Privacy Policy Cookie Policy

1. La questione meridionale nella politica italiana

La “questione meridionale” rappresenta una costante nella storia del nostro Paese. Una questione nata ancor prima che si formasse lo Stato nazionale. La politica meridionalistica, in Italia, ha avuto un successo, seppure limitato, solo quando essa è risultata coerente con quella nazionale.
Negli anni passati questa coerenza si è dimostrata quando si è perseguito un disegno di politica industriale in un Paese che vedeva un forte sviluppo del manifatturiero accompagnato da una politica di redistribuzione delle risorse, centrata sulla presenza dello Stato, in una più generale ottica di tipo Keynesiano. In questo contesto la Cassa per il Mezzogiorno è stato uno strumento utile anche se non risolutivo. Tra il 1951 ed il 1973 il dualismo territoriale italiano si è progressivamente ridotto. Con la prima crisi petrolifera, che ha portato alla stagflation, il ruolo dell’intervento straordinario ha perso di efficacia. Come osservò Pasquale Saraceno, nel 1975, “il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura”

La Cassa per il Mezzogiorno cessò di esistere nel 1993, a seguito del D.L. 415/92, convertito nella L. 488/92 che divenne operativa solo nel 1996. La successiva legislazione – a partire dalla L. 59/1997 (Legge Bassanini) – trasferì in modo definitivo tutte le funzioni a Regioni, Province e Comuni, prefigurando quel federalismo amministrativo, che troverà copertura costituzionale solo nelle modifiche al Titolo V dove il riferimento al Mezzogiorno, come problema specifico della storia nazionale – si veda l’articolo 119 comma 5 – scomparirà dal lessico giuridico.

La grande illusione di quelle modifiche legislative era il pensare che l’intervento ordinario potesse produrre risultati migliori rispetto alla precedente esperienza. In particolare, si è cercato di porre rimedio all’inefficienza ed alla scarsa incisività delle iniziative riarticolando la struttura di gestione degli incentivi, coinvolgendo a vario titolo regioni, enti locali e parti sociali, nella convinzione di raggiungere maggiore coerenza e linearità. I risultati però non sono stati affatto brillanti: anzi la moltiplicazione dei soggetti coinvolti ha finito per determinare un’ulteriore crescita dei costi di transazione ed amministrazione. I risultati fallimentari che si registrano dopo anni di attuazione della programmazione negoziata, la quale ha drenato ingenti risorse pubbliche producendo un numero risibile di nuove iniziative imprenditoriali, dimostrano come occorra cambiare radicalmente approccio.

Il passaggio di tutte le competenze alle Regioni – meno attrezzate per compiti di programmazione e di gestione – ha prodotto un risultato solo peggiore, se si considera che mentre nel periodo 1951/1973 il rapporto investimenti/PIL era passato, nel Sud, dal 17 al 33 per cento, nel 1995 si era invece tornati ai livelli del 1950. Non si comprese che il meccanismo dell’intervento straordinario doveva le sue insufficienze al mancato raccordo tra le necessità della politica economica nazionale e le varianti di natura territoriale e settoriale.

Quando questo bandolo della matassa fu trovato, come nel caso del Nord – Est i risultati non si fecero attendere. Negli anni ’70 anche quei territori erano meno sviluppati a vantaggio del Sud – Ovest. Il cambio di passo avvenne, a partire dagli anni ’80, quando essi si inserirono spontaneamente nei nuovi equilibri geopolitici europei, che nascevano dal crollo del Muro di Berlino e dai nuovi assetti che quell’evento aveva comportato nell’Est europeo, sfruttando, al tempo testo, una caratteristica specifica del Nord nel suo complesso. Quei territori avevano da tempo una dimensione di sistema, cosa che, invece, il Mezzogiorno – una volta venuta meno la Cassa – non ha più avuto. Il tutto, infatti, si è risolto in una logica perdente di segmentazione “Regione per Regione”, dove la somma algebrica dei singoli interventi non ha mai fatto, né poteva fare, il Meridione come insieme.

2. La recente politica per il Mezzogiorno: obiettivi e risultati

Temi di ampio respiro, come si può facilmente vedere la cui soluzione postula il deciso superamento delle esperienze passate a partire da quello che fu l’intervento straordinario, a favore delle “aree sottoutilizzate” come fu riproposto, dalla metà degli anni ‘90, dalle politiche di sostegno europeo con il cosiddetto “Quadro Strategico Nazionale” che da allora è stato gestito all’insegna della cosiddetta ed enfatica “nuova politica economica”. Progetto varato nel 1998, con il convegno di Catania “100 idee per lo sviluppo” e da allora trascinatosi, sempre con minor mordente, fino ai nostri giorni. Il primo ciclo di programmazione del terzo millennio aveva come target temporale il 2000 – 2006 con scadenza prorogata fino al 30 giugno 2009. Il bilancio di quell’esperienza è tutt’altro che positivo.

Secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ alla fine del 2007 erano stati impegnati, in Europa, fondi comunitari per circa 224 miliardi. Le migliori performance erano state quelle dell’Irlanda (spesi circa il 91,5 per cento dei fondi assegnati) e dell’Austria (91,1 per cento). “L’Italia ha registrato un livello di spesa attorno all’80,6 per cento del contributo assegnato, più basso della media UE”. Inoltre “la regola del disimpegno automatico – aggiunge impietoso il rapporto – si stima abbia fatto perdere risorse per circa 140 milioni”.

Un’analisi più puntuale consente di fotografare una realtà, purtroppo, peggiore. I fondi strutturali 2000 – 2006 ammontavano a 28,8 miliardi, cui sommare le risorse nazionali di cofinanziamento per un importo pari a 34,5 miliardi, per un totale di 63,3 miliardi. L’assegnazione a favore de Mezzogiorno era pari a 43,2 miliardi, con una percentuale pari al 72,5 per cento del totale. A fine febbraio 2009 risultano spesi 43,2 miliardi, pari al 94,1 per cento del totale. In apparenza una buona performance; nei fatti l’esatto contrario. I progetti finanziati sono stati infatti i cosiddetti “progetti di sponda”: vale a dire interventi che attenevano alla normale amministrazione ed avevano fonti di finanziamento diverse ed ulteriori. Se si sommano, pertanto, i finanziamenti ordinari e quelli di competenza europea nazionale, essi ammontavano a 80,6 miliardi. Ne sono stati spesi solo 43,2, con una percentuale pari ad appena il 53,6 per cento.

All’evidente incapacità di spesa – riflesso di carenze organizzative gravi in tema di progettazione ed esecuzione dei lavori – si è aggiunta la scelta di una procedura che, ancora oggi, impedisce il necessario salto di qualità. Al fine di sfuggire alla ghigliottina europea (decadenza dei fondi non impegnati in un determinato periodo) lo sforzo è stato quello di affastellare i progetti più disparati, ricorrendo alla tecnica dell’overbooking. Si finanziavano i progetti che “correvano di più” a prescindere dalla loro valenza qualitativa. Il tutto veniva poi definito, nei documenti ufficiali, con il termine di “nuova programmazione”. Una programmazione da “libro dei sogni” se si considera il tempo medio necessario per realizzare i singoli interventi: 10 anni per progetti superiori a 5 milioni di euro; 4 per quelli al di sotto dei 5 milioni. Tre volte tanto, secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ, rispetto ai tempi medi del Nord.

 

3.Il problema è l’ammontare delle risorse destinate al Sud?

Rispetto alla precedente esperienza, nell’impegnare i fondi strutturali 2007 – 2013, con possibilità di proroga al 2015, occorre voltare pagina, per non ripetere gli stessi errori. Occorre, da un lato concentrare le risorse su obiettivi di carattere strategico; dall’altro qualificare questo impegno in relazione ad una strategia che non sia solo conservativa, ma prefiguri un progetto – lo schema Nord-est – per quei territori e l’intera economia nazionale. In passato si parlava del Mezzogiorno non come palla al piede, ma come occasione per una riqualificazione di gran parte della struttura economica nazionale. Oggi quel tentativo, abbandonando ogni retorica, può divenire più concreto.

I fondi a disposizione di questo progetto sono ancora ingenti, nonostante i tagli effettuati. Ricostruire il quadro finanziario complessivo può, quindi, risultare utile. Com’è noto i fondi a disposizione sono quelli previsti nel FAS, cui sommare i fondi del Quadro comunitario ed i fondi nazionali di cofinanziamento, previsti dall’articolo 5 della legge 183 del 1987.

Agli inizi del 2008, le risorse complessive stanziate a bilancio, per il FAS, per effetto della legge finanziaria 2008 (comma 537, articolo 2) ammontavano a 64,3 miliardi, relativamente al periodo 2008-2015. A queste andavano aggiunte 8,022 miliardi non spesi negli esercizi precedenti. Risorse, queste ultime, che, con delibera CIPE del 18/12/2008 sono state assegnate al Ministero delle infrastrutture, per un importo pari a 7,356 miliardi. A valere sui fondi FAS sono stati coperti una serie di provvedimenti di legge, per un importo complessivo di 18 miliardi. Pertanto l’ammontare del FAS è risultato di poco superiore ai 47 miliardi. Delle coperture indicate, cinque, per un importo pari a 1,222 miliardi riguardavano, specificatamente il Mezzogiorno (emergenza rifiuti, disavanzo Catania, G8 Sardegna, terremotati Molise e Foggia).

Questi fondi, fino ad un totale di 45 miliardi, sono stati impegnati con la delibera CIPE del 6 marzo 2009. Essa ha provveduto, innanzitutto a suddividere le risorse tra i Programmi delle amministrazioni centrali e quelli delle amministrazioni regionali. Ai primi sono state assegnati 18,053 miliardi (40 per cento del totale) alle seconde 27,027 miliardi. Le amministrazioni centrali utilizzeranno le risorse ottenute nel modo seguente:

• Fondo sociale per l’occupazione 4
• Fondo Infrastrutture 5
• Fondo per il sostegno all’economia reale 9,053

• Totale 18,053

Le risorse regionali sono state ripartite per 5,195 miliardi (19,2 per cento) al Centro Nord e per 17,149 (63,5 per cento) al Centro Sud. Ulteriori risorse per 1,671 miliardi (6,2 per cento) sono destinate ai programmi interregionali e 3,012 miliardi (11,1 per cento) ai programmi obiettivo di servizio. Le risorse regionali dirette mostrano una prevalenza delle regioni: Campania (3,896 miliardi), Puglia (3,105 miliardi), Sicilia (4,094 miliardi) Calabria (1,773 miliardi) e Sardegna (2,162). Per un totale pari all’87,6 per cento dell’intero stanziamento. Il rispetto della percentuale 85/15 per cento dipenderà dalla configurazione effettiva dei programmi interregionali e quelli inerenti gli obiettivi di servizio.

Per valutare il flusso di risorse, a valere sul FAS – che appare ormai quasi interamente ripartito – a favore del Sud è necessario considerare anche i programmi del Ministero delle Infrastrutture. La provvista finanziaria è stata data dalle due delibere del Cipe (18 dicembre 2008 e 6 marzo 2009) ed ammonta a circa 12,3 miliardi. Con queste risorse si dovrebbero realizzare progetti pari a 16,6 miliardi, grazie ad un contributo dei privati pari a 8,09 miliardi. Altre risorse disponibili, a bilancio, sono pari a 13,683 miliardi. Per completare gli impegni è necessario un fabbisogno aggiuntivo di 2,215 miliardi. Per esplicita ammissione del Ministero, il 49 per cento delle risorse pubbliche dovrebbero essere di pertinenza del Mezzogiorno.

A questo punto è possibile tirare le somme. Salvo nostri errori & omissioni, dovuti alle difficoltà di leggere un quadro contabile frammentato (problema non solo contabile, ma gestionale) ed interpolando le varie cifre, il FAS sarebbe stato così utilizzato:

• usi atipici (coperture legislative, Fondi economia ed occupazione, Programmi regioni del Nord ed infrastrutture, comprendendovi anche la copertura per l’eliminazione dell’ICI sulla prima casa) per un ammontare di risorse che supera i 38 miliardi ed il 60 per cento delle disponibilità complessive

• Mezzogiorno (coperture legislative, Regioni del Sud ed infrastrutture) per un ammontare di circa 18 miliardi ed una percentuale intorno al 30 per cento delle risorse complessive

• Programmi integrati da definire (Interregionali e obiettivi di servizio) per un ammontare complessivo di circa 5 miliardi ed una percentuale dell’8 per cento

• Nel calcolo non sono state comprese: le somme stanziate per le carceri e l’edilizia scolastica (1,2 miliardi), le somme del Ministero delle infrastrutture da programmare (2,951 miliardi), gli investimenti privati (8,090 miliardi) per gli interventi stradali nel Centro Nord.

4. O piuttosto quello delle procedure di utilizzazione delle risorse?

Nonostante tutto, le risorse che possono ancora essere destinate al Mezzogiorno ammontano a circa 60,7 miliardi di euro. Un ammontare pari a quelle previste dal Quadro Strategico Nazionale per il 2000 – 2006. Esse sono date dalle risorse comunitarie (29 miliardi) e dal fondo di cui all’articolo 5 della legge 183 del 1987, finanziato fino al 2010 (proiezione al 2015: 31,7 miliardi). Se si considerano queste ultime, la percentuale di utilizzo complessivo a favore del Mezzogiorno sale ad oltre il 65 per cento di tutte le risorse disponibili. Esiste quindi un budget che, se correttamente utilizzato, può dare a quei territori una grande occasione di sviluppo. Affinché ciò si realizzi è necessario cambiare metodo e non ripetere gli errori passati.
Occorre concentrare le risorse su obiettivi prioritari e prevedere procedure di sostituzione nel caso di inadempienze. Troppo spesso, infatti, la difficoltà nel loro corretto utilizzo dipende dalla complicazione dalle procedure, troppo dirigiste, dalla lentezza con cui esse vengono attuate dalla macchina burocratica regionale, dalla eccessiva frammentazione dovuta alla settorializzazione e alla pressione degli interessi locali e alla mancanza di una visione strategica nazionale ed internazionale: troppi progetti minuti e troppi enti preposti alla loro gestione. Sia i POR (programmi operativi regionali) che i PAR (programmi di azione regionale) sono elaborati in sede regionale, ma richiedono il cofinanziamento (circa il 50 per cento) dello Stato centrale. La loro qualità è, in generale, scadente. Il più delle volte sono solo “teorici”. Una volta che le risorse sono state assegnate, sono invece spese per motivi diversi da quelli indicati nei programmi.

Su questo argomento occorre la massima chiarezza per eliminare alibi e discarico di responsabilità tra i diversi livelli istituzionali. Tra le Regioni che giustificano le loro incapacità, denunciando i tagli dello Stato Centrale. E lo Stato Centrale che, pressato dalla necessità di contenere la spesa pubblica, ritarda a volte le procedure di erogazione. La soluzione può essere trovata con due ordini di misure.

Il Ministro per gli Affari Regionali dovrebbe presentare trimestralmente una Relazione alla Presidenza del Consiglio, che la trasmetterebbe al Parlamento, sul grado di realizzazione dei programmi 2007-2013, distinto per Regioni, con le somme impegnate e quelle pagate, nelle varie sezioni di tali programmi, per stabilire con oggettività, l’andamento della spesa in relazione eventuali future avocazioni. Inoltre questa Relazione dovrebbe mettere a fuoco ciò che si è fatto e ciò che resta da fare, nelle varie Regioni, con riguardo agli interventi che appaiono prioritari in una strategia di sviluppo organica dal punto di vista del Mezzogiorno nel suo complesso, in rapporto anche al Centro Nord, nel quadro nazionale ed internazionale. Il quadro andrebbe completato con gli altri interventi, di competenza delle varie istituzioni ed imprese pubbliche nazionali, come, ad esempio il Ponte sullo Stretto o la autostrada Salerno Reggio Calabria. Ciò allo scopo di avere una visuale d’assieme. La prima relazione periodica dovrebbe essere presentata nel settembre 2009.

Si tratterebbe di anticipare, con questa procedura una linea di tendenza, nel segno dell’accountability (responsabilità e trasparenza), come indicato dal disegno di legge, approvato dal Senato ed in discussione alla Camera, sulla riforma della legge di contabilità e finanza pubblica, che prevede l’istituzione di una specifica Commissione parlamentare, in tema di controllo e di indirizzo finanziario.

Una specifica normativa dovrebbe, poi, stabilire che le disponibilità non spese che rischiano di rimanere inutilizzate vengano devolute al Fondo speciale per investimenti della Presidenza del Consiglio che dovrebbe poi ri-assegnarle a programmi prioritari nelle stesse Regioni, previa consultazione – con termine di durata prefissata – delle Regioni interessate. La procedura di avocazione dovrebbe essere gestita da una Commissione tecnica super partes a seguito dell’accertamento compiuto mediante la procedura di cui al punto precedente. Ciò incentiverebbe le Regioni a gestire con maggiore efficienza i fondi di loro competenza. Non costituiscono fattore di ostacolo a questo progetto, né l’ordinamento costituzionale, né l’Europa.

L’ordinamento costituzionale prevede infatti che le materie oggetto degli interventi inseriti nel Quadro Strategico Nazionale siano di competenza legislativa concorrente Stato – Regioni. Non può quindi essere che la connessa competenza in materia di bilancio si trasformi, invece, per effetto di una delibera CIPE in materia di competenza esclusiva delle Regioni. Sulla base di una simile interpretazione il Governo nazionale dovrebbe rinunciare alle sue prerogative di carattere costituzionale, assumendo una funzione esclusivamente notarile. Non si dimentichi che le risorse finanziarie hanno una destinazione meridionale, ma la loro origine è nazionale, visto che provengono integralmente dal bilancio dello Stato della cui integrità e gestione il Governo risponde solo di fronte al Parlamento.

5. Il Sud nel nuovo scenario geo – politico – economico

Il punto di fondo rimane, comunque, un altro. Occorre un diverso tipo di intervento che ponga fine alla dispersione e che rechi con se una progettualità basata su grandi interventi specifici fra loro coordinati che dia nuovo smalto e slancio ad una politica meridionalista, vista non come una sommatoria di piccoli frammenti, ma nel suo insieme. Per ottenere risultati apprezzabili, seppure nel medio periodo, è necessario che questa politica risulti coerente con un contesto nazionale, ma soprattutto, internazionale che, nel frattempo, è mutato. E che muterà ancor di più nei prossimi anni. Dalle previsioni degli altri organismi internazionali e dall’esame di dati istituzionali, emerge un assetto planetario, per il prossimo decennio del tutto diverso da quello che esisteva prima della grande crisi. I punti forti di questo nuovo scenario sono i seguenti:

I) Si calcola che il consumo interno americano dovrà ridursi, nei prossimi anni, di circa 7 punti ossia di un 5% del Pil essendo il consumo il 72% del Pil degli Usa, per generare il nuovo risparmio necessario per finanziare l’investimento ed evitare uno squilibrio della bilancia commerciale con una forte caduta del dollaro foriera di inflazione e per abbassare il livello di indebitamento netto delle famiglie, che ne ha indebolito in modo patologico il merito di credito. Secondo calcoli recenti, l’eccesso di consumo sul potenziale produttivo negli USA è oggi pari a circa 45.000 miliardi di dollari. La Cina, il Giappone e l’area forte dell’Europa, con la Germania in testa, sono pertanto destinati a subire un contraccolpo, visto che il loro potenziale produttivo risulterà superiore alla domanda complessiva. L’Italia, economia di trasformazione, non è esportatrice netta, ma ha un elevato volume di esportazioni che si collega all’elevato volume di importazioni. Esiste pertanto un interesse oggettivo da parte nostra a diversificare il commercio estero verso mercati e settori diversi da quelli trainati dall’export negli Usa. In questo quadro una ripresa del Mezzogiorno è nell’interesse del Centro Nord: offrirebbe alle aziende colà collocate un’ulteriore possibilità di sbocco.

II) Esistono però mercati di economie emergenti quali quelle del Sud Est asiatico che riescono ad avere un processo di crescita in parte alimentato dal loro surplus sull’estero e in parte dall’impulso alla domanda interna adottata dai governi e resa possibile dalla loro disponibilità di riserve valutarie. Fra questi emerge la Cina che fino a ieri ha trovato nella debt economy (USA in testa) il suo principale mercato di sbocco. La crisi frena il processo di crescita da ciò alimentato ed esso non è più del 10-12 per cento annuo, del resto insostenibile nel medio termine. Ma mediante programmi di spesa pubblica ed espansione del credito per il mercato interno, la Cina ha ora un tasso di crescita attorno al 7 -8 per cento, anche se esso si attenuerà, come prevedono molti analisti. La Cina è comunque il sub continente con maggiore capacità di sviluppo Ad essa si affianca l’India che sta avendo uno sviluppo endogeno dovuto al progresso delle regioni agricole tradizionalmente povere, che si stanno aprendo all’economia di mercato evoluta, grazie allo sviluppo culturale.

III) esiste nei Balcani, negli stati membri dell’Unione europea e in quelli che sono in predicato per entrarvi e negli altri stati ex satelliti della Russia comunista, più a oriente e a sud, come l’Ucraina e gli Stati che si affacciano sul Caspio un’area di economia emergente che è in difficoltà a causa della crisi della Russia e dell’Europa occidentale, ma che ha ampie opportunità e possibilità di crescita, data anche la ricchezza di risorse naturali non utilizzate di cui essa dispone. E nonostante i problemi e le complicazioni politiche, lo stesso discorso vale per la Russia, che si distende in Europa e nell’Asia con grandi ricchezze inesplorate o poco valorizzate

IV) C’è una vasta area di circa 140 milioni di abitanti, che comprende 12 stati della sponda sud del Mediterraneo, detti paesi MED (Algeria, Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia ed Autorità Palestinese) a cui si aggiunge ora la Libia, che dal 1995, nell’ambito della Conferenza di Barcellona, sono venuti a far parte de Partnenariato Euro-Mediterraneo con l’ Unione Europea e 12 paesi. Il progetto prevede la creazione, entro l’anno 2010, di un’area euro-mediterranea di libero scambio, che comporti la caduta delle barriere doganali e la liberalizzazione del commercio dei prodotti industriali.
L’implementazione di tale partnenariato verrà raggiunta attraverso accordi di associazione bilaterali fra l’UE ed i singoli paesi MED; alcuni di tali accordi sono stati già siglati, altri sono in fase di sviluppo. Il recente convegno di Milano cui ha partecipato il Presidente Berlusconi è la dimostrazione di quanto si possa fare per integrare questi rapporti che trovano nel Mezzogiorno un retroterra naturale straordinario.

I rapporti inter – mediterranei hanno una valenza di carattere strategico. Secondo calcoli della Banca Mondiale, la forza lavoro dell’Europa a 25 calerà di oltre 66 milioni di individui, da oggi al 2050. Nel Nord Africa e nel Medio Oriente aumenterà, invece, di 44 milioni. Visto il diverso potenziale produttivo, se non cambieranno i rapporti tra i due continenti, sarà inevitabile subire la pressione di un movimento di emigrazione senza precedenti, con tutte le conseguenze del caso. Occorre pertanto favorire lo sviluppo in loco – il metodo si chiama offshoring – piuttosto che importare braccia da lavoro a quella dimensione di scala. Il Mezzogiorno può quindi diventare l’hinterland naturale di questo sviluppo in uno scambio proficuo tra prodotti energetici, tecnologie, servizi alle industrie. Non è solo un compito limitato al Territorio, ma qualcosa da realizzare in nome dell’Italia e della stessa Europa, al fine di scongiurare traumi, altrimenti inevitabili.

In questo nuovo equilibrio geo-economico-politico, che si sta delineando, l’Italia del Sud ha una posizione ideale: è la base logistica del commercio Nord – Sud. La porta per l’Oriente, per l’Africa e per le economie medio orientali e mediterranea ricche di risorse energetiche. Porti come quello di Gioia Tauro – nato per sbaglio ma ora in crescita – Taranto, Brindisi, Bari e Napoli sono gli hub naturali del rapporto fra l’Italia e l’Europa del Centro Nord con queste tre grandi aree. Senza pensare ai paesi Balcani ed ai progetti europei per favorirne l’integrazione (Corridoio VIII Bari ed altri porti del Sud – Paesi Balcanici). Con pochi investimenti per completare e modernizzare le strutture esistenti, essi possono divenire i terminali su cui incardinare le nuove direttrici industriali, commerciali, energetiche e di servizi nelle due direzioni, da e verso l’Europa occidentale. Ma per fare ciò e per attivare il processo di crescita del Mezzogiorno che si inserisca in questo quadro nazionale e internazionale economico-politico occorre una politica di infrastrutture ed energetica coordinata.

6. Alcune linee strategiche

La premessa di carattere generale, appena enunciata, trova già, una incoraggiante conferma empirica. Il Mezzogiorno, con il suo quadrilatero rappresentato dai porti di Taranto, Bari, Augusta, Gioia Tauro e Napoli e le sue possibili proiezioni su Civitavecchia, Genova e Trieste, rappresenta già una chance importante sulla quale non si è investito a sufficienza. Gli interventi concreti che, in questo quadro, dovrebbero essere attuati si possono delineare nel modo seguente.

I) Per la Puglia Taranto deve essere dragato per consentire l’approdo di porta-container di maggior tonnellaggio. Per il completamento della piastra logistica è prevista una spesa di 154 milioni. Deve essere inoltre collegato alla viabilità ordinaria, per rendere celere la movimentazione di merci. Con investimenti, stimabili in 80 milioni di euro è possibile realizzare, un collegamento ferroviario ed autostradale rapido con il centro Europa e godere di un vantaggio competitivo di almeno 5 giorni sul porto di Rotterdam ed altrettanto nei confronti della Spagna. Occorre poi adeguare i collegamenti ferroviari tra Bari e Napoli, con l’alta velocità, come da tempo programmato. Il costo dell’opera è stimabile in 6,2 miliardi di euro.

II) Per la Campania e la Calabria, esiste un problema prioritario di vie di comunicazione: occorre una accelerazione dei lavori dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria. Ed è necessario estendere l’alta velocità ferroviaria fino a Reggio Calabria (Gioia Tauro per le merci). Il costo è molto elevato, ma in parte rientra in una logica di finanziamento di mercato. Si può stimare in 4,2 miliardi di euro e si può scaglionare nel tempo, con progressivi guadagni di tempi di percorrenza rispetto a quelli attuali. La velocità di esercizio dovrebbe raggiungere i 200 km/ora. Più in generale, Napoli è candidata ad essere il centro di gravitazione intorno al quale far ruotare il meccanismo di un nuovo sviluppo, euromediterraneo .
.
III) Per la Calabria e la Sicilia, l’opera fondamentale è il Ponte sullo Stretto per la cui attuazione quasi interamente finanziata occorrono in tutto 4,3 miliardi, ma una parte (circa 1,3 miliardi) è stata stanziata. I rimanenti potrebbero essere apportati dalle Regioni Calabria e Sicilia, utilizzando loro fondi regionali non spesi. Va notato che ciò comporterebbe un loro cespite patrimoniale, recuperabile all’atto di scadenza della cessione, in quanto la quota di spettanza dello stato non sarebbe più il 100 per cento In relazione a ciò occorre sistemare il relativo hinterland di comunicazioni. La Calabria, inoltre, ha un grosso potenziale energetico non utilizzato o non ancora valorizzato; ma è carente la rete di trasporto di energia elettrica sia con la Sicilia che con il Centro Nord di Italia. Occorre rimuovere gli ostacoli a ciò che solo di ordine amministrativo, mediante una azione ad hoc D’accordo con Fiat, si deve trovare una diversa sistemazione per Termini Imerese.

IV) Per la Sardegna, occorre probabilmente riconsiderare il business della chimica, discutendo con ENI sulla possibile cessione delle attività esistenti ad altri soggetti, anche esteri, magari con la formula delle joint venture. Il terminale del gas, proveniente dal Medio Oriente, dovrebbe rappresentare un fattore di localizzazione importante. Nel frattempo occorrerà completare l’asse stradale 131 (Carlo Felice).

V) Per la Campania occorre considerare la possibilità del rilancio dello sviluppo della elettro-meccanica nei due settori dell’aeronautica e dell’industria dell’auto, anche in relazione al finanziamento di centri di ricerca, in rapporto alla nuova politica energetica stabilita nel G8.

I punti che abbiamo indicato sono solo indicativi di quello che si può fare, all’interno di una visione unitaria dei problemi del Mezzogiorno. Le proposte vanno quindi considerate come parte di un progetto più generale, come del resto indicato nel Programma Infrastrutture Strategiche, a cui queste note fanno da complemento. Il punto essenziale è che essi siano inseriti in un disegno più generale che abbia valenza di carattere sistemica. Ma per realizzare una simile operazione ciò che è essenziale è una regia unitaria, capace di declinare nei diversi campi operativi le specifiche di una visione complessiva. Gli sforzi da compiere vanno in direzioni diverse: dalla politica estera a quella interna. Dall’economia, alla finanza, alle innovazioni giuridiche ed istituzionali per accelerare l’iter di provvedimenti altrimenti destinati ad incagliarsi nelle pastoie burocratiche. Senza trascurare, infine, la necessità di un partneriato forte con il Centro Nord e con i fondi sovrani ed altri operatori dell’area sud del mediterraneo, da dove attingere le necessarie risorse imprenditoriali per un progetto così ambizioso, che coinvolge le strategie internazionali sopra delineate . Il che solleva l’ulteriore problema della modernizzazione del contesto economico sociale meridionale: contratti e mercato del lavoro, lotta alla criminalità, politiche fiscali mirate e così via.Di cui si è già detto in precedenza

L’ultimo profilo riguarda la governance. Intendendo con questa espressione non solo la direzione del processo, ma l’adeguamento delle strutture gestionali (troppi fondi difficili da gestire in una visione unitaria) alle quali abbiamo già accennato nelle pagine precedenti. Le soluzioni possono essere diverse, come del resto indicato nell’ultimo rapporto della SVIMEZ. Quella più immediata dovrebbe concretizzarsi nei seguenti atti:

• inventario delle risorse ancora realmente disponibili (comprese le cosiddette “risorse liberate”) nell’attuale contesto congiunturale di breve e medio periodo;

• concentrazione delle risorse finora disponibili sulla base di un accordo tra la Presidenza del Consiglio e le Regioni;

• selezione dei progetti prioritari, fatta in dialogo tra la Presidenza del Consiglio e le Regioni (proposta accolta da queste ultime nella riunione di Bari);

• conservazione dei programmi regionali, ma solo dopo aver “estratto” una quota di risorse che nell’insieme possa finanziare i programmi strategici meridionali infra e super regionali, nello spirito indicato in precedenza;

• accantonamento di una quota di finanziamenti per far fronte alle difficoltà di bilancio di ciascuna Regione, onde evitare il formarsi di deficit sommersi o di deficit superiori a quanto preventivato.

• stretto raccordo tra tutti i dicasteri (Esteri, Sviluppo economico, Economia, Infrastruttura e così via) per sviluppare, sinergicamente, le proprie azioni, in vista di un comune obiettivo.

• Costituzione, nell’ambito della Presidenza del consiglio, di una struttura tecnica – Agenzia per lo sviluppo – per realizzare, su delega dello stato e delle regioni, gli interventi programmati. Essa dovrebbe raggruppare le competenze oggi disperse tra i diversi centri decisionali, con una struttura giuridica simile agli altri enti di natura economica. Dotata di una struttura decisionale snella e di uno specifico fondo di dotazione, ottenuto con il trasferimento di risorse dagli altri centri di spesa. Dovrebbe essere dotata delle necessarie competenze tecniche ed amministrative per la gestione dell’intera filiera della progettazione fino alla gara d’appalto ed essere, al tempo stesso, strumento ausiliario dell’attività regionale.

L’avvio di questa strategia, che contempla anche un ruolo costruttivo da parte dell’opposizione, darebbero il segno profondo di un cambiamento destinato a mobilitare le risorse e le intelligenze del Territorio, per troppi anni depresse da un azione del Governo centrale prodigo di risorse da distribuire, ma incapace di indicare un progetto su cui poter lavorare in una dimensione di medio periodo. Mario Monti, sulle colonne del Corriere della Sera, ha giustamente sottolineato la necessità di una sfida da affrontare. Ma essa, ancor prima d’essere di natura finanziaria, deve rispondere ad una logica di carattere produttivo. Le risorse del FAS e dei programmi comunitari integrati da finanza di progetto sono tali da garantire il finanziamento delle indispensabili infrastrutture, né mancano gli strumenti giuridici – molti dei quali codificati in norme cogenti – che consentono allo Stato Centrale di sostituirsi alle lentezze burocratiche di un localismo che non riesce ad avere la necessaria visione d’insieme. E che se non corretta, rischia di far abortire sul nascere lo stesso disegno federalista. In questa logica la saldatura tra il breve ed il medio periodo ritrova una sua forte coerenza. La realizzazione delle infrastrutture crea immediatamente sviluppo, ma il motore non si arresta con il completamento dell’opera, operando come traino per le successive attività. E’ stato questo il modello, che in passato, ha consentito alle diverse economie di uscire da uno stato puramente conservativo ed avviare il decollo produttivo. Il Nord –est, si diceva all’inizio, è riuscito in questa impresa senza ricorrere all’aiuto dello Stato, perché non dovrebbe riuscirci il Mezzogiorno?

7. Tre grandi questioni aperte: dotazione infrastrutturale, sicurezza, capitale umano

Il problema del Mezzogiorno e del suo possibile sviluppo va quindi ripensato alla luce di queste nuove esperienze. Esse postulano la fine di qualsiasi approccio di tipo dirigista ed assistenziale, la cui caratterizzazione è quella di essere inattuale, inefficace, addirittura dannoso per il legame di dipendenza che crea tra l’attività economica e strutture burocratiche autoreferenziali e con un forte aumento dei costi di transazione a carico delle imprese che invece devono progressivamente diminuire per rendere possibile una maggiore competizione, in un mercato sempre più difficile.

Cruciale è allora concentrarsi sulle cause che sono alla base della minore redditività del Mezzogiorno definendo una strategia che punti a migliorare le condizioni di contesto che sono il presupposto per una maggiore produttività. Centrale diventa, pertanto, la questione della dotazione infrastrutturale, che nel Sud è del tutto insufficiente. Lo Stato, anziché intromettersi nelle scelte imprenditoriali, deve farsi carico, secondo un sano principio di sussidiarietà orizzontale, di alcuni beni complementari a quelli privati. Che ciascuno faccia, pertanto, il suo mestiere: senza sovrapposizioni e confusioni di ruolo.

Altrettanto importante è il tema della sicurezza e dell’ordine pubblico, per la riaffermazione del principio di legalità. Occorre ribadire con forza la necessità di intensificare gli sforzi per battere la criminalità organizzata nelle diverse forme in cui essa si manifesta nelle varie realtà del Mezzogiorno: Mafia, Camorra, Ndrangheta. Si tratta, innanzitutto, di un dovere morale nei confronti di una cittadinanza sottoposta a vessazioni d’ogni genere; quindi di dimostrare che lo Stato democratico è più forte di ogni spinta eversiva ed è capace di combatterla con la necessaria intransigenza. Solo così il sacrificio di tanti uomini delle Istituzioni, a partire da Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, non si sarà dimostrato vano. Esiste poi un problema ulteriore. La presenza di quelle organizzazioni criminali non colpisce solo il Mezzogiorno, ma ferisce l’immagine complessiva dell’Italia.

Per i grandi media internazionali, parlare di mafia, specie in occasione di avvenimenti importanti, com’è stato il G8 dell’Aquila, è un modo per ridurre la portata di quell’evento. Trasmettere l’immagine di un Paese che, nonostante gli sforzi compiuti, rimane quello di sempre: terra dei “pizzini” e della Camorra. Il problema non va sottovalutato nemmeno per le conseguenze di carattere economico che determina. In una fase in cui la concorrenza tra le diverse aree del Pianeta è divenuta più aspra, delegittimarne uno fa il gioco degli altri competitor e le conseguenze si vedono. Nel Mezzogiorno il flusso degli investimenti esteri è del tutto inconsistente, nonostante le opportunità di ritorno, che pure esistono: come mostra la presenza di molte aziende estere in alcune enclave – il porto di Napoli o quello di Gioia Tauro – a più elevato tasso di sviluppo.

Combattere la criminalità resta pertanto una priorità. Alla necessaria azione di contrasto, comunque da intensificare, va tuttavia accompagnata una battaglia culturale e civile, mobilitando le forze sane – come già sta avvenendo – della società meridionale e di quella nazionale. Tutto ciò, tuttavia, rischia di risultare meno efficace, se non si prosciugherà lo stagno che alimenta l’attività criminosa. Occorre combattere quella disoccupazione che trasforma taluni in soldati delle cosche per ragioni di sopravvivenza. Introdurre regole di governo trasparenti. Moralizzare l’attività amministrativa; soprattutto riprendere il sentiero della crescita e dello sviluppo che, come la storia non solo italiana insegna, è l’antidodo più potente che scaccia la cattiva moneta del disordine morale e della delinquenza.

Dobbiamo attrezzare i giovani in questa battaglia. Occorre pertanto fermare il grave deterioramento che si registra nel campo della formazione del capitale umano. Il decadimento qualitativo dell’attività di formazione universitaria e post universitaria, che si è registrato negli ultimi anni in tutto il Paese, ha assunto toni drammatici nel Sud d’Italia. A questi problemi, di cui sono evidenti le origini storiche, occorrerà far fronte con un disegno di medio periodo ed una coerenza di comportamenti, che coinvolga attori pubblici e privati.

Ma la questione del capitale umano del Mezzogiorno non può essere affidata unicamente alle pur indispensabili strategie generali di riforma dell’istruzione secondaria ed universitaria che avviato il Governo su scala nazionale. Occorre mettere in campo progetti specifici di immediata realizzazione. E’ in particolare necessario avviare sin da subito specifici progetti che puntino a realizzare uno stretto raccordo fra l’attività di formazione scolastica ed universitaria ed il mondo delle imprese operanti al Sud. E’ necessario che scuola ed università siano pensate ed organizzate avendo ben presente il contesto del sistema produttivo e del mercato del lavoro. In questa prospettiva grande valore potrebbero rivestire ad esempio progetti pilota finalizzati ad inserire la cultura del fare impresa già nelle attività di formazione scolastica.

 

8. Alcuni interventi immediati necessari per compensare il deficit competitivo del Mezzogiorno

Il Mezzogiorno ha tuttavia bisogno, anche, di interventi immediati in grado di compensare, parzialmente ma sin da subito, le cause di minor redditività del degli investimenti produttivi che sono alla base del minore sviluppo di quest’area del Paese
E’ necessario in primo luogo introdurre elementi di temporaneo vantaggio fiscale alle imprese, per compensarle dei maggiori costi indiretti che le imprese operanti al Sud sopportano per il solo fatto di operare in quest’area del Paese. Interventi che cesseranno man mano che miglioreranno le condizioni di contesto. Il loro finanziamento può essere assicurato riconsiderando la politica di incentivi diretti fin’ora perseguita. Spostare il baricentro dell’intervento in favore del Sud dall’incentivo diretto al beneficio fiscale abbatterebbe i costi di amministrazione di transazione garantendo enormi vantaggi in termini di efficacia e di tempestività dell’intervento. La nascita della Banca del Sud, inoltre, dovrebbe garantire quel ruolo di assistenza tecnica e finanziaria che ancora manca sul Territorio.
Altro tema da affrontare, in modo contestuale, è quello dell’eccessiva rigidità del mercato del lavoro. Si tratta, infatti, di un mercato configurato sulla falsa premessa di un sistema economico e produttivo omogeneo in tutta la Nazione. Un mercato costruito sulla centralità del contratto collettivo nazionale di lavoro e sul rapporto subordinato a tempo indeterminato, funzionali ad un modello di sviluppo non più attuale, già in crisi a livello nazionale, del tutto improponibile per la realtà e le esigenze del Mezzogiorno.

E’ urgente una politica salariale più moderna e flessibile e soprattutto più attenta alle necessità di crescita produttiva del Sud. Il problema non è certo attardarsi su un eventuale ritorno alle “gabbie salariali”, istituto arcaico e proprio di un sistema economico superato. Occorre un approccio realistico che tenga conto delle reali condizioni sociali del Mezzogiorno ed in particolare del suo elevato tasso di disoccupazione: spia evidente delle disfunzioni e delle strozzature esistenti nel mercato del lavoro. Il problema è piuttosto quello di valorizzare l’autonomia, le capacità e le responsabilità dei diversi soggetti che operano sul territorio. In questa prospettiva sarebbe di grande importanza riconoscere alle imprese meridionali la possibilità di concordare con le rappresentanze sindacali aziendali condizioni contrattuali differenti rispetto a quelle previste dal contratto collettivo nazionale. Sarebbe questa la strada più efficace per combattere il fenomeno della disoccupazione e del lavoro nero.

9. Conclusioni

Occorre superare tanto le antiche pretese assistenziali quanto il meridionalismo di tipo statalista. Per rilanciare il Mezzogiorno è necessario che ciascuno eserciti la sua funzione propria: le imprese cerchino di sfruttare le potenzialità produttive e lo Stato garantisca loro la possibilità di fare impresa in modo equo, sicuro ed efficiente.

Lo Stato, anziché intromettersi in scelte imprenditoriali, deve farsi carico di fornire alcuni beni “complementari” a quelli privati. E’ necessario che finalmente ciascuno si metta in condizione di svolgere il suo mestiere: che lo Stato e le pubbliche amministrazioni garantiscano quei beni pubblici necessari per la crescita ed il funzionamento del mercato, che le imprese siano libere e siano adeguatamente incentivate ad effettuare gli investimenti che appaiono più redditizi.

Solo con un approccio innovativo, ma saldamente collegato ai valori dell’economia di mercato ed a quelli della solidarietà sociale, è possibile aggredire i problemi del Sud. La questione meridionale è sempre più questione nazionale, perché il mancato decollo di un’area così vasta del Paese è la prima causa della ridotta competitività internazionale del Paese. Pensare di risolvere i problemi italiani senza affrontare la questione meridionale sarebbe un’ingenua utopia. Pensare di affrontare i problemi del Mezzogiorno senza un solido ancoraggio alla politica nazionale sarebbe una tragica illusione.