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Questo numero, ben oltre l’apparente eterogeneità dei saggi raccolti, è stato costruito seguendo un’architettura che ha tenuto conto di precisi punti di svolta e di una tesi storiografica che dal lontano passato giunge a investire l’attualità politica più bruciante. Il numero potrebbe intitolarsi «Napoli è stata e Napoli è» o, più convenzionalmente, «Napoli: passato e presente». E la «frattura» che sembra dare senso alla pubblicazione è rappresentata dall’emergenza rifiuti: una crisi più grave di quella del colera – nota nel suo articolo Marco Demarco – che ha avuto la forza dirompente di sommergere la città sotto una montagna d’ignominia facendo rinascere il pregiudizio e unendo infine in una medesima condanna, per quanto variamente modulata, la popolazione e la sua classe dirigente. È trascorso poco più di un anno dalla risoluzione della fase acuta della crisi. La sua fine ha contemporaneamente segnato sia la disfatta del particolarismo localistico nel quale appena due lustri fa l’intellighenzia non solo cittadina aveva riposto le speranze di rinascita della città, sia il ritorno dello Statocentrale. Perché, piaccia o non piaccia, sono stati il governo e la solidarietà nazionale che esso è riuscito a garantire a risolvere la fase acuta dell’emergenza e a consentire l’avvio del rigassificatore d’Acerra. Partendo da questi dati di fatto assunti dall’attualità e andando a ritroso, è possibile rintracciare la cifra complessiva del numero nonché la tesi da esso sostenuta.

A cominciare dal saggio di Giuseppe Galasso, che inaugura la sezione monografica. Si tratta, in verità, di una summa dei suoi tanti studi e de gli interventi settimanali apparsi nella rubrica che egli firma sul «Corriere del Mezzogiorno»: a lungo una voce nel deserto – in special modo in quei tempi in cui di Sud è stato politicamente ed epistologicamente scorretto parlare – che ha tenuto alta la bandiera del meridionalismo classico contro nuove mode e pretenziosi paradigmi alternativi. Galasso ricostruisce il complesso rapporto tra Napoli e la provincia dagli Angioini ai nostri giorni, non mancando di illustrare il ruolo che in questa relazione, in costante ricerca di equilibrio, ha nel corso dei secoli giocato la Sicilia. Dimostra quindi come da queste «relazioni pericolose» sia derivata la frammentazione della stessa nozione geopolitica di Meridione in una pluralità di Sud differenti, che hanno ciclicamente ricercato in un particolarismo ammantato di autonomia la via di una velleitaria salvezza. Maurizio Griffo, d’altra parte, in una carrellata dei patrioti unitari di Napoli che da Spaventa porta a Croce attraverso le figure di Turiello e Fortunato, mostra come fu anche questa consapevolezza, associata alla constatazione dello stato di arretratezza del Meridione, a far divenire uomini che erano autonomisti per convinzione, centralisti per responsabilità. E a fargli scorgere nell’Italia unita, partecipe del concerto europeo, la strada faticosa ma ineludibile affinché il Sud potesse sfuggire a un destino di degrado e miseria celato dall’autoesaltazione di una diversità antropologica che si sarebbe voluto determinata dalle particolarità di natura e di clima. Eugenio Capozzi, dal suo canto, ricostruisce come proprio questa tentazione, dopo il declino della stagione delle grandi riviste meridionalistiche («Nord e Sud» sul fronte liberaldemocratico, «Cronache meridionali» su quello marxista) e nel clima di spaesamento ideologico, in particolare della sinistra, seguito alla caduta del Muro, abbia fatto ritorno sotto le spoglie di «pensiero meridiano»: formula che racchiude analisi diverse, puntualmente ricostruite nelle loro specificità da Marco Demarco nel libro Bassa Italia, ma tenute insieme da un’urgenza tutta ideologica di negare la versione classica della «questione meridionale» e dalla conseguente ambizione di forgiare un concetto di sviluppo sensibilmente diverso da quello tramandato dai classici delle scienze sociali ed economiche.

D’altro canto, quanto sia profonda la radice di questa tentazione lo chiarisce bene Adolfo Scotto di Luzio in un saggio di grande densità su quelli che potrebbero definirsi gli incunaboli letterari del pensiero meridiano, nel passaggio epocale tra l’estinzione del mondo contadino e l’avvio del boom economico. Scotto di Luzio, in particolare, declina innanzi tutto la coniugazione tra la nozione di Sud Italia e quella dei differenti Sud del mondo così come è stata recepita nel corso del lungo Sessantotto italiano; evidenzia quindi i percorsi attraverso i quali nella cittadella del meridionalismo si è introdotto il virus del relativismo culturale, indispensabile per leggere come «diversità» i tratti di arretratezza e disumanità propri della condizione contadina nonché per far coincidere, nell’immaginario di letterati e intellettuali, «l’ideale di un mondo nuovo con un’immagine nuova del mondo». È proprio questo approdo che introduce agli ultimi due articoli, scaturiti rispettivamente dalle penne di Marco Demarco e Michele Affinito. Perché solo quest’astrattezza, che a partire dagli anni Novanta del secolo scorso dilaga nel discorso meridionalistico, spiega il disorientamento e i silenzi imbarazzati di intellettuali e analisti nel momento nel quale la loro immagine nuova del mondo si dilegua al cospetto delle emergenze del presente facendo emergere il volto deforme, feroce, a volte crudele della realtà. Il numero, come si attiene ad un’analisi eminentemente storica, non propone ricette o letture alternative. Non di meno, esso contiene la consapevolezza di collocarsi sullo sfondo di una nuova stagione del dibattito sul Meridione della quale si scorgono i segni. In tal senso, la frattura dell’emergenza rifiuti rimanda ad un altro punto di svolta che gli autori, implicitamente o esplicitamente, tengono presente: quello degli anni di passaggio dalla prima alla seconda parte della Repubblica. Vi è la consapevolezza, cioè, che il baricentro di quella svolta epocale si collocò a Nord, come reazione alla fase involutiva della «Repubblica dei partiti» che aveva visto questi ultimi perdere progressivamente il controllo dei territori e i relativi consensi al Centro-Nord e, per questo, trincerarsi sempre più fortemente nei territori meridionali dei quali gli ultimi governi di quella fase della Repubblica furono quasi per intero espressione.

Come comprensibile reazione, la nuova stagione dell’Italia repubblicana ha visto la messa in mora di ogni discussione sul Mezzogiorno e una spettacolare inversione di tendenza a livello di ceto politico di governo, tutta a vantaggio del Nord. Oggi non sono solo e tanto le emergenze a riportare la discussione sul Sud nuovamente agli onori delle cronache, quanto il fatto che si intraveda – seppure a distanza e in un contesto quanto mai problematico – la possibilità di una nuova stabilizzazione unitaria intorno al radicamento di grandi partiti nazionali. Questa, però, sarà impossibile da conseguirsi senza che un nuovo meridionalismo inizi a coniugare insieme il Sud e la Nazione, rinnovando ricette e soluzioni alla luce di vincoli e parametri imposti dalla stagione della globalizzazione. E senza che ci si ponga il problema della promozione di una nuova classe dirigente, che nel Mezzogiorno, per le ragioni storiche evidenziate, è ferma ancora alla prima parte della storia repubblicana.

Gli articoli che compongono la parte miscellanea analizzano le politiche dei «cavalli di razza» della Democrazia cristiana al cospetto di due «picchi» della «guerra fredda»: Evelina Martelli prende in esame la strategia di Fanfani di fronte alla crisi di Berlino dell’agosto 1961; Marialuisa Sergio si sofferma sulla politica morotea al tempo della «primavera di Praga». Nel suo saggio «L’Italia e la costruzione del muro di Berlino» Evelina Martelli conduce una meticolosa ricerca negli archivi italiani per analizzare gli effetti che questo evento dirompente ebbe sulla politica estera italiana, allora guidata da Amintore Fanfani. L’autrice, in particolare, cerca di spiegare le difficoltà con cui Fanfani prese atto della gravità degli eventi di Berlino dell’agosto 1961 e delle loro conseguenze. Con il suo viaggio a Mosca alla vigilia della costruzione del Muro, Fanfani tentò di assumere un ruolo meno marginale nell’Alleanza atlantica e di favorire la distensione. Alla luce della ricostruzione propostaci, però, è difficile immaginare uno statista meno pronto a trattare con Mosca. Fanfani peccò di una incredibile ingenuità rispetto al sistema sovietico. Basti citare un esempio. In un incontro con l’ambasciatore sovietico in Italia Semen Kozyrev alla fine di maggio 1961, durato cinque ore, Fanfani consigliò ai sovietici di separare gli interessi dello Stato sovietico da quelli del Partito comunista dell’Urss per iniziare a privilegiare gli interessi statali. Come primo passo suggerì la cessazione degli aiuti economici al Pci che senza quei soldi avrebbe smesso di rappresentare un pericolo e avrebbe iscritto la sua azione nel pieno rispetto delle regole democratiche.

Secondo Fanfani, che sembra non avere la minima idea del sistema partito-Stato sovietico, i rapporti italo-sovietici «senza il freno degli interessi partitici avrebbero uno sviluppo inimmaginabile». Quest’ingenuità non è estranea alle ragioni che si ritrovano alla base dell’invito in Urss. Non casualmente, l’ambasciatore Kozyrev nelle sue relazioni a Mosca sottolineò che Fanfani non solo discuteva con gli alleati occidentali le iniziative sovietiche, ma li influenzava «nella direzione favorevole ai nostri interessi». E ancor meno casualmente Kozyrev venne lodato per il successo conseguito nel «coltivare» Fanfani. Il viaggio ebbe luogo nel momento di crescente sviluppo dell’aggressività e dell’arroganza della politica estera di Chrušcˇëv, che avrebbe raggiunto il suo apice l’anno seguente durante la crisi cubana del 1962. La decisione di costruire il Muro di Berlino, invece, era stata presa molto prima del viaggio di Fanfani a Mosca e fu approvata dai leader dei paesi del blocco di Varsavia durante l’incontro del 3-5 agosto 1961, esattamente negli stessi giorni in cui Fanfani incontrava la leadership sovietica. Anche la ripresa sovietica degli esperimenti nucleari, incluso quello della superbomba di 50 megatonnellate, fu decisa prima del viaggio di Fanfani a Mosca. Il Cremlino, infatti, aveva già chiesto a Togliatti di influire su Fanfani per evitare che il governo italiano presentasse delle proposte concrete sul disarmo, limitandosi a formule di carattere generale. Martelli conferma che Fanfani credeva veramente che i drammatici avvenimenti di Berlino avrebbero potuto essere evitati se i suoi suggerimenti al ritorno dal viaggio, la sua visione del compromesso necessario con il Cremlino fosse stati immediatamente accolti dagli alleati occidentali. Fanfani nutriva l’illusione di aver aperto un canale informale di dialogo con Mosca. Martelli conclude, però, che malgrado le impressioni di Fanfani sul grande successo
della visita a Mosca, registrate nel suo diario, il viaggio non servì «a comprendere meglio la posizione di Chrušcˇëv e ad aprire una trattativa». La posizione di Mosca nel 1961 non lasciava margini di questo tipo.

Il saggio ci spiega perché la strategia di Fanfani nel periodo della crisi di Berlino destabilizzò sia la politica estera italiana verso i paesi socialisti che quella interna di avvicinamento tra Dc e Psi. La posizione di Roma risultò isolata nel contesto occidentale e confermò l’impressione sovietica dell’Italia come anello debole dell’Alleanza Atlantica. La ricerca del dialogo e della distensione con i paesi del blocco sovietico sarebbe proseguita con i successivi governi italiani. Essa si basò, però, su diverse premesse e, soprattutto, tenne conto anche dell’esperienza poco esaltante del «tentativo Fanfani». Marialuisa Lucia Sergio nel suo saggio «Il Centro perduto: Aldo Moro e i sindacalisti cristiani nella crisi del ’68» affronta il tema ancora poco esplorato del dibattito che in quel torno di tempo si sviluppò tra le varie componenti cattoliche nella Dc, cercando di individuare i confini tra quell’area gergalmente definita «catto-comunista» e il cattolicesimo democratico anticomunista. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968 ha avuto un effetto paradossale, scrive la Sergio, «accelerando il processo di avvicinamento delle sinistre cattoliche ai comunisti». La falsa lettura dell’evoluzione democratica del Pci dopo la Primavera di Praga, che senza dissociarsi dal modello sovietico aveva presumibilmente abbandonato la tesi del partito-guida, determinò un certo rafforzamento dell’atteggiamento filocomunista tra i rappresentanti del cattolicesimo di sinistra, in primo luogo nelle fila della sinistra sindacale cristiana.

Questo atteggiamento trovò la sua esplicazione non tanto sul terreno dei rapporti politici e delle alleanze sindacali quanto sul piano delle idee. Partendo da Gramsci che considerava la classe operaia come portatrice di un’etica alternativa e superiore a quella borghese e presentandosi come gli unici depositari del Concilio Vaticano II, i teorici delle correnti della sinistra cattolica analizzavano la società ed elaboravano la loro proposta come lavoratori cristiani, avanzando propositi sociali e proposte politiche caratterizzati «da un’incredibile fissità di concetti, dalla riproposizione di formule astrattissime e generiche sulla creazione dell’“uomo nuovo”». In questo contesto Marialuisa Lucia Sergio cerca di chiarire il ruolo di Aldo Moro che, seguendo da presso il suo amico e maestro Giovan Battista Montini, divenuto papa con il nome di Paolo VI, si batté contro il facile conformismo e «il gregarismo» dei cattolici di sinistra verso l’ideologia comunista, cercando di sviluppare un progetto per la Dc degno di un partito dinamico, in grado di guidare una società di massa che si faceva sempre più complessa.

(Editoriale del numero 20 della rivista “XXI secolo”, dedicata alla città di Napoli)