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La fine della presidenza di George W. Bush e l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca hanno riaperto nuovi e ampi spazi di manovra politica per il rilancio del ruolo internazionale della Russia. In particolare, al centro delle preoccupazioni del Cremlino c’è da tempo la configurazione che l’architettura di sicurezza europea ha assunto a partire dalla caduta del Muro di Berlino, con esplicito riferimento al minaccioso avanzare della NATO nel cosiddetto near abroad russo. Oggi, però, il tempo delle concessioni geopolitiche all’Alleanza Atlantica in cambio di aiuti economici e sostegno all’integrità della Federazione Russa, residuo di quel che fu l’Impero sovietico, è finito ed è giunto piuttosto il momento di reagire, quanto meno per non perdere ulteriore terreno in quella che il Cremlino considera zona di sua esclusiva influenza.

Il merito del ritorno da protagonista di Mosca in campo internazionale va senza dubbio attribuito a Vladimir Putin. Il già presidente e attuale primo ministro, con la sua determinata ascesa al potere, è riuscito a rigenerare lo spirito nazionalista e la mentalità imperiale consustanziali all’identità russa, mortificati dalla sconfitta nella Guerra Fredda del Patto di Varsavia e dalla conseguente nonché volontaria integrazione delle nazioni ex sovietiche dell’Europa centro-orientale nello spazio euro-atlantico di sicurezza, democrazia e libertà garantito dalla NATO e dall’UE.

Il ripristino del controllo degli apparati dello stato centrale sull’economia e la vita politica, unitamente a una congiuntura economica favorevole determinata dai prezzi elevati degli idrocarburi, hanno favorito il rilancio da parte del Cremlino del guanto di sfida all’Alleanza Atlantica e in modo specifico agli Stati Uniti, non percepiti nella loro funzione effettiva e naturale di primus inter pares all’interno dell’Alleanza, tanto in sede politica quanto in sede militare, bensì ancora e sempre come la potenza rivale con cui misurarsi e che si serve della NATO semplicemente per incrementare la propria influenza a scapito di Mosca, con la subordinata accondiscendenza dei suoi alleati europei. Una percezione, questa, che nondimeno resta molto diffusa in Europa occidentale trasversalmente allo spettro politico e culturale, quale perpetuazione di talune scuole di pensiero risalenti alla Guerra Fredda che fondano la propria identità su svariate forme ideologiche ed esistenziali di antiatlantismo e antiamericanismo.

Pertanto, dalla visuale del Cremlino, e non solo, assumono i contorni della minaccia agli interessi vitali di sicurezza di Mosca sia l’allargamento della NATO e dell’UE alle nuove democrazie europee, che i programmi di partenariato e cooperazione che le due Organizzazioni hanno intessuto con quelle restanti nazioni dell’Europa orientale che guardano a Occidente e non a Mosca alla ricerca di una sicurezza che sia fondata sulla piena indipendenza, sul pluralismo e la libertà d’espressione, su uno sviluppo sociale ed economico autentico, e non sulla paura e la repressione tipiche di un regime centralistico e autoritario.

Come arrestare dunque tale e incessante arretramento geopolitico? La soluzione l’aveva già individuata l’ex segretario del PCUS, Mikhail Gorbachev, che nel 1987 lancia l’affascinante idea della «casa comune europea». Presentendo la tempesta in arrivo che di lì a poco avrebbe liberato i paesi satelliti dell’Europa centro-orientale dal giogo di Mosca e del comunismo, Gorbachev parla del superamento delle divisioni, dello smantellamento degli arsenali militari, della cooperazione per la risoluzione delle controversie, come presupposti ideali di una nuova architettura di sicurezza europea, «dall’Atlantico agli Urali»; in sostanza, una sorta di ristrutturazione in senso cooperativo del bipolarismo, che garantisse a Mosca (almeno) il mantenimento dell’integrità territoriale dell’URSS e di conseguenza della sua tradizionale sfera d’influenza.

Ma con lo scioglimento dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, alla fine del 1991, ha inizio per il Cremlino una sofferta fase di ripiegamento internazionale, benché gli stati membri dell’Alleanza Atlantica in nome della stabilità dell’area preferiscano non infliggere al nemico di oltre quarant’anni di Guerra Fredda una sconfitta assoluta, riconoscendo la Federazione russa quale legittimo erede dell’URSS e rispettandone l’integrità territoriale di fronte all’alternativa di soffiare sul fuoco del separatismo nel Caucaso settentrionale. Di concerto con Gorbachev, il presidente americano, George H. Bush, promuove la formazione di «nuovo ordine mondiale», un ordine caratterizzato dall’interdipendenza e dalla collaborazione con Mosca, nella forse troppo ottimistica convinzione che la Russia non si sarebbe mai più potuta ricostituire come una minaccia alla sicurezza euro-atlantica e che sotto la guida eltsiniana avrebbe portato gradualmente a compimento il processo di transizione democratica, presupposto fondamentale per l’integrazione nella NATO e nell’UE cui aspiravano tutti i paesi europei dell’ex blocco comunista che avevano riacquistato la sovranità dal Cremlino.

Nonostante l’avvio di un percorso di stretta cooperazione che nel lungo periodo poteva lasciar sperare in una progressiva integrazione euro-atlantica – basti pensare all’adesione di Mosca alla Partnership for Peace della NATO e alla stipula con l’UE del Partnership and Co-operation Agreement, entrambe nel 1994, alla firma del NATO-Russia Founding Act nel 1997, alla nascita del Consiglio NATO-Russia nel 2002 e alla definizione dei quattro spazi comuni tra UE e Russia nel 2003 –, in corrispondenza della presa del potere da parte di Putin e della sua “squadra” di governo, il Cremlino ha decisamente riportato in superficie la sua ambizione di ridar vita a un polo geopolitico di potenza russo in grado di esercitare la sua influenza a livello regionale e globale, imponendo al tempo stesso un brusco rallentamento nel già accidentato percorso verso l’adozione dei principi universali di democrazia e libertà.

Di qui, l’avvio di un’offensiva a trecentosessanta gradi con azioni meramente provocatorie come sono stati gli attacchi cibernetici nei confronti dell’Estonia; la strenua battaglia per impedire l’integrazione euro-atlantica dell’Ucraina e della Georgia dopo le cosiddette “rivoluzioni colorate”; l’uso dell’energia come arma di ricatto politico nei confronti dell’Europa; la contrapposizione sul piano politico e della propaganda nei confronti dell’amministrazione Bush ( a partire dall’intervento in Iraq fino alla questione della difesa missilistica da schierare in Polonia e Repubblica Ceca), accompagnata dal tentativo di riequilibrare il peso degli Stati Uniti nel Grande Medio Oriente attraverso il sostegno a paesi come Iran e Siria e organizzazioni del tipo di Hezbollah e Hamas (quando l’amministrazione Bush aveva sposato la linea del laissez faire in Cecenia per ottenere l’appoggio del Cremlino nella guerra al terrorismo); l’opposizione all’indipendenza del Kosovo contro il parere della Serbia, l’ultima porta rimasta aperta per Mosca nei Balcani, in seguito però “compensata”, nell’ottica russa e non solo, dall’annessione de facto delle due repubbliche secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud quale bottino della guerra contro la Georgia dell’odiato presidente Saakhasvili nell’agosto 2008.

Una volta rivitalizzata la politica estera in termini di potenza e restituita al Cremlino la facoltà di rivendicare la parità con la Casa Bianca in sede negoziale, è stato possibile rilanciare la vecchia ma sempre utile idea della «casa comune europea» di matrice gorbacheviana. Il compito è spettato al neo eletto presidente, Dmitry Medvedev, nel discorso pronunciato a Berlino il 5 giugno 2008 in occasione della sua prima visita in Germania. Nella capitale tedesca, Medvedev parla di «nostra storia comune», «senso di identità e un’unità organica» e di «rapporto di collaborazione alla pari tra la Russia, l’Unione Europea e l’America del Nord come tre diramazioni della civiltà europea»; parla di «rispetto del diritto internazionale» e di «sistema internazionale policentrico imperniato sulle Nazioni Unite», in modo da accantonare finalmente la parentesi unipolare (che il presidente russo trova più facile denominare «bipolarismo artificiale») in favore del multipolarismo, accordando il rinnovato approccio filosofico russo alle relazioni internazionali con quello maggiormente in voga nei circoli diplomatici europei; parla di come «l’atlantismo come principio storico unico abbia fatto il suo tempo» e «l’attuale architettura europea porti ancora il marchio di un’ideologia ereditata dal passato». «Oggi dobbiamo parlare di unità tra l’intera area euro-atlantica da Vancouver a Vladivostok», spiega il presidente russo, ovvero di una nuova architettura della sicurezza europea persino geograficamente più ampia rispetto alla quella prospettata da Gorbachev.

A tale scopo, Medvedev, per cominciare, lancia l’idea di «stilare e firmare un trattato reciprocamente vincolante sulla sicurezza europea», fondato sul principio «dell’indivisibilità della sicurezza», così da estinguere la validità nei confronti della Russia dell’Articolo 5 del Trattato Nord Atlantico che stabilisce l’obbligo di mutua assistenza per i membri della NATO in caso di attacco armato contro uno o più paesi dell’Alleanza. «Potremmo pensare – precisa il volto conciliatorio della Russia post-sovietica – a un patto regionale basato naturalmente sui principi della Carta delle Nazioni Unite, che definisse chiaramente il ruolo della forza come fattore delle relazioni all’interno della comunità euro-atlantica (corsivo nostro, ndr)»; ovvero a un patto che ripristini sfere d’influenza certe e invalicabili, chiudendo la “porta aperta” lasciata dall’Alleanza Atlantica all’adesione dei paesi dell’Europa orientale.

«Per avviare la stesura di questo patto», Medvedev propone «la possibilità di svolgere un summit» a cui «dovrebbero assolutamente prendere parte tutti i paesi europei, ma come paesi a sé stanti, lasciando da parte l’appartenenza a blocchi o altri raggruppamenti»: una formula finalizzata ad escludere la NATO quale foro naturale di confronto e dialogo con la Russia, e a rilanciare l’OSCE – dove il blocco controllato da Mosca sarebbe numericamente maggioritario, i processi decisionali sono farraginosi e non esiste un sistema militare integrato considerato nemico come la NATO – quale organizzazione di sicurezza collettiva in cui dissolvere finalmente il legame transatlantico e con esso, di conseguenza, la stessa Alleanza (di cui il legame transatlantico è fondamento valoriale, culturale e politico) e il rapporto simbiotico tra NATO e UE su cui il sistema di sicurezza euro-atlantico è imperniato; un modo per spingere gli europei ad allontanarsi dagli Stati Uniti e a trovare nella Russia il suo nuovo partner privilegiato per il mantenimento della sicurezza nell’area. Il Cremlino però, come dimostrato dal conflitto georgiano, non ha certo atteso l’avvio dei negoziati per attestare ai suoi interlocutori la centralità che avranno i rapporti di forza nella definizione della nuova architettura di sicurezza europea: un modo per avvertire Washington e le altre capitali dell’Alleanza che l’intenzione russa è quella di giungere a questa nuova architettura con ogni mezzo e che è meglio scendere fin da subito a patti.

Deposte le armi con Tblisi, Medvedev tornato sull’argomento l’8 ottobre nel corso della World Policy Conference di Evian, cui hanno preso parte anche il presidente francese Nicolas Sarkozy (che nelle vesti di presidente di turno dell’UE avrebbe “negoziato” la fine delle ostilità russo-georgiane) e l’ucraino Viktor Yushchenko. «Né la diplomazia multilaterale, né i meccanismi regionali, né in generale l’attuale architettura di sicurezza europea», dichiara Medvedev, «sono stati capaci di prevenire che l’aggressione avesse luogo», con evidente allusione al fatto che sono stati i georgiani a sparare il primo colpo. Il presidente russo poi rincara la dose: «L’approccio NATO-centrico ha mostrato la sua debolezza. Da questa situazione dobbiamo trarre delle conclusioni». E le conclusioni le trae lo stesso Medvedev per tutti: «Gli eventi nel Caucaso hanno solo confermato quanto sia assolutamente giusto il concetto di un nuovo trattato per la sicurezza europea». Il trattato dovrà garantire una «equal security», basata su «tre “no”. Vale a dire, non salvaguardare la propria sicurezza a spese di altri stati. Non permettere azioni (da parte di alleanze o coalizioni militari) che possano minare l’unità dello spazio di sicurezza comune. E infine, non dar vita a alleanze militari che possano minacciare la sicurezza di altre parti del Trattato». Tradotto: no all’ingresso nella NATO di Georgia e Ucraina, no all’installazione in Polonia e Repubblica ceca del sistema di difesa missilistica per l’Europa, no all’esistenza della NATO. «Tutto quello che vogliamo è lavorare più armoniosamente insieme sulla base di un set comune di regole», conclude l’inquilino del Cremlino.

La proposta del trattato non è stata ancora ufficialmente oggetto di discussione con i paesi dell’Alleanza Atlantica, tuttavia Mosca qualcosa è riuscita a ottenere. Il «reset button» premuto dall’amministrazione Obama nei rapporti con la Russia ha comportato la sospensione dei piani per lo schieramento dello scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca, nella speranza che il Cremlino spenda i suoi buoni uffici con l’Iran khomeinista nella spinosissima questione nucleare e non opponga il suo veto nei confronti delle paventate sanzioni energetiche contro Teheran in Consiglio di Sicurezza. Per quanto lo scudo non rappresentasse in sé una minaccia reale alla sicurezza russa, gli intercettori da schierare in Polonia erano guardati con grande preoccupazione dal Cremlino. Il raggio d’azione degli intercettori sarebbe stato diretto esclusivamente a neutralizzare una minaccia di missili balistici a lungo raggio provenienti dal sudovest asiatico, cioè dall’Iran, che già possiede il più vasto arsenale di SRBM e MRBM (Short and Medium Range Ballistic Missiles) di tutto il Medio Oriente, acquisito in parte dalla Corea del Nord, e riesce a portare avanti i suoi programmi di sviluppo missilistico senza disturbo, in vista dell’acquisizione di capacità a lunga gittata su eventualmente innestare testate nucleari. Gli intercettori non avrebbero quindi consentito di colpire missili di corto e medio raggio lanciati da territori prossimi alla Polonia come quelli della Federazione russa, ma avrebbero rafforzato la presenza della NATO a ridosso del near abroad di Mosca, in un territorio di “passaggio” come quello polacco che è da sempre nelle mire dell’espansionismo russo verso l’Europa centrale. Un’eventualità che il Cremlino è riuscito per il momento a scongiurare.

Non a caso, Medvedev a Berlino ha posto grande enfasi sulla riconciliazione russo-tedesca, «importante per il futuro pacifico dell’Europa come fu […] la riconciliazione tra Francia e Germania». Il Cremlino sembra puntare infatti su una sorta di neutralizzazione de facto della Polonia, a prescindere dalla sua appartenenza alla NATO e all’UE, e sulla frontiera della Germania (la cui proiezione geopolitica s’incontra e scontra con quella russa proprio in territorio polacco, come dimostrato storicamente) quale confine virtuale tra la sfera d’influenza di Mosca e quella NATO, in attesa che nel lungo periodo quest’ultima scompaia: «La NATO finora ha fallito anche nel dare un nuovo scopo alla sua esistenza. Sta cercando di trovare questo scopo oggi globalizzando le sue missioni […] e includendo nuovi membri. Ma questa chiaramente non è ancora la soluzione», ha affermato il presidente russo sempre a Berlino.

D’altro canto, la Polonia e gli altri paesi del fu Impero sovietico, Repubbliche baltiche in testa, non intendono essere sacrificate sull’altare di qualsivoglia «unità dello spazio di sicurezza comune» immaginata dal Cremlino, temendo un ritorno di fiamma dell’Orso russo che possa minare la loro piena sovranità e indipendenza. Per questo motivo, i paesi della “nuova Europa” richiedono agli alleati della NATO rassicurazioni politiche sulla garanzia di mutua assistenza contenuta nell’Articolo 5 in chiave antirussa (che il Cremlino vorrebbe invece che fosse invalidata nei suoi confronti), e lo richiedono principalmente agli Stati Uniti, non fidandosi degli europei. La fornitura a Varsavia dell’ultimo modello di aerei 48 F-16 con il relativo supporto logistico non è stata cancellata ed è una rassicurazione bilaterale significativa circa la garanzia di sicurezza americana, muovendosi nella direzione di un rafforzamento della sicurezza nazionale russa.

Inoltre, con il viaggio di fine ottobre del vice presidente Joe Biden in Polonia, Romania e Repubblica Ceca, gli Stati Uniti hanno voluto ribadire agli alleati dell’Europa centro-orientale che non verranno usati come merce di scambio in nessun grand bargain con la Russia, anche se Mosca dovesse decidere di cooperare davvero nel dossier nucleare iraniano. «Siamo determinati ad assicurare che i nostri alleati della NATO abbiano la protezione di cui hanno bisogno, perché è un nostro obbligo solenne sotto l’Articolo 5», ha messo in chiaro Biden nel discorso pronunciato a Bucarest, «non ci sono vecchi e nuovi membri nella NATO, ci sono solo membri. Sotto l’Articolo 5, un attacco contro uno è un attacco contro tutti». Biden ha anche incoraggiato i paesi che erano stati inglobati nel Patto di Varsavia e sono entrati nell’Alleanza Atlantica dopo la fine della Guerra Fredda a supportare la battaglia delle nazioni dell’Europa orientale che ancora combattono per «realizzare la promessa di una democrazia forte» e per la piena indipendenza da Mosca, citando apertamente Moldavia, Georgia, Ucraina, Armenia, Azerbaijan e Bielorussia. La porta della NATO per questi paesi resterà aperta, con buona pace del Cremlino, così come le mire russe sul Mar Nero, che tanto preoccupano Georgia, Ucraina, Bulgaria e Romania, verranno ulteriormente tenute d’occhio grazie al dislocamento di nuove basi navali sulle coste bulgare e rumene.

La risposta russa è arrivata repentina. Il 9 novembre, sulle colonne del quotidiano italiano La Stampa, in un editoriale a doppia firma, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, trova la sponda italiana del suo omologo, Franco Frattini, molto attivo con il primo ministro Silvio Berlusconi nel favorire il raggiungimento di un punto di equilibrio tra l’Alleanza Atlantica e il Cremlino. Accantonati i vagheggiamenti impliciti nei pronunciamenti di Medvedev sul ruolo e il futuro della NATO, si torna a parlare di «casa comune europea» e «nuovo ordine mondiale»; di «rilancio politico del rapporto tra la NATO e la Russia», basato su «una partnership reale» e che soprattutto tenga conto degli «interessi di sicurezza reciproca»; di un «nuovo accordo tra Unione Europea e Russia» per il conseguimento di un «partenariato strategico non solo economico, ma anche politico», volto alla «creazione di una nuova architettura di sicurezza europea che […] potrebbe avvalersi delle sinergie tra le diverse istituzioni e organizzazioni esistenti nello spazio paneuropeo (l’OSCE, la NATO, l’UE, la CSI, l’OASC)», con un richiamo finale alla «necessità di una maggiore cooperazione tra l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Russia», nonché ai «principi contenuti nell’Atto di Helsinki (che diede origine nel 1975 alla CSCE poi ribattezzata OSCE, ndr), nell’acquis dell’OSCE e nella Dichiarazione di Pratica di Mare sul Consiglio NATO-Russia».

Mosca prosegue dunque con il suo tentativo di scardinare il sistema di sicurezza euro-atlantico imperniato sulla NATO e sull’UE, sperando di allontanare le due sponde dell’Atlantico per estromettere passo dopo passo gli Stati Uniti da un’area di vitale interesse per la sicurezza americana. In quest’ottica, la NATO resta il nemico, mentre l’UE, nonostante l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e la nomina di un presidente stabile e di un ministro degli Esteri che rafforza l’azione esterna dell’Unione, non è assolutamente considerata dalla Russia il partner esclusivo con cui interloquire in materia di sicurezza euro-atlantica, preferendole l’OSCE come luogo in cui diluire la discussione e orientare a suo favore il processo decisionale, magari facendo leva sul fiancheggiamento di qualche stato membro dell’UE disposto ad accettare la politica russa del fatto compiuto come accaduto in Georgia. È anche nella prospettiva di un potenziamento delle funzioni dell’OSCE nel campo della sicurezza a scapito della NATO che il Cremlino ha finora privilegiato le relazioni bilaterali con i singoli paesi dell’UE, in modo da sfruttarne la propensione a soddisfare i propri interessi immediati di corto respiro, legati agli approvvigionamenti energetici e/o alle opportunità di commercio e investimento in Russia, piuttosto che i propri interessi strategici vitali in una visione di lungo periodo. È stato lo stesso Medvedev a Berlino a parlare di «interessi nazionali spogliati di ogni distorta motivazione ideologica» quale «punto di partenza per tutte le parti in causa» nella stipula del trattato che dovrà dare vita alla nuova architettura di sicurezza europea d’ispirazione russa. Il rinnovo dell’accordo di cooperazione tra UE e Russia, che il ministro Frattini auspica venga siglato entro il primo semestre del 2010, andrebbe allora recepito dagli europei quale accomodamento funzionale tattico e non come partnership strategica con l’Orso russo. Sempre che si voglia tener conto della lezione impartita da oltre 40 anni di Guerra Fredda.

l’Occidentale

05/12/2009