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Ma davvero la politica si è suicidata come sostiene Filippo Rossi su Fare futuro Web Magazine? In realtà, a noi par vero esattamente il contrario. Restando sul registro un po’ necrofilo, potremmo dire che (in Italia) la politica era in uno stato di coma profondo ed oggi con grandi sforzi d enormi imperfezioni la stiamo rianimando. Il fatto è che le valutazioni generali sullo stato della politica, della democrazia, delle istituzioni sono spesso affette da gravi fenomeni di miopia e di nostalgia per il bel tempo che fu.

Non sappiamo dove abbia vissuto il professor Rossi  negli anni ottanta e novanta, ma certo in noi rimane nitido il ricordo dello stato di profondo degrado della politica in quell’orribile ventennio. Un periodo durante il quale il fenomeno politico aveva perso qualunque legame effettivo con la società che pretendeva di governare. Un periodo nel quale i partiti erano ridotti a consorterie, ad aggregazioni incoerenti di gruppi di potere. Nel quale la durata media dei governi era inferiore ai dodici mesi. Nel quale non si riusciva ad approvare nemmeno una delle riforme strutturali del quale il Paese aveva un dannato bisogno e nel quale si approvavano ogni anno centinaia e centinaia di leggi consociative (con il voto favorevole dell’opposizione) che producevano il solo risultato di far aumentare la spesa pubblica ed il deficit di bilancio. Nel quale abbiamo finanche potuto assistere alla nomina di un personaggio anonimo come Giovanni Goria a Presidente del Consiglio. Nel quale avevamo i capi delegazione di ciascun partito all’interno del Consiglio dei ministri (al punto che Craxi alla fine decise di raggrupparli in un apposito organo il “direttorio”). Nel quale le sezioni di partito erano ridotte a dopolavori per giocare a carte o a dormitori per nullafacenti. Nel quale le campagne di tesseramento erano drogate dalle logiche di potere delle correnti che portavano ad iscrivere anche i morti. Nel quale la comunicazione politica era di una noia mortale. Per non parlare naturalmente dei fenomeni di corruzione che albergavano in ogni anfratto della vita politica.

Naturalmente, accanto a tutto questo, ai margini della politica che conta vi erano le frange giovanili che coltivavano il sogno di una politica eroica, per lo più sbandierando ideologie fallimentari e dandosele (non solo metaforicamente) di santa ragione. Ma anche questo fenomeno forse più gratificante dal punto di vista estetico ha danneggiato il Paese. E non poco. Ha finito per privarci di alcune generazioni di classi dirigenti e per creare un intero ceto  di falliti, disillusi, reduci e pentiti che affolla il nostro spazio pubblico.

Ma se tutto questo è vero, allora non abbiamo nessuna nostalgia per il tempo perduto. Lo stato attuale della nostra politica e della nostra democrazia, pur con tutte le imperfezioni che presenta, ci pare – anche scontando veline, gossip e vicende giudiziarie – come un enorme balzo in avanti (e non certo secondo l’accezione maoista). La rivoluzione della seconda repubblica, la svolta maggioritaria, la caduta degli steccati ideologici, l’evoluzione in senso bipolare e maggioritario hanno fatto un gran bene all’italia. Non solo perché hanno elevato, e di molto, la capacità di risposta delle istituzioni alle domande della società civile, ma anche perché hanno restituito alla politica almeno una parte di quell’interesse e di quella partecipazione che sembravano definitivamente perduti. Naturalmente i progressi compiuti sono molto imperfetti e molto precari. Ma allora il compito della riflessione culturale e politica non è attardarsi in visioni nostalgiche e bucoliche ma piuttosto aiutare la politica a comprendere il da farsi per completare la transizione e consolidare i risultati raggiunti.

Certo la politica di oggi è assai meno affascinante se giudicata con occhi intrisi di cultura romantica e di sturm und drang. Certo sono oggi inarrivabili i livelli di fascinazione esercitati dal comandante Che Guevara (il cui faccione rappresenta – paradossalmente – uno dei prodotti di maggior successo nel mercato capitalistico globale). Ma noi siamo sempre rimasti immuni dal contagio di questa cultura. E, memori delle devastazioni  che ha causato nel seculus horribilis, non ne sentiamo alcuna nostalgia.