Il bipartitismo è morto, e anche il bipolarismo non se la passa molto bene. Non è Woody Allen. E’ il commento di Pier Ferdinando Casini all’addio di Francesco Rutelli al Pd. Della serie: missione compiuta per quanti, in fondo, in un equilibrio bipolare fondato sull’alternanza e sulla centralità degli elettori non avevano mai creduto.
Pur con tutta la considerazione per Rutelli e per il suo peso politico, il vaticinio di Casini pecca di eccessiva generosità. Volendo infatti radiografare la realtà, la diagnosi è ben diversa dallo stadio terminale cui gli animatori del Grande Centro vorrebbero condannare il bipolarismo italiano.
A sinistra, la vittoria di Bersani ha dato il via a una sorta di socialdemocrazia; una Spd in salsa tricolore, con tutte le peculiarità del caso. Non è una novità, si potrebbe obiettare. E infatti non lo è. Si tratta di un progetto già visto, e fors’anche di un passo indietro in termini di modernizzazione del sistema politico. Ma ha un pregio da non sottovalutare: è un progetto. E ha una strategia, che consiste nel formare una “grande alleanza” che includa Vendola e l’asse Casini-Rutelli, lasciando fuori l’ultrasinistra di Ferrero e passando per Di Pietro, la cui carica eversiva ci si illude così di anestetizzare. Si tratta di una visione strategica che confligge alla radice con la concezione politica su cui è stato fondato il PdL, e in origine anche il Pd. Ma anche in questo caso, ha un valore aggiunto: quantomeno è una visione strategica.
Al centro, si piazza la forza politica che si vanta di aver resistito alle lusinghe bipartisan del bipolarismo. Attrae satelliti nella sua orbita, ma gli innesti al momento non bastano all’Udc per abbandonare la sua tattica attendista. E’ probabile insomma che Casini starà a guardare ancora per un po’. E la politica delle “mani libere” annunciata per le regionali sta lì a dimostrarlo.
A destra esiste un’alleanza di governo coesa attorno alla leadership di Silvio Berlusconi. Ha retto – e bene – di fronte alla crisi mondiale, ha liberato Napoli dai rifiuti, ha dato una casa ai terremotati dell’Aquila. Ora, al centro di questa compagine, il PdL dovrà dimostrarsi in grado di selezionare una classe dirigente, e di saper difendere, istituzionalizzandola, la portata rivoluzionaria della discesa in campo di Berlusconi. Solo in questo modo si potrà esser certi che le conquiste di questi quindici anni in termini di modernità non verranno gettate via insieme all’acqua sporca di una lunga e difficile transizione. Infine, il PdL dovrà impostare un rapporto di costruttiva concorrenza con gli alleati della Lega.
Se questa è la diagnosi dell’esistente, in prospettiva si potrà immaginare una dialogo con la sinistra in termini di sistema: stabilizzare la democrazia in Italia è interesse di tutti, ed è interesse altrettanto condiviso che il confronto politico rientri nei binari della civiltà. Ha ragione Mario Sechi: l’atteggiamento del governo al cospetto della candidatura di Massimo D’Alema a ministro degli esteri europeo è un viatico, e un auspicio, per un reciproco riconoscimento fra avversari che intendono dismettere l’elmetto pur senza cessare di guerreggiare nelle sedi a ciò deputate. A patto, naturalmente, che il disarmo sia bilaterale. E ad essere in debito di buona volontà non è certo il PdL.
Con il centro, ci si potrà confrontare sui programmi e su un orizzonte di medio termine. Tattica vuole che oggi Casini lo neghi, ma sarebbe difficile immaginare che Rutelli abbia abbandonato il Pd per accodarsi a una forza destinata a esserne gregaria, magari addirittura in un caravanserraglio di stampo prodiano. E’ evidente che affinché le strade del PdL e dei centristi tornino a incrociarsi, entrambe le parti dovranno rinunciare a qualcosa in termini di “purezza” dei modelli di sistema fin qui prescelti: bipartitismo da una parte, logica di coalizione dall’altra. Ma se il PdL sarà in grado di fare tutto questo, il bipolarismo sarà salvo. Magari sarà diverso da quello attuale. E forse a Casini e Rutelli non dispiacerà.
(da Libero)