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La duplicità di linee politico-culturali che Gaetano Quagliariello segnala all’interno del PdL e fra cui auspica un confronto, è sotto gli occhi di tutti: è emersa gradatamente negli ultimi mesi, suscitando, anche in chi scrive, una certa sorpresa. Ma, superando lo stupore iniziale, è necessario ragionarci su e intenderne le radici: sarà per un vizio “storicistico”, ma credo che un buon metodo per cogliere la ragione profonda di idee e posizioni sia quello di comprendere lo svolgimento di cui sono frutto e quindi la logica interna a cui obbediscono.

Le posizioni a cui si richiama Quagliariello sono proprie di ambienti politico-culturali che fino circa a due decenni fa erano intimamente e – direi – entusiasticamente fautori della “modernità”: il liberalismo a cui si rifacevano si presentava come la coscienza del “mondo moderno”, di cui si dava un giudizio ottimistico e che si difendeva sistematicamente dai suoi critici, di destra come di sinistra. La politica aveva un compito fondamentale: quello di contribuire alla liberazione dell’individuo da tutti i condizionamenti culturali e gli impedimenti legislativi che intralciassero la sua completa autodeterminazione, e quindi di ridimensionare il peso delle strutture sociali (p. e. la famiglia) in cui tale individualità sembrava mortificata. Tutti gli enti collettivi erano guardati con sospetto: i partiti dovevano essere “leggeri”, le Chiese erano giudicate relitti del passato, la religione – nella migliore delle ipotesi – un atteggiamento di ripiegamento personale. Negli ultimi vent’anni, questi ambienti hanno di molto ridimensionato il loro entusiasmo per la “modernità”: non che siano diventati tout court “anti-moderni”, anche perché sono intransigentemente legati ai valori della democrazia e del pluralismo, ma ormai non sono insensibili alle critiche che al pieno dispiegarsi della “modernità” il pensiero conservatore (e anche qualche grande “reazionario”) ha elaborate negli ultimi due secoli. Sono quindi approdati a un “liberalismo conservatore”, che ricupera il valore delle formazioni sociali (nazione, famiglia), approfondisce il ruolo della “tradizione”, guarda con grande interesse al pensiero religioso e ai tesori di umanità che esso racchiude.

Questo trapasso non è avvenuto per un mero gioco intellettuale, ma per la lezione delle cose: il fallimento del “costruttivismo” politico novecentesco, la deriva etica presente nelle società contemporanee, la disgregazione sociale che vi si avverte, le sfide che a valori millenari vengono portate dall’interno come dall’esterno della nostra società hanno spinto a un’autocritica e a un lavoro di revisione intellettuale, che ha comportato infine un riposizionamento politico. E le posizioni incarnate da Gianfranco Fini? Per intenderne la logica bisogna risalire indietro fino a quella nebulosa ideologica che fu il fascismo. In questo mio suggerimento, – lo vorrei sottolineare subito con forza – non c’è nessun intendimento polemico o recriminatorio: chi scrive ha un atteggiamento “laico” rispetto al fascismo storico e non crede che nei dibattiti interni al PdL esso debba diventare qualcosa di impronunciabile, come la parola “mercante” per il padre di fra’ Cristoforo nei Promessi sposi. Nel fascismo furono presenti – è noto – anche atteggiamenti anti-moderni, cattolicizzanti, conservatori, nazionalistici in senso proprio, ma – a partire dal suo capo – è indubbia la sua tensione “modernistica”: primato della politica, statalismo, anticlericalismo, mito dell’«uomo nuovo», un certo “libertinismo” etico, al di là del familismo sbandierato. Alcuni si spingono a dire che fu un fenomeno “rivoluzionario”, non – come ancora si ripete – “reazionario”. Per questo – fra guerra e dopoguerra – a molti ex fascisti fu possibile un “transito” verso il comunismo, e non solo per opportunismo (come da sessant’anni va ripetendo invece un Leitmotiv polemico che non accenna a esaurirsi) E’ questo fascismo il lontano retroterra di Fini, ma non – sia detto per inciso – di molti dei suoi vecchi compagni di partito, nel cui pensiero la “critica della modernità” ha svolto a lungo un ruolo (anche troppo) decisivo. Il presidente della Camera, invece, proviene dal fascismo “moderno”: attraverso un lungo percorso, che è stato uno dei momenti importanti della vita democratica italiana degli ultimi decenni, egli si è liberato del fascismo, ma – si potrebbe dire – è rimasto con la “modernità”, che ora coniuga con i valori della democrazia, a cui è approdato.

Su questi fondamenti, non credo che lo stesso concetto di “nazione” possa restare ancora a lungo al centro del suo discorso politico: egli dovrebbe precisarne gli “ingredienti” e qui nascerebbero non poche tensioni con le sue posizioni attuali. E’ insomma improbabile che egli possa mai diventare un “conservatore”, perché dal conservatorismo lo separa una distanza originaria: quella che divideva fascismo e conservatorismo già fra le due guerre. Per questo il confronto nel PdL fra atteggiamenti “conservatori” e posizioni “modernizzanti” ha radici profonde e vedrà sviluppi interessanti. Ci sarebbe da fare anche un discorso di “mercato politico”, se e fino a che punto, cioè, un partito di centro-destra possa caratterizzarsi in base alle posizioni ora espresse dall’on. Fini rispetto a uno di centro-sinistra: ma questo problema lo lascio ai politologi.

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