Se per Barack Obama il 2009 non si è concluso felicemente, il 2010 non è certo iniziato sotto i migliori auspici. Lo sfumato attentato terroristico sul volo Amsterdam-Detroit del 25 dicembre ha messo in evidenza una preoccupante falla nel sistema informativo e di sicurezza americano attribuibile, secondo alcuni, non solo a un difetto di efficienza nei controlli aeroportuali e allo scarso coordinamento tra le varie agenzie di intelligence, male cronico degli Stati Uniti. Ad allentare le maglie dell’homeland security diretta dal segretario Janet Napolitano sarebbe stato altresì l’approccio adottato dall’amministrazione rispetto alla guerra al terrorismo.
Il tentativo di dissociarsi in tutte le maniere e i modi possibili dalla war on terror di George W. Bush, ha spinto Obama e la sua squadra di governo a iniziative e prese di posizione che hanno fatto e fanno discutere. La trasfigurazione lessicale subita dal terrorismo, a cui la Napolitano preferisce l’espressione “man-caused disasters”, e dalla stessa parola guerra, divenuta per il Pentagono “overseas contingency operations”; l’aver elevato la chiusura di Guantanamo e la campagna antitortura a propria bandiera ideologica, per una revisione “morale” della legislazione e delle procedure in materia di sicurezza approvate dal suo predecessore dopo l’11 settembre: tutto ciò avrebbe contribuito, da un punto di vista psicologico, a determinare una flessione nei livelli di guardia da parte degli addetti ai lavori di cui stava per approfittare il giovane Umar Farouk Abdulmutallab, il 23enne nigeriano reclutato e addestrato dall’organizzazione di Al Qaeda nello Yemen che intendeva far esplodere la sua mutanda-bomba sul famoso volo Delta diretto negli Stati Uniti.
Dopo le minimizzazioni iniziali della Napolitano, Obama, pur parlando di «errore sistemico» accompagnato da «responsabilità umane», ha ricondotto a sé ogni addebito per la strage mancata («la responsabilità finale è sempre del presidente»), non sottraendosi a quella chiarezza morale, e di conseguenza terminologica, che era valsa una macchia indelebile sulla reputazione del suo predecessore. «È bene ricordare a tutti che siamo in guerra. Siamo in guerra contro Al Qaeda», ha affermato il presidente americano, facendo suo per la prima volta il termine “guerra”, fino a quel momento bandito dal vocabolario dell’amministrazione, informato sui canoni del politicamente
corretto. In questo modo, e con un occhio all’indice di gradimento popolare (in ribasso, come poi dimostrato dalla cocente sconfitta elettorale nel feudo democratico del Massachussets), Obama ha voluto dare un’impressione di forza e autorevolezza nel timore di perdere ulteriore credibilità nelle vesti di comandante in capo delle Forze Armate statunitensi, dopo le critiche ricevute per l’attesa lunga un anno che ha preceduto il via libera alla nuova strategia per l’Afghanistan e l’invio di altri 30 mila soldati. A non giovargli è poi persino sopraggiunto l’intervento umanitario delle forze armate americane ad Haiti, finito al centro di una polemica internazionale.
Già nel discorso pronunciato in occasione del ritiro del premio Nobel per la pace, Obama aveva intuito come fosse opportuno svincolarsi dalla gabbia politica e ideologica all’interno della quale s’intenderebbe racchiudere la sua azione alla Casa Bianca, precisando che «gli strumenti della guerra hanno un ruolo da giocare nel preservare la pace», che «la convinzione che la pace sia desiderabile raramente è sufficiente a raggiungerla» e pertanto «qualche volta la guerra è necessaria» perché «il Male esiste davvero nel mondo». Il doversi misurare con la dura realtà internazionale sembra così aver spinto gradualmente Obama a impersonare la funzione di comandante in capo con una maggiore consapevolezza delle responsabilità che essa implica. Una crescita, rispetto all’Obama quasi profetico della campagna elettorale e di inizio mandato, che è anche lo specchio dei risultati effettivamente ottenuti dal nuovo corso che gli Stati Uniti avrebbero dovuto intraprendere con la sua elezione alla presidenza nel tentivo di voltare finalmente pagina dopo gli anni bui della presidenza “imperiale” e “unilateralista” di Bush.
Nel 2009, gli sviluppi della vicenda iraniana, l’andamento dei rapporti con la Russia e la recrudescenza della minaccia costituita da Al Qaeda, hanno dimostrato l’inefficacia, alla prova dei fatti, della captatio benevolentiae nei confronti del mondo arabo-musulmano, culminata nel discorso del Cairo e al limite della contrapposizione con Israele, nonché dell’enfasi ideologica posta sul dialogo e il negoziato, nella convinzione che una retorica conciliante, il richiamo a una logica cooperativa volta alla risoluzione dei problemi del mondo, insieme al valore aggiunto dell’appeal presidenziale, sarebbero bastati rabbonire nemici e avversari degli Stati Uniti. Le delicate questioni che hanno riempito l’agenda della politica estera americana nel 2009 continueranno quindi a impegnare l’amministrazione Obama anche nell’anno appena iniziato, con l’aggravante che lo svolgersi degli eventi e l’ulteriore restringersi degli spazi di manovra richiederanno molto probabilmente alla Casa Bianca l’assunzione di posizioni non più sfumate ma autorevoli e nette, cui faccia seguito una condotta determinata e improntata all’azione.
È questo soprattutto il caso dell’Iran. Sul tavolo c’è l’annosa diatriba sul programma nucleare, ma non solo. Il regime khomeinista possiede le chiavi della (de)stabilizzazione di ogni quadrante geopolitico del Grande Medio Oriente (GMO) per il tramite delle sue diramazioni regionali come Hezbollah e Hamas, dell’asse con la Siria, nonché della collaborazione con numerosi gruppi e organizzazioni che si contrappongono all’Occidente, in particolare a Stati Uniti e Israele (il Grande e il Piccolo Satana), Al Qaeda e talebani compresi. L’esito del rilancio dell’iniziativa americana e della NATO in Afghanistan, il consolidamento della stabilità in Iraq, la ripresa del processo di pace israelo-palestinese: l’Iran ha influente voce in capitolo su questi dossier e su molti altri ancora; l’ultimo a conquistare la prima pagina è lo stato lo Yemen, dove sia Al Qaeda che l’insorgenza sciita contro il governo centrale ricevono sostegno e finanziamenti dalla Repubblica islamica, che punta all’egemonia nell’area del Golfo in concorrenza con l’Arabia Saudita.
La soluzione della gran parte dei conflitti che agitano il GMO passa dunque per Teheran, con cui inevitabilmente gli Stati Uniti e gli alleati europei sono costretti a fare i conti. Nei confronti del regime khomeinista l’approccio ufficiale americano è stato tradizionalmente quello del contenimento e dell’isolamento culminato nell’imposizioni di sanzioni, laddove gli europei hanno cercato con il dialogo e la cooperazione di normalizzare le relazioni politiche e favorire l’integrazione regionale e internazionale della Repubblica islamica, incentivati da una fiorente
partnership economica. Ciononostante, volenti o nolenti e per motivi diversi, ogni presidente americano, da Carter in poi, ha dovuto intavolare negoziati con Teheran. Pertanto, il dialogo informale tra Stati Uniti e Iran non è mai venuto meno, ed è stato proprio George W. Bush a riaprire i canali ufficiali d’incontro sulla stabilizzazione dell’Iraq e il nucleare. La linea di Obama, se da un lato ha approfondito le iniziative già intraprese da Bush, dall’altro si è contraddistinta per aver collocato l’engagement diretto della Repubblica islamica al centro della sua politica estera, nel quadro della cosiddetta diplomazia della “mano tesa”. Sarebbe stata infatti l’incomunicabilità generata dal contenimento e dall’isolamento della Repubblica islamica a impedire l’abbraccio tra Washington e Teheran, mentre durante gli otto anni di Bush l’iscrizione nell’Asse del Male, la presenza americana in Iraq, la conferma dell’opzione militare per fronteggiare le sospette ambizioni nucleari iraniane e le presunte manovre finalizzate al cambiamento di regime intraprese da alcuni esponenti neocon, avrebbero come giustificato la radicalizzazione della politica estera del regime khomeinista.
Ma il tentativo di gettare acqua sul fuoco della conflittualità non ha prodotto i risultati sperati. Lettere e video-messaggi indirizzati alla leadership iraniana, l’offerta di un coinvolgimento formale nella stabilizzazione dell’Afghanistan (di concerto con gli alleati europei della NATO), il negoziato senza precondizioni sul nucleare, il muro contro muro con Israele sugli insediamenti ebraici, non sono serviti allo scopo: ovvero a quel grand bargain con Teheran sulle numerose questioni pendenti che Obama e i suoi consiglieri erano convinti di poter raggiungere con quella che è stata definita la “cura del dialogo” (talking cure). Neppure è servita la posizione di sostanziale neutralità assunta da Obama rispetto alla grave crisi interna scatenatasi in Iran per la contestata rielezione alla presidenza del fanatico khomeinista, Mahmoud Ahmadinejad. Una neutralità che ha visto Obama non prendere apertamente le parti del vasto movimento popolare e democratico che continua a minacciare la sopravvivenza della Repubblica islamica, nonostante la repressione nel sangue delle contestazioni ad opera dei pretoriani del regime su ordine della guida suprema, Ali Khamenei.
Avendo accantonato, nell’orizzonte strategico e operativo della sua amministrazione, l’arma in più delle rivoluzioni democratiche per la pacificazione del GMO, la priorità del presidente americano era di non irritare i vertici iraniani per non mandare a monte il suo progetto di giungere a un accordo complessivo. Ciononostante, da Teheran non è mai giunto alcun segnale di distensione. Il regime ha dato ancora prova di non essere intenzionato a deporre l’ascia di guerra; piuttosto, l’instabilità interna lo ha indotto ad accentuare l’azione di destabilizzazione esterna, come dimostrano gli avvenimenti nello Yemen. In quest’ottica, s’inserisce presumibilmente anche lo sconfinamento di fine dicembre in Iraq, con la breve occupazione militare di un pozzo petrolifero. D’altro canto, la ripresa ad ottobre delle contrattazioni sul nucleare ha fatto registrare il rifiuto iraniano della proposta sull’arricchimento dell’uranio avanzata dal “5+1”, in perfetta continuità con i fallimenti negoziali degli anni precedenti che hanno investito principalmente la trojka europea (Gran Bretagna, Francia e Germania).
La reazione americana è stata finora impalpabile. Il bastone delle sanzioni energetiche minacciate da Obama si è rivelato non più di una feluca; l’amministrazione ha perfino sconsigliato il senato dall’approvare il provvedimento ratificato ieri, passato in precedenza alla camera dei rappresentanti, che prevede l’inasprimento delle misure restrittive nel settore ai danni di Teheran. A questo punto, di fronte al costante avanzamento del programma nucleare iraniano, alla scoperta di nuovi siti clandestini, ai test missilistici dalla gittata sempre più lunga, al riarmo ininterrotto di Hezbollah che minaccia una nuova guerra contro Israele e, in generale, di fronte a un’accelerazione nella destabilizzazione del GMO, che farà Obama nei mesi a venire se l’Onda Verde si dimostrasse davvero in grado di determinare un cambiamento di regime in Iran? Che farà Obama se e quando, prima o poi, verrà ufficialmente riconosciuto il possesso di armamenti nucleari da parte di Teheran? Che farà se Israele dovesse lanciare il paventato attacco alle infrastrutture nucleari iraniane?
Al nodo iraniano sono strettamente legati anche i rapporti degli Stati Uniti con Russia e Cina. Nel primo caso, il famoso “reset button” regalato dal segretario di Stato, Hillary Clinton, al collega russo Sergei Lavrov, al pari della “mano tesa” verso Teheran, non ha portato i frutti sperati. La decisione di sospendere l’installazione in Polonia e Repubblica Ceca del terzo segmento del sistema di difesa missilistica americano a protezione dell’Europa, andando incontro ai desiderata del Cremlino, non è valsa il supporto russo nel dossier iraniano come invece auspicavano a Washington, alla luce dell’intreccio che lega Mosca e Teheran in un matrimonio d’interessi militari, economici, energetici, strategici. Neppure il congelamento del processo di integrazione di Georgia e Ucraina nelle organizzazioni euro-atlantiche (NATO-UE) ha convinto il Cremlino ad assicurare il proprio sostegno in sede di Consiglio di Sicurezza alla proposta americana di colpire le importazioni iraniane di carburante davanti a mancati progressi nelle trattative sul nucleare. Dalla leadership russa, e dal presidente Dmitri Medvedev in particolare, sono finora giunte soltanto vaghe dichiarazioni di disponibilità a considerare in futuro la possibilità di nuove sanzioni, non seguite però da gesti concreti.
Oltretutto, Vladimir Putin ha recentemente reso nota l’intenzione di «sviluppare un sistema offensivo» russo per far fronte allo scudo antimissile americano e «mantenere l’equilibrio [strategico]», come se l’amministrazione Obama non avesse mai bloccato il piano per lo schieramento dei famosi intercettori in Polonia e il radar in Repubblica Ceca, fumo negli occhi del Cremlino, per spostare la difesa missilistica sulle basi navali Aegis. Ciò è la riprova di quanto le lamentele di Mosca sull’aggressività dell’amministrazione Bush, che avrebbe voluto fare del territorio polacco una testa di ponte della proiezione ostile dell’Alleanza Atlantica a ridosso della Federazione russa, non fossero altro che pretesti per giustificare il ritorno a una politica di riarmo offensivo e sviluppo imperiale (e non nazionale, come aveva stabilito Boris Eltsin). Il mancato rinnovo dello START, scaduto lo scorso 5 dicembre, per un’ulteriore riduzione dei rispettivi arsenali nucleari sarebbe imputabile alla richiesta russa di includere una clausola che limiti lo sviluppo da parte americana di qualsivoglia sistema di difesa antimissile. Contemporaneamente, la Russia continuerà a sviluppare nuove testate nucleari, veicoli per il trasporto e vettori per il lancio: una «pratica di routine», secondo Medvedev.
All’amministrazione Obama premere il “reset button” con il Cremlino è servito appena a ottenerne il benestare al passaggio attraverso il territorio russo di materiale per uso sia civile che militare destinato alla missione ISAF della NATO in Afghanistan; una “concessione” che offre la misura del contributo fornito da Mosca nella stabilizzazione del paese. L’accordo raggiunto il 26 gennaio sulla rivitalizzazione della cooperazione militare tra NATO e Russia nei settori della logistica, dell’antiterrorismo, della pirateria e delle attività di ricerca e salvataggio in mare, pare assumere una dimensione di basso profilo rispetto alle più grandi questioni che minacciano la pace e la stabilità internazionali, su cui Obama, nel suo discorso alla Nazioni Unite, aveva apertamente richiesto «uno sforzo cooperativo del mondo intero». In fondo, più che la pacificazione e l’integrazione del Grande Medio Oriente, alla Russia di Putin e Medvedev sembra interessare il mantenimento degli Stati Uniti in una condizione di sovraesposizione strategica tanto a lungo quanto servirà a Mosca per recuperare il terreno perduto con Washington in termini di potenza politica e militare a livello globale. A tale scopo, l’Iran – anche dotato di armamenti nucleari – potrebbe rivelarsi un alleato molto utile per il ridimensionamento della capacità d’influenza degli Stati Uniti nell’area a vantaggio di quella russa.
Una simile ipotesi potrebbe riguardare anche la Cina. Il famoso G2 resta circoscritto alla governance economica, dal momento che della collaborazione invocata da Obama sull’Iran (nonché sul dossier nucleare nord-coreano) non vi è stata finora alcuna traccia. La scelta di non ricevere il Dalai Lama in visita negli Stati Uniti, contrariamente a quanto fatto da Bush, non è valsa ad ottenere il consenso della Cina sulle sanzioni energetiche, il cui principale fornitore di petrolio è guarda caso proprio la Repubblica islamica. Pertanto, Pechino continua a proteggere il regime
khomeinista all’interno del Consiglio di Sicurezza con l’arma del diritto di veto esattamente come Mosca. La politica della “rassicurazione strategica” ideata dalle teste d’uovo obamiane, che aveva già spinto il segretario di Stato Clinton ad affermare prima della sua visita in Cina che la difesa dei diritti umani non deve «interferire con la crisi economica globale, con la crisi dei cambiamenti climatici e con quella della sicurezza», si è dunque mostrata inconsistente sin dalle sue fondamenta: la mancanza di collaborazione di Pechino è addebitabile all’esistenza di interessi geopolitici divergenti e non all’atteggiamento dell’amministrazione Bush, accusata di trattare il governo cinese alla stregua di un competitor e non di un partner malgrado l’interdipendenza economica tra i due paesi.
La recente diatriba sulla censura imposta a Google da Pechino potrebbe allora essere interpretata come un mutamento significativo nell’impostazione dell’amministrazione americana verso le autorità cinesi. In tal modo, Obama intende forse riaffermare l’indisponibilità dei principi universali di democrazia e libertà dopo aver dato la netta impressione di essere disposto “realisticamente” a impiegarli come merce di scambio nella partita geopolitica internazionale. A ciò andrebbe ricondotta la fattura da vero comandante in capo che Obama è arrivato finalmente ad assumere in conseguenza del fallito attentato di Natale. Sono questi auspicabilmente i segni di una maturazione del presidente americano dopo un anno di rodaggio alla Casa Bianca e della fine dell’onda lunga dell’“obamamania”; i segni della presa d’atto che se gli Stati Uniti non possono risolvere da soli i problemi del mondo sono però costretti a farlo, alla luce del rifiuto di Russia e Cina di diventare partner responsabili nella risoluzione delle grandi questioni internazionali, come quella iraniana e in Afghanistan (per di più continuando a godere della sicurezza prodotta dagli Stati Uniti a livello globale), nonché della condotta evanescente di quegli alleati europei, principalmente Francia e Germania, che ad oggi hanno fatto mancare un contributo adeguato rispetto alle loro capacità nella guerra regionale che sta infiammando il Grande Medio Oriente.
30/01/2010