Il discorso di Gordon Brown, tenuto il 18 novembre a Ealing, rappresenta l’apice di un processo di forte revisione della tradizionale politica laburista della “porta aperta” sull’immigrazione e la cittadinanza.
Nell’ultimo decennio infatti un eccessivo numero di immigrati, l’utilizzo da parte loro di servizi sociali come le case popolari, la scarsa attenzione da parte delle autorità alla loro effettiva integrazione nelle realtà locali, hanno suscitato una forte reazione sociale al fenomeno migratorio. A Londra come nella provincia inglese settori crescenti della società hanno avvertito la massiccia presenza di immigrati come una minaccia al loro benessere, piuttosto che come una opportunità per l’economia britannica. La crisi economica ha accentuato questo fenomeno, evidenziando come gli immigrati rendessero più difficile per i cittadini britannici accedere a quel tipo di lavori che richiedono scarse qualifiche e comportano bassi salari. Si è quindi arrivati a frequenti manifestazioni sindacali e di piazza al grido di “British Jobs for British Workers”, e le ultime elezioni europee hanno registrato un massiccio consenso per i partiti di centrodestra che, tra le altre cose, chiedevano una politica sull’immigrazione più rigorosa.
Il discorso di Brown rappresenta una esplicita presa d’atto di questa realtà così a lungo negata dalle elite britanniche e in particolare da quelle laburiste. Quando Brown parla di cittadini preoccupati e irritati perché è più difficile trovare posti negli asili, ottenere case popolari o ricevere una visita medica, per non parlare della ricerca di un lavoro, a causa del massiccio afflusso di immigrati, si mette finalmente in sintonia con la stragrande maggioranza dei britannici che vivono questi problemi da anni e in maniera sempre più acuta. Per questo, la risposta offerta ora da Brown prevede una maggiore selezione all’ingresso che accetti solo quegli immigrati che non occupino un posto di lavoro occupabile da un cittadino britannico; un maggiore controllo delle frontiere con una effettiva politica di rimpatrio e respingimento; una tassa sugli immigrati finalizzata a pagare il supplemento di servizi sociali che la loro presenza in una certa area richiede per non ridurre le prestazioni erogate ai cittadini.
Nello stesso discorso il premier britannico affronta un tema distinto ma connesso con l’immigrazione, cioè la cittadinanza. Qui il problema è più culturale che economico, più strutturale che contingente, perché in gioco c’è il patto di cittadinanza e i fondamenti della comunità nazionale. Di nuovo, si tratta di una radicale revisione della politica laburista che ora fa sue parole d’ordine quali “doveri civili”, “responsabilità”, “valori”, “coesione nazionale”. Parole d’ordine di casa tra i conservatori britannici, e in generale nella destra europea, basati sull’assunto, finalmente esplicitato anche da Brown nel suo discorso, che se un immigrato arriva nella “casa” rappresentata dalla nuova comunità nazionale deve condividerne senza riserve i valori, rispettarne le leggi, conoscerne la lingua, e impegnarsi per integrarsi nella nuova “famiglia”. Forse Brown, e in generale le elite laburiste, hanno finalmente fatto una passeggiata ad Edgware Road dove, a due passi da Piccadilly Circus, le insegne dei ristoranti e dei negozi sono solo in arabo e non in inglese, dove le ragazze camminano con il velo o il burqa, dove i caffè sono popolati esclusivamente da uomini perché le donne non devono mescolarsi a loro. Un piccolo grande esempio di una comunità musulmana che non usa la lingua inglese, non vuole integrarsi con la società londinese che c’è appena girato l’angolo di Hyde Park, e mantiene usanze che contrastano con i valori della Gran Bretagna se non con le sue leggi. Oppure, il governo ha notato che i terroristi islamici attualmente nelle carceri britanniche sono il doppio del massimo numero di terroristi irlandesi imprigionati all’epoca dello scontro frontale con l’IRA, o forse ha letto i dati sul numero di alunni delle scuole britanniche che non parla inglese.
Il discorso di Brown prende di petto i pericoli che corre la coesione nazionale, proseguendo il percorso già intrapreso per adeguare la politica laburista ad una realtà nuova e preoccupante. Percorso che ha segnato una svolta con la riforma della legislazione sulla naturalizzazione degli immigrati approvata dal governo laburista pochi mesi fa. La ratio di questa riforma è che non basta il mero passare di pochi anni a fare di un immigrato risiedente in Gran Bretagna un cittadino, un cives che condivide non solo i diritti ma anche i doveri e i valori della civitas cui decide di appartenere. Poiché la cittadinanza è un patto e non un diritto, un patto tra stato e aspirante cittadino volto a preservare e sviluppare la comunità nazionale, è giusto che prima di firmare il contratto lo stato verifichi se la controparte ha tutte le carte in regola per essere un membro della comunità e arrecarvi beneficio: Brown ha finalmente detto chiaramente che la società britannica “da qualcosa in cambio di qualcosa, e nulla in cambio di nulla”, che è l’essenza appunto di ogni contratto. Aldilà dei meccanismi della “cittadinanza a punti” che traducono in realtà questo percorso, la logica è chiara. Se hai commesso un reato mentre risiedevi legalmente e stabilmente in Gran Bretagna, nel tuo periodo “di prova” da cittadino, sei cacciato dalla comunità che hai danneggiato ed espulso dall’isola senza se e senza ma. Se dopo cinque anni non conosci l’inglese vuol dire che non ti vuoi integrare nella comunità nazionale, perciò sei espulso senza eccezioni. Se resti disoccupato, se non contribuisci alla vita della comunità con il volontariato o altre attività socialmente utili, è più difficile ottenere la cittadinanza. Durante tale periodo di prova, gli immigrati non usufruiranno più dei sussidi pubblici per l’istruzione e delle case popolari, che fanno parte del diritto all’istruzione e alla casa proprio dei cittadini. Citando ancora Brown: “coloro che cercano di costruirsi una nuova vita in Gran Bretagna devono meritarselo”.
L’esempio più chiaro della recente presa di coscienza laburista dei problemi posti dall’immigrazione, e dell’importanza del patto di cittadinanza, sta in una frase che forse qualcuno in Italia giudicherebbe, a torto, reazionaria o razzista, ma che in realtà sta alla base della coesione e della grandezza di una nazione: “i valori britannici per noi non sono un optional, un lusso di cui si possa fare a meno. Coloro che desiderano venire nel nostro paese devono abbracciarli senza riserve e con orgoglio, come noi”.