Il tema di questo Seminario, “La sfida antropologica”, mette giustamente in evidenza il carattere operativo e coinvolgente di quella che siamo soliti chiamare “nuova questione antropologica”. Sono lieto di discuterne avendo come altro relatore il Prof. Aldo Schiavone, con il quale ho già avuto qualche occasione di confrontarmi.
L’elemento più nuovo e specifico che ha dato origine all’attuale questione antropologica è costituito dai recenti sviluppi scientifici e tecnologici che hanno dato all’uomo un nuovo potere di intervento su se stesso. Parafrasando la celebre XI tesi di Marx su Feuerbach, si può dire che non si tratta più soltanto di interpretare l’uomo, ma soprattutto di trasformarlo. Questa trasformazione però non avviene, come pensava Marx, modificando i rapporti sociali ed economici, bensì incidendo direttamente sulla realtà fisica e biologica del nostro essere, attraverso le tecnologie che stanno progressivamente appropriandosi dell’insieme del nostro corpo e in particolare dei processi della generazione umana, ma anche del funzionamento del nostro cervello: assai indicative sono, in questo ambito, le direzioni delle ricerche sui rapporti mente-cervello, sulle questioni della coscienza e dell’autocoscienza, come anche sul linguaggio umano, messo a confronto con i linguaggi attribuiti ad altri animali. E’ chiaro a tutti che in questi campi siamo solo all’inizio di sviluppi dei quali è assai difficile prevedere il limite. Sebbene agiscano su di un piano di per sé diverso, le straordinarie prestazioni delle cosiddette “intelligenze artificiali” spingono a loro volta in una direzione convergente: quella cioè di fornire un nuovo e più efficace supporto e quasi una definitiva conferma, apparentemente “scientifica”, a filosofie della mente che, riprendendo in realtà ipotesi ormai antiche, ritengono di poter ricondurre integralmente la nostra intelligenza e la nostra libertà al funzionamento dell’organo cerebrale, come tale a sua volta uguagliabile, o anche superabile, attraverso i progressi delle intelligenze artificiali.
Conviene ora soffermarci sull’interpretazione dell’uomo implicata in questi sviluppi. Non si tratta soltanto del rifiuto di quel dualismo antropologico che concepisce l’uomo come costituito da due sostanze, l’anima e il corpo, unite tra loro in forma soltanto accidentale. L’unità del nostro essere è qui affermata infatti in una maniera radicale e riduzionista, in quanto l’uomo stesso viene ricondotto alla sua sola dimensione corporea, in quella prospettiva naturalistica che il Concilio Vaticano II aveva già individuato riferendosi a coloro che considerano l’uomo “soltanto una particella della natura” (GS 14).
Una simile interpretazione ha dei precisi presupposti, anzitutto a livello teoretico, che non hanno alcun rapporto necessario con gli sviluppi delle scienze. Il primo di essi può individuarsi nella tendenza, questa sì insita nel dinamismo delle scienze empiriche, a considerare anche l’uomo come un “oggetto”, come tale conoscibile e “misurabile” attraverso le forme dell’indagine sperimentale. Tutto ciò è certamente lecito, anzi indispensabile per il progresso scientifico e tecnologico, con i grandi benefici che esso apporta, ad esempio nella cura delle malattie. Altra cosa è però dare spazio ad una specie di “scientismo di ritorno”, che consideri questa come l’unica forma razionalmente valida di conoscenza del nostro essere, negando o dimenticando che l’uomo è anzitutto e irriducibilmente “soggetto”, il quale, proprio nella sua soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e adeguatamente conosciuto attraverso le scienze empiriche.
Un secondo e assai rilevante presupposto, che in realtà costituisce anche una componente intrinseca della nuova questione antropologica, è il grande fenomeno dell’evoluzione, cosmica e biologica: un’interpretazione largamente diffusa di questo fenomeno, infatti, contribuisce non poco all’affermarsi di una comprensione dell’uomo puramente naturalistica. Varie domande si pongono al riguardo. Anzitutto quella se possano assumersi come decisivo criterio esplicativo soltanto il formarsi della specie umana attraverso i processi evolutivi, oltre che la stretta connessione che indubbiamente esiste tra i processi mentali e il funzionamento dell’organo cerebrale, senza prendere in altrettanto seria considerazione un approccio diverso, che parte dall’esame delle “prestazioni” di cui sono capaci la nostra intelligenza e la nostra libertà: in concreto quella capacità di produrre cultura che è propria ed esclusiva dell’uomo e che ha dato luogo, attraverso i millenni, a uno sviluppo gigantesco e sempre crescente, all’interno del quale emergono “punte” estremamente significative, come l’attitudine ad assumere responsabilità etiche, il rigore e l’efficacia del pensiero logico, la creatività estetica. Si tratta certamente di un approccio in ultima analisi filosofico, che risale al pensiero classico, ma questo non è un motivo sufficiente per ritenerlo irrilevante, a meno di postulare che l’unica forma di conoscenza attendibile sia quella che ci viene attraverso la razionalità scientifico-tecnologica, con un ragionamento che in realtà è a sua volta di tipo filosofico e si è da tempo rivelato privo di consistenza. Aggiungasi che una considerazione più puntuale delle cosiddette intelligenze artificiali potrà indicare che esse, alla fine, non sono realmente “pensiero”, ma soltanto simulazione della nostra intelligenza, realizzata sulla base di ciò che noi sappiamo di noi stessi, come ha osservato lo scienziato italiano Alberto Oliveiro.
Un terzo presupposto è la cosiddetta “fine della metafisica”, che ha avuto tanto rilievo nel pensiero filosofico del Novecento: essa di fatto ha portato con sé la negazione della trascendenza, cioè in concreto anzitutto della realtà del Dio personale distinto dal mondo, ma anche, e in stretto rapporto con ciò, di ogni dimensione dell’uomo che sia davvero trascendente rispetto alla natura.
Nello stesso tempo la “radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura” produce, come ha detto Benedetto XVI al Convegno di Verona il 19 ottobre 2006, “un autentico capovolgimento del punto di partenza” della cultura moderna, “che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà”. Proprio mentre si assiste alla radicalizzazione ed estremizzazione delle istanze, in sé legittime, della libertà personale, vengono infatti privati del loro fondamento, e quindi della loro plausibilità, quel ruolo centrale e quella dignità specifica del soggetto umano – da considerare sempre come un fine e mai come un mezzo, secondo la nota formula di Kant – che costituiscono il punto di riferimento decisivo della nostra civiltà, sul piano filosofico ed etico, ma anche giuridico e politico, esistenziale e persino estetico.
La spinta di fondo della nuova questione antropologica sembra dunque essere quella di ricondurre integralmente il soggetto umano – ma nel linguaggio dei biologi si parla piuttosto della specie homo sapiens sapiens – all’interno del macroprocesso evolutivo, con la tendenza a considerare decisiva la continuità del processo stesso rispetto alle differenze che si generano al suo interno. Così i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente: nella stessa definizione classica dell’uomo come animal rationale, la differenza specifica rationale finisce perciò per perdere quel rilievo di insormontabile differenziale ontologico che le è appartenuto nella nostra civiltà.
Esiste però un altro aspetto, o tendenza, che sta emergendo in questi ultimi anni. Se guardiamo infatti non al passato ma al presente e al futuro, l’accento si sposta di nuovo su ciò che appartiene all’uomo in esclusiva, nel senso che le capacità scientifico-tecnologiche da lui acquisite sono giunte ormai ad una fase del loro sviluppo che parrebbe consentire un potenziamento radicale della nostra specie, il suo miglioramento e anche il suo superamento, in un processo evolutivo il cui propulsore non risiederebbe più nella natura ma nell’intelligenza umana, più precisamente nell’intelligenza scientifico-tecnologica, e i cui ritmi di sviluppo sarebbero per conseguenza non quelli lentissimi della natura ma quelli rapidissimi della tecnologia. Così proprio quell’intelligenza che viene considerata frutto dell’evoluzione cosmica e poi biologica si sostituirebbe in certo modo alla natura stessa, affermando un suo totale primato e dominio sull’evoluzione futura, il cui esito positivo e non distruttivo resta affidato, in ultima analisi, soltanto a un uso corretto e ragionevole della nostra libertà. Aldo Schiavone, nel piccolo libro Storia e destino, pubblicato nel 2007 da Einaudi, ci ha offerto un quadro sintetico, ma molto informato e assai ben organizzato, di queste prospettive.
In questo modo il soggetto umano riacquista, in forma nuova e profondamente diversa, un’assai concreta centralità, almeno in quella parte dell’universo che oggi possiamo osservare in maniera sufficientemente particolareggiata e in cui non si incontrano altri viventi dotati di intelligenza.
Anche a prescindere dalle unilateralità già evidenziate di una spiegazione integralmente evolutiva del soggetto umano, a questo punto nascono però due ulteriori domande. La prima riguarda le capacità della razionalità scientifica e tecnologica di assumere la guida dei processi di trasformazione dell’uomo e di assicurarne esiti positivi e benefici, dimenticando che questa razionalità prescinde, per il suo stesso impianto metodologico, dai problemi del significato e dei fini della nostra esistenza. Inoltre, e più concretamente, questa razionalità si incarna nell’insieme degli uomini e delle donne che fanno ricerca e interagisce sempre più intensamente con tutti gli enormi interessi economici, politici, e anche ideologici, che sono collegati con i grandi e rapidissimi sviluppi scientifico-tecnologici. Per assumere la guida di tali processi appare dunque necessaria “un’etica forte”, come lo stesso Schiavone afferma nettamente, riconoscendo anche indispensabile per essa “il contributo cattolico”. E’ assai difficile però costruire una tale etica sulla premessa della totale riconduzione dell’uomo al macro-processo evolutivo.
Giungiamo così alla seconda domanda che, in dialogo con Schiavone, possiamo formulare così: si può davvero affermare che l’uomo, in fondo, sia soltanto storia? Alla base di questa tesi di Schiavone sta chiaramente la concezione evolutiva dell’universo, per la quale l’universo stesso non è un insieme di essenze o nature stabili, ma piuttosto un’unica macro-storia, prendendo evidentemente la parola “storia” in un senso amplificato, che in ultima analisi significa soltanto realtà in continuo mutamento e non comprende le dimensioni di cultura e di libertà proprie della storia umana. Per di più, d’ora in poi la storia dell’universo assume in qualche modo, nella prospettiva di Schiavone, un significato più vicino a quello tradizionale della storia stessa, dato che l’uomo se ne fa protagonista in virtù delle nuove risorse messe nelle sue mani dalle scienze e dalle tecnologie. E’ proprio questa idea, però, che l’uomo sia soltanto storia, a rivelarsi, alla fine, non meno problematica e riduttiva dell’idea che l’uomo sia soltanto natura. Schiavone ha replicato che ricondurre integralmente l’uomo alla storia non significa ridurlo a pura materia, dato che la fisica stessa ci dice che la materia, modernamente intesa, “è solo una forma – e non certo l’unica – dell’essere” (cfr la Repubblica, 17 luglio 2008). Ma questa osservazione non è pertinente: la fisica contemporanea ci insegna certamente che la realtà dell’universo fisico assume molteplici configurazioni e denominazioni, che sembrano però riconducibili al binomio materia (in senso ampio)-energia, e soprattutto che sono tutte “interne” e consustanziali all’universo stesso. Realmente distinta da tutta questa realtà, e ad essa irriducibile, è anzitutto, per il credente, la realtà di Dio. Proprio dell’uomo è far parte dell’universo fisico e al contempo trascenderlo, partecipando alla realtà trascendente di Dio: questa è la ragione sostanziale ed ultima per la quale l’uomo non è totalmente riconducibile né alla natura né alla storia. Certamente l’uomo è un essere storico, vive nella storia, che per lui è qualcosa di intrinseco e di costitutivo, non certo di esterno, ma non è integralmente riducibile alla storia. Questa sua realtà singolare, che lo pone, secondo una formula classica, al confine del tempo e dell’eternità, è espressa dalla fede biblica con la parola “immagine di Dio”, ma è anche razionalmente plausibile, per quella diversità dell’uomo rispetto al resto della natura che, come abbiamo accennato, è attestata dalle “prestazioni” di cui soltanto lui è capace tra gli esseri di questo mondo. Proprio il tema dell’immagine di Dio ha corroborato e potenziato interiormente la definizione classica dell’uomo come animal rationale, ontologicamente non riducibile al resto del regno animale. Particolarmente illuminanti su questo complesso di tematiche sono le pagine dell’ultimo capitolo dell’Enciclica Caritas in veritate, dedicate a “Lo sviluppo dei popoli e la tecnica”, che riconducono tra l’altro la stessa “questione sociale” a “questione antropologica” (n. 75, cfr anche nn. 68-70; 74; 76-77).
Queste e altre possibili domande non devono però farci perdere di vista un dato di fondo: rimane vero che è incominciata, con l’applicazione all’uomo delle biotecnologie e con tutti gli altri sviluppi tecnologici connessi, una fase nuova della nostra esistenza nel mondo, della quale siamo solo agli inizi e che appare destinata ad accelerarsi e a produrre effetti estremamente rilevanti e potenzialmente pervasivi di ogni dimensione della nostra umanità, effetti che oggi è ben difficile, per non dire impossibile, prevedere nei loro concreti esiti e sviluppi. E’ ugualmente vero che questa nuova fase non appare arrestabile: di più, essa, per quanto impegnativa e carica di rischi, va sinceramente favorita e promossa, perché rappresenta uno sviluppo di quelle potenzialità che sono intrinseche all’uomo, creato a immagine di Dio. Occorre però liberarsi da una visione deterministica degli sviluppi che ci attendono: in quanto opera dell’uomo, e non astrattamente delle tecnologie, essi possono e devono essere orientati in modo che vadano a favore, e non a detrimento, dell’uomo stesso.
Siamo rimandati così al senso della parola “uomo”, al valore che attribuiamo al soggetto umano, in noi e nel nostro prossimo, al modo in cui viviamo e all’uso che facciamo della nostra libertà. Quella dell’uomo, infatti, non è mai una questione soltanto teoretica, ma sempre anche decisamente pratica, nella quale entra in gioco il tutto di noi stessi, con la nostra intera soggettività: ben diverso, ad esempio, è vivere come se l’uomo fosse soltanto una “sporgenza” della natura, o avesse invece una dignità inviolabile e un destino eterno. Nessuno pertanto può pretendere di conoscere davvero l’uomo per una via puramente “neutrale”, oggettiva e “scientifica”: gli sfuggirebbe quello che è proprio dell’uomo, il suo essere soggetto e non soltanto oggetto.
Per orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo, è dunque molto importante quale immagine, quale ideale e quale esperienza vissuta dell’uomo portano con sé quanti lavorano direttamente nel campo delle biotecnologie e degli ambiti scientifici ad esse collegati, e alla fine è ancora più importante l’immagine e l’esperienza dell’uomo che prevale nello spazio complessivo della cultura e della società, a livello di una nazione, di una civiltà e ormai sempre più dell’intera umanità.
In concreto, occorre liberare dagli “a priori” riduzionisti le scienze e le tecnologie, o più esattamente le persone dei ricercatori, che sono coloro che possono essere direttamente condizionati da simili “a priori”. Anche questo fa parte dell’invito ad allargare gli spazi della nostra razionalità, spesso ripetuto da Benedetto XVI. Affinché ciò avvenga effettivamente è di grande importanza che ci siano, e vengano adeguatamente formati e preparati, ricercatori il cui approccio culturale ed esistenziale sia appunto “largo” ed aperto, privo cioè di preclusioni nei confronti della trascendenza.
Più specificamente, una questione di rilievo determinante è quella dei rapporti tra scienze e filosofia, e – non senza la mediazione della filosofia – tra scienze e teologia. Al riguardo un ruolo speciale è svolto dalla filosofia analitica che, anche in virtù degli strumenti logici e linguistici che ha saputo sviluppare, gode oggi di una sorta di egemonia riguardo ai rapporti della filosofia con il mondo delle scienze. Essa, non per motivi strutturali e necessari, ma piuttosto per gli orientamenti assunti dalla maggioranza dei suoi cultori, è attualmente connotata in larga misura da un’impronta riduzionista e finalmente materialista, come ha riconosciuto e deplorato uno dei suoi principali esponenti, Michael Dummett. Non mancano comunque le possibilità concrete di sviluppi più aperti, che potrebbero essere ulteriormente favoriti da un migliore collegamento tra questa filosofia e quella che viene invece qualificata come “filosofia continentale”, con un’espressione piuttosto generica e cumulativa di indirizzi tra loro diversi che serve a indicare il tipo di filosofia prevalente nel continente europeo, a differenza dalla Gran Bretagna e dal Nord America.
Non vanno inoltre trascurati gli apporti che possono venire, anche in questo ambito, dalla valorizzazione del grande patrimonio dell’antropologia cristiana, teologica e filosofica, se attualizzato e ripensato in rapporto alle problematiche proprie della nuova questione antropologica.
Su tali basi, attraverso un lavoro convergente, potranno risultare più chiari i limiti della conoscenza empirica e la distinzione tra sapere scientifico e sapere filosofico, senza ignorare o negare però, ma al contrario incoraggiando, quel rinnovato interesse che le grandi domande sull’uomo, sulla vita, sulla totalità dell’universo suscitano sempre più tra coloro che sono impegnati nella ricerca scientifica, per il fatto che proprio l’avanzare delle scienze stimola a porre problemi che debordano dai canoni metodologici delle scienze stesse: così, nella distinzione reciproca, potrà progredire una feconda interazione tra le scienze, la filosofia e la teologia.
La sfida, inoltre, per essere affrontata positivamente, va collocata in un orizzonte ancora più ampio, attraverso un approccio multidisciplinare che chiami in causa, con le scienze empiriche e con la filosofia e la teologia, la storia, il diritto, le lettere e le arti. Più radicalmente, non si tratta solo del convergere di diverse discipline, ma soprattutto di un’autentica globalità, nella quale trova spazio, insieme alle varie forme di conoscenza, il vissuto personale e sociale, con tutta la molteplicità dei rapporti e delle implicazioni che lo caratterizzano. Tra questi hanno un evidente rilievo sia le norme legislative, e quindi la politica, sia le condizioni e gli interessi della vita sociale ed economica. In realtà, se esiste una possibilità concreta di “orientare” l’applicazione al soggetto umano delle nuove biotecnologie in modo da rispettare la sua specificità e dignità inalienabile, questa possibilità passa attraverso un grande lavoro e sforzo convergente, che dia forza effettiva a questa specificità dell’uomo nel contesto globale della nostra società e sia quindi in grado di influire realmente anche sull’operare dei ricercatori e degli specialisti.
Aggiungo una considerazione assai perspicace del filosofo francese Jean-Michel Besnier, contenuta in un’intervista ad Avvenire del 1° ottobre 2009: “E’ necessaria una massiccia presa di coscienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della nascita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prerequisito per salvare l’umanità. In questo, le odierne filosofie, le spiritualità e le religioni hanno un ruolo da svolgere”.
Ha dunque pienamente ragione Aldo Schiavone a sottolineare la necessità di un’etica forte (io specificherei: in particolare anche di una bioetica forte, e aggiungerei: un’etica e una bioetica fondate su un’antropologia aperta e dinamica, ma a sua volte forte) per padroneggiare la fase nuova, e ormai iniziata, della grande avventura della famiglia umana nel cosmo.
E’ questo uno dei motivi per i quali diventa oggi sempre più necessaria quella collaborazione tra credenti in Cristo e persone comunque sollecite della conservazione e dello sviluppo, nell’attuale contesto storico, di un umanesimo autentico, della quale si è fatto promotore Benedetto XVI. Vorrei ricordare in proposito un libro dello studioso americano Francis Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, pubblicato in italiano da Mondadori nel 2002, che, partendo da presupposti culturali molto diversi dai miei, si impegna con grande serietà a indicare le vie per preservare anche nel futuro ciò che è essenziale per la nostra umanità.
Termino accennando al ruolo che può avere il cristianesimo in questa situazione storica. La nuova questione antropologica è nata in quel mondo che ha una sua essenziale matrice proprio nel cristianesimo. Non senza un rapporto profondo con la secolarizzazione di questo medesimo mondo, essa ha preso degli sviluppi che possono mettere a rischio il cuore stesso della fede cristiana – cioè la fede nel Dio trascendente e personale, nella trascendenza dell’uomo e nella sua vocazione alla vita eterna –, insieme alle basi della nostra civiltà. Oggi la questione antropologica assume sempre più una dimensione planetaria e quindi sul suo divenire influiscono ormai tutte le grandi tradizioni culturali e spirituali dell’umanità. Difficilmente però essa potrà imboccare un percorso rispettoso della specificità e dignità umana se la spinta in questo senso non verrà anzitutto dal “mondo del cristianesimo”, perché proprio in tale mondo è nata e ha preso forza quella concezione della persona umana o, come ha scritto Karl Löwith (Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, edizione italiana Einaudi 1949, p. 482), quel “pregiudizio”, secondo il quale chiunque abbia un volto umano possiede come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo. I credenti nel Dio di Gesù Cristo sono dunque chiamati a non tirarsi indietro, bensì a dare il meglio di se stessi, collaborando con ogni fautore di un umanesimo vero, che non può non essere aperto e sollecito nei confronti del progresso scientifico e tecnologico.