorirsi progressivamente fino a divenire null’altro che un vago riferimento culturale.

La seconda risposta, invece, è quella di quanti ritengono che il nuovo secolo, per non ripetere gli orrori del precedente, abbia bisogno di una riscoperta non ideologica di senso. E che tale riscoperta possa venire dalla valorizzazione del proprio trascorso e del significato della tradizione: non come pretesa egemonica nei confronti di altre culture ma, quanto meno, come punto di tenuta. In questa prospettiva, si guarda alla storia anziché ai diritti e si rivendica la libertà intesa come responsabilità personale, contro quanti vorrebbero invece derivarla da codici e pandette. E l’integrazione s’intende più nel segno del rispetto dovuto e preteso, che in quello della tolleranza. Il dialogo tra le religioni, infine, si concepisce concedendo al sacro ciò che gli spetta, senza bisogno di auspicarne una ineluttabile secolarizzazione.

Il confronto è aperto e va affrontato senza presunzione e soprattutto senza complessi di superiorità. C’è però una condizione che tutti dovrebbero tener presente e impegnarsi a non far venire meno. Non si può confondere una crisi profonda dovuta a cause congiunturali che hanno avuto epicentro negli Stati Uniti, con una crisi strutturale del liberal-capitalismo o, addirittura, della liberal-democrazia.

Queste sono le colonne d’Ercole che nessuno deve osare superare. Perché, in caso contrario, quel che è un dibattito interno legittimo e stimolante finirebbe per mettere in dubbio le ragioni fondanti dello stare insieme. E farebbe venir meno il vero vantaggio che in Italia il centro-destra ha storicamente assunto sulla parte avversa: aver compreso cosa è accaduto nel mondo a partire dal 1989; aver avuto il coraggio di affermarlo usando parole come “anti-comunismo” e “mercato”, a lungo bandite dal lessico ufficiale; aver fatto i conti con gli errori passati della propria parte traendone tutte le conseguenze.
Per questo, e solo per questo, abbiamo oggi la possibilità di continuare a interrogarci sui problemi aperti partendo da consapevolezze comuni più forti della durezza di una crisi, per quanto profonda, lunga e difficile questa possa essere. Non scordiamolo. Facciamo tutto ciò che serve per non disperdere questo patrimonio.

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