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Il neoconservatorismo era dato per morto, “sepolto nelle sabbie irachene”. Però continua a esistere, non soltanto ispirando la politica estera del Partito repubblicano ma anche – come affermano i suoi sostenitori – nelle scelte di Obama, che, senza alcun imbarazzo, ha abbracciato la potenza militare americana. Nonostante la sua importanza (o forse proprio per quella), i funerali di Irving Kristol, lo scorso settembre, sono passati quasi inosservati. Qualcuno si aspettava l’apparizione di Dick Cheney, ma né lui né alcun altro leader repubblicano sono andati alle esequie. Un comportamento ingrato, tenendo conto dello straordinario contributo dato da Kristol al GOP: fu lui a dare base teorica e autorità intellettuale a quello che lui stesso, alle origini, chiamava “il partito stupido”. Nessun leader repubblicano era lì, né vi era alcuno degli aspiranti candidati per il 2012; neanche Sarah Palin, che proprio il figlio di Kristol, Bill, ha aiutato a diventare un fenomeno politico.

La presenza di circa duecento persone non era insignificante, per carità, ma dentro il gigantesco santuario della Congregazione Adas Israel, costruito in un’epoca – era il 1951 – in cui gli ebrei americani della generazione di Kristol senior vollero proclamare che finalmente avevano trovato casa, appariva minuscola. Le caratteristiche panche di Borgogna erano rimaste vuote. Adas Israel è la congregazione conservatrice più potente di Washington, quella alla quale ogni ambasciatore israeliano negli Stati Uniti ha appartenuto. Quando è arrivato il momento degli elogi funebri, invece della solita parata di celebrità soltanto due persone – il rabbino e Bill Kristol –hanno parlato, e brevemente. Quaranta minuti, ed era tutto finito.

Ma la forza del neoconservatorismo, la “convinzione” intellettuale e politica (come lui stesso la definì) che Irving Kristol prima lanciò e poi guidò, non è mai stata nel numero, ma nel volume di fuoco e nella ferocia. E se il vecchio Kristol – la cui bara giaceva stranamente defilata sotto il palco, sistemata tra una bandiera americana e una bandiera israeliana – fosse stato in grado di dare un’occhiata agli astanti, sarebbe comunque rimasto soddisfatto. Perché sulle panche sedeva anche la sua progenie, non solo biologica ma soprattutto intellettuale; ed era una frazione sorprendente dei presenti.

Proveniva dalle redazioni di quelle pubblicazioni edite dai neoconservatori, come la Weekly Standard di Kristol, o per le quali i neoconservatori lavorano, come il Washington Post e il Wall Street Journal. Altri venivano dai “think tank” dove i neoconservatori si incontrano, in particolare dall’American Enterprise Institute (AEI). C’erano volti della guerra in Iraq, con la quale i neocon sono inestricabilmente coinvolti, come l’ex vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz (in una delle sue rare apparizioni pubbliche) e il primo amministratore civile del paese, Paul Bremer. Charles Krauthammer, l’appassionato e influente opinionista del Washington Post, e il politologo Francis Fukuyama (caso assai raro di neocon pentitosi e poi tornato all’ovile) non si erano parlati per anni – da quando Fukuyama aveva criticato le rosee previsioni sulla guerra in Iraq fatte da Krauthammer nel 2004 in una conferenza tenutasi all’AEI – ma la morte di Kristol li ha fatti incontrare di nuovo, sia pure in parti diverse della sinagoga. Anche l’ala più tradizionalista del partito repubblicano, quella che in un certo senso è stata sbaragliata dai neocon, ha reso il suo omaggio: George Will, che arrivò a definire la guerra in Iraq “uno sbaglio enorme”, ha presenziato rispettosamente alle esequie. Con la sua dialettica insolitamente apolitica, a volte anche soave, Bill Kristol non poteva trattenersi dal gongolare di fronte alla proliferazione dei neoconservatori: “Manipoli, legioni, orde devono sembrare, a quelli che non la pensano come noi”, disse una volta.

Come lui, molti neocon hanno ereditato le loro convinzioni di destra, piuttosto che adottarle (al contrario di Irving Kristol, per lungo tempo un democratico). Tecnicamente, non c’è niente di “neo” in conservatori come Robert Kagan, storico ed editorialista del Washington Post, o in John Podhoretz, editore di Commentary. Entrambi sono figli di padri del neoconservatorismo. In effetti, nessuna tendenza politica, in America, è più dinastica di questa. Accade come nel partito di destra israeliano Likud, le cui idee su religione, politica e mondo sono spesso condivise dai neoconservatori. L’analogia, in ultima analisi, è inesatta, però entrambi i gruppi vantano recenti legami con l’Europa e si ritengono vittime dell’Olocausto, che li ha lasciati feriti, diffidenti e, a volte, bellicosi; determinati a non essere mai più ingenui, a non fidarsi mai più delle buone intenzioni del mondo. Entrambi i gruppi hanno speso anni e anni ai margini della politica, prima di arrivare, miracolosamente, a contare nella geografia del potere; entrambi hanno generato “principi” che hanno annullato le contrapposizioni generazionali, alleandosi con i propri, regali padri. Quando Bill Kristol si è alzato per elogiare Irving, quella mattina, in realtà ne stava raccogliendo lo scettro.

Se quel giorno, a 96 ore dalla dipartita dell’89enne Kristol, aveste digitato su Google “neoconservative” (neoconservatore) e “death” (morte), avreste trovato gli annunci a lutto per il decesso – da molti anticipato, e in diversi casi desiderato – di quella dottrina. Sia da destra che da sinistra, il neoconservatorismo era considerato una forza estinta. Le sue idee, scriveva la rivista Foreign Policy, “giacciono sepolte nelle sabbie irachene”. Ma i necrologi possono risultare prematuri. In questo momento, infatti, i neocon sembrano risorti. Uno di loro, Frederick Kagan dell’AEI (il fratello minore di Robert), ha aiutato a dare una svolta in Iraq facendo pressioni per il surge, ossia un aumento delle truppe, in quel teatro. Più di recente, il presidente Obama – i cui discorsi (sfumati, multilaterali, interdipendenti) e il cui stile (autocritico, conciliatorio, collegiale) in politica estera sono un ripudio della categoricità neocon – si è incamminato sulla loro strada; o almeno, così dicono. Perché, primo, ha mandato altri 30 mila soldati in Afghanistan, quasi quanto volevano mandarne i neocon; ai quali poi il suo discorso di accettazione del Nobel – col riconoscimento della necessità di usare la forza, il cenno ai dissidenti in Iran e altrove, il parlare di bene e male – è risultato sorprendentemente congeniale.

E’ stato vissuto quasi come un segnale di riscossa il fatto che un nigeriano con una bomba nei pantaloni rischiasse di far precipitare un aereo su Detroit il giorno di Natale; per i neocon è stata una specie di rivincita, da cui hanno tratto una nuova carica. Obama, che aveva dovuto tornare in modo più ficcante sulle proprie dichiarazioni dopo un’iniziale discorso giudicato “troppo tiepido” da Bill Kristol e altri neocon, era stato – disse Kristol – “aggredito dalla realtà”. E’ stato un evidente omaggio al padre, che molto tempo fa disse che un “neocon” non era altro che un liberal al quale era accaduto qualcosa di spiacevole. “Sia che elogino Obama, sia che lo attacchino, i neocon stanno vincendo” dice Jacob Heilbrunn, curatore della National Interest e autore di They Knew They Were Right: The Rise of the Neocons (2008). “Lo vedono che sposa il surge in Afghanistan ma anche ‘morbido con i terroristi’. In entrambi i casi, il presidente finisce per dar loro argomenti”. Con Obama ulteriormente indebolito dal rovescio elettorale in Massachusetts, un tale processo non può che intensificarsi.

La resistenza dei neocon non deve sorprendere. Perché, come osservano gli storici, gli impulsi rappresentati dai neoconservatori – una visione manichea del mondo, lo zelo missionario, lo sciovinismo, l’idea che “si può fare”, l’insofferenza per le sfumature – sono vecchi come l’America, partendo da John Winthrop e proseguendo per Abramo Lincoln, Woodrow Wilson e John F. Kennedy. Certo, la vecchia matrice è andata guastandosi, e adesso bisogna chiamarsi in un modo diverso (alcuni neocon di spicco, come Wolfowitz e Richard Perle, hanno sempre respinto una tale etichetta). Ma l’argomento sul quale tanto loro stessi che i loro critici più feroci (i quali, va detto, sembrano ossessionati dal neoconservatorismo, a volte morbosamente) sono d’accordo, è che i neocon non sono affatto sul punto di andarsene.

In tutti quegli speranzosi, ma prematuri necrologi viene ricordata la storia del movimento: le sue origini nella caffetteria del City College di New York, verso la fine degli anni Trenta, dove i giovani intellettuali ebrei si incontravano per dibattere sulle varie versioni del trotzkysmo; il loro unirsi, come risposta alla minaccia mondiale del fascismo, nei New Deal Democrats; il loro spostarsi a destra negli anni Sessanta, determinato dalla delusione suscitata dalle politiche razziali e sociali della Great Society. Di loro, fu Irving Kristol quello che non mollò mai, arrivando a confluire nel reaganismo. Più o meno in quel periodo, incitato soprattutto da un altro gigante del neoconservatorismo, Norman Podhoretz di Commentary, il movimento spostò la sua attenzione principalmente sulla politica estera, opponendosi a un’intesa con l’Unione sovietica, sostenendo Israele a spada tratta, prendendo di mira i despoti arabi e i terroristi islamici – adottando sul piano internazionale, come osservato da George Will, quella caratteristica aggressività precedentemente dispensata a piene mani in politica interna.

In quest’ultima trasformazione, il neoconservatorismo alzò la bandiera dell’“eccezionalismo americano”: l’idea – in realtà, più liberal che classicamente conservatrice – secondo cui gli Stati Uniti sono moralmente più in alto di qualunque altra nazione, e si devono comportare di conseguenza; inoltre disdegna la cinica realpolitik di Richard Nixon ed Henry Kissinger, che giudica amorale, e promuove una politica estera aggressiva e muscolare, che anticipi o prevenga problemi, ma su scala mondiale (anche con mezzi militari, qualora sia necessario), e che non sia ostacolata da organizzazioni corrotte o pusillanimi come le Nazioni unite. “Consegnare la democrazia dal cassone di un Humvee” è come Stefan Halper – funzionario del dipartimento di Stato con Reagan e poi consigliere di George H.W. Bush, attualmente titolare di una cattedra a Cambridge – ha sarcasticamente definito queste concezioni.

Forse il modo migliore per misurare la perdurante influenza dei neocon è la frustrazione e la rabbia che essi riescono ancora a provocare nelle fila del Partito repubblicano. Molti dei loro bersagli – ad esempio, Kissinger e Brent Scowcroft – non vogliono parlare di loro (e questi se la godono al pensiero che Kissinger ci ha anche provato, a diventare un neocon). Un repubblicano di spicco che si colloca all’ala più liberal del partito – quella che odia ciò che vede e attribuisce al costoso avventurismo dei neocon in politica estera l’emorragia di voti sofferta dal Grand Old Party nelle elezioni presidenziali e congressuali – li chiama “parassiti”: con il loro scarso seguito elettorale, sostiene, devono attaccarsi a qualcun altro, ad esempio George W. Bush. Si tengono nascosti dietro una cappa di anonimato e il fatto che restino vivi e, soprattutto, influenti è una cosa che a un tempo indigna e desta meravigliata ammirazione nel nostro “repubblicano liberal”, che li paragona a “un’infezione che ritorna”. Aggiunge: “Sono riusciti a rendere perfetta una cosa assolutamente incredibile: prima proclamano chi sono, quanto sono potenti, quanta influenza hanno, e un sacco di gente si mette a scrivere su di loro. Poi, quando le loro politiche vengono ritenute responsabili di disastri, loro non esistono, non hanno niente a che fare con quel problema, non c’erano, insomma si comportano come ragazzini. E chiunque li attacchi è antisemita”.

“Qualunque autentico conservatore parla in privato dei neocon, e in genere non ne parla affatto bene” dice Patrick Buchanan. “Sono vendicativi, per niente collegiali… Una volta che non sei d’accordo, ti ritrovi in una guerra a morte”. Buchanan la racconta così: negli anni Ottanta, i neocon entrarono nel mondo delle fondazioni di destra e, grazie ai finanziamenti che portavano con loro, si impossessarono dell’establishment intellettuale del Partito repubblicano, costruendo contemporaneamente, a loro esclusivo vantaggio, un’elaborata infrastruttura istituzionale meglio finanziata – e più militante e monocromatica – di qualunque istituzione analoga sia schierata a sinistra. Questa struttura ha come epicentro l’American Enterprise Institute, ma si irraggia lontano fino a raggiungere istituzioni quali l’Hudson Institute (rifugio di due neocon rimasti ammaccati sotto l’amministrazione Bush, Douglas Feith e I. Lewis “Scooter” Libby) e la Fondazione per la difesa delle democrazie, diretta dal neocon Clifford May.

Persino il Council on Foreign Relations, istituzione vecchio stile dell’establishment che incarna proprio quei valori – diplomazia, moderazione, rispettabilità – tanto aborriti dai neocon, offre rifugio a due di loro: lo storico militare Max Boot ed Elliott Abrams, il funzionario di Stato ai tempi delle amministrazioni Reagan e Bush che venne giudicato colpevole di aver mentito al Congresso in merito allo scandalo Iran-contras (Bill Kristol, all’epoca capo dello staff del vicepresidente Dan Quayle, aiutò Abrams ad avere il perdono presidenziale). “Di fatto, sono a prova di fallimento” afferma Stephen Walt della John F. Kennedy School of Government di Harvard, tra i più accesi critici dei neocon. “Anche se nel tuo incarico hai sbagliato tutto e le cose che sostenevi si sono rivelate errate, non soffrirai alcuna reale conseguenza, né professionale né politica. Ritorni all’AEI o al Weekly Standard e continui ad agitarti o ad apparire nei talk-show come se nulla, ma proprio nulla fosse andato per il verso sbagliato”. Ma anche per Walt, la resistenza dei neocon è impressionante: “Bisogna farsi forza e ammirarli per come restano aggrappati alle armi, continuando a sparare senza preoccuparsi di quanto siano stati screditati”.

Diversi neoconservatori – Robert Kagan, Randy Scheunemann, Gary Schmitt – hanno giocato un ruolo importante nella campagna elettorale di John McCain. Una seconda e poi una terza generazione di opinionisti neocon, tra i quali Bret Stephens del Wall Street Journal, Frederick Kagan e Danielle Pletka dell’AEI, Jamie Fly e Dan Senor della Foreign Policy Initiative (un’altra produzione di Bill Kristol), si sta facendo adesso conoscere. Nel frattempo, i telespettatori di Fox News, che costituiscono la base del partito repubblicano, pur non essendo del tutto neocon pure, nell’ottica di una politica estera più aggressiva, trovano condivisibile la visione del mondo neocon. Il neoconservatorismo resta, come dice l’ex deputato GOP Vin Weber, “la forza intellettuale dominante nell’elaborazione repubblicana in politica estera”. I leader della scuola alternativa, quella “realista” – Kissinger, Scowcroft, Colin Powell, James Baker – stanno diventando vecchi, e tranne poche eccezioni – come Richard Haass del Council on Foreign Relations – appaiono, neanche avessero fatto un voto di castità, incapaci o persino restii a riprodursi.

“I richiami patriottici e idealistici neoconservatori possono essere più adatti ai giovani di quanto non lo sia la prudenza e il calcolo dei realisti” argomenta Justin Vaïsse, socio della Brookings Institution  e autore di un libro di prossima pubblicazione sul neoconservatorismo. “In effetti, non dev’essere esaltante per un giovane essere un realista”. Nel frattempo, è appassita l’ala isolazionista, “paleoconservatrice” dei repubblicani, quella che fa capo a Buchanan. “Molti di loro inclinano verso inquietanti stravaganze: neo confederati, razzisti, xenofobi, sono tipi poco raccomandabili” dice Max Boot, che a volte scrive pezzi d’opinione per il Weekly Standard. “I neocon sono disprezzati per essere bestie con appena qualcosa di umano che devono essere tenute in catene perché altrimenti se ne andrebbero in giro a mangiare bambini o a fare chissà quale scempio; ma quando si dà uno sguardo complessivo allo spettro del pensiero conservatore, ci si accorge che i neocon si collocano al centro. Le persone che più di ogni altro sono portavoce del Partito repubblicano, i Newt Gingriche, i Rush Limbaugh, gli Sean Hannitys… tutti loro propugnano una politica estera aggressiva”.

Nessuno ha mai fatto una conta dei neocon; i loro critici, propensi a vederli come cospiratori dietro le quinte, hanno indicato – scherzando, di sicuro – numeri risibili: 64 o 17, o forse solo sei. A volte sembrano ancora meno, e per di più incestuosi: la metà degli otto commentatori ufficiali in occasione della crociera in Alaska di Commentary erano Podhoretz (il padre Norman, sua moglie Midge Decter, il figlio John ed Elliott Abrams, loro figlio adottivo). L’ascesa di John Podhoretz all’interno del magazine è stata oggetto di grande biasimo da parte dei neoconservatori, secondo i quali si è trattato di un esempio di quel nepotismo che loro, così almeno dicono, condannano.

Stabilire chi si meriti l’appellativo “neocon” può essere faccenda scomoda, soprattutto perché in genere la gente rifugge una tale etichetta, o afferma che è senza senso o datata, o la prende come un’offesa antisemita. Sebbene ci siano state e vi siano diverse eccezioni – ad esempio Daniel Patrick Moynihan, Jeane Kirkpatrick, John Bolton – di certo i più importanti neoconservatori (o comunque gente che così è stata definita) sono ebrei, anche se è molto facile per un ebreo (quale io sono) dire una cosa del genere. In un consesso di gente educata e a modo, l’ebraicità dei neocon viene tirata fuori in maniera improvvida, imbarazzante; si tratta soprattutto di stereotipi del Web, e nelle conversazioni sull’argomento abbondano parole come “dirty” (sporco), “warmonger” (guerrafondaio) o “kike” (slang per “ebreo”, dispregiativo – ndt) insieme a storie di congreghe che si muovono nell’ombra che sembrano prese da una sorta di Protocollo dei Discendenti di Kristol.

“Neoconservatore è un termine che non si attaglia né a me, né ad alcuna persona che io conosca” dice Boot, un ebreo di origini russe educato a Berkeley privo della caratteristica mancanza di senso dell’umorismo comune a tanti neocon. “Se la domanda è ‘fai parte di questa nefanda cabala trotzkysta legata al Mossad e al Likud di Israele nonché alla Bildelberg Society, alla Commissione trilaterale e alla Regina di Inghilterra?’, la risposta è: ‘sei scemo’”. Molti neocon, prosegue Boot, non sono d’accordo l’un con l’altro, oppure non si conoscono proprio; figurarsi se possono impegnarsi in qualcosa che sia anche solo lontanamente coordinato da qualcuno. “Non c’è alcuna riunione del ‘Comitato centrale dei Neocons’ dove parliamo di cose come lustrare la nostra immagine, assoldare aziende di relazioni pubbliche o promuovere la ‘neoconologia’”.

Naturalmente, c’è chi devia dalla norma neoconservatrice. Per esempio, l’ex capo del Council on Foreign Relations, Leslie Gelb, ha detto che in 35 anni non ha mai sentito un neocon ammettere di essersi sbagliato; ma qualcuno, come David Frum dell’AEI e Joshua Muravchik di Commentary, ci sono andati pericolosamente vicini. “Che sia un po’ sbagliato o tremendamente sbagliato, fatto sta che non ci siamo mai discolpati per l’Iraq”, ha detto Muravchik. Uno a cui l’etichetta è stata appiccicata per caso è Dick Cheney, che religiosamente, intellettualmente, ideologicamente, stilisticamente e culturalmente non sembra possedere i giusti requisiti – sebbene non vi sia dubbio sul fatto che è diventato il più attivo portavoce dei punti di vista neocon (sua figlia Elizabeth e Bill Kristol hanno fondato insieme KeepAmericaSafe.com, un ulteriore tentacolo del neoconservatorismo la cui missione è – quale altra può essere? – un approccio “senza remore” alla lotta contro il terrorismo).

I neocon sono stati, con tutta evidenza, tra i principali sostenitori della guerra in Iraq. Però sottolineano che occupavano soltanto posizioni di “secondo piano” nell’amministrazione Bush, non abbastanza per poter decidere qualcosa in autonomia. Soltanto dopo l’11 settembre Bush si rivolse veramente a loro – sostengono – e solo perché erano in grado meglio degli altri di spiegare ciò che era appena accaduto, e di dire ciò che andava fatto. “E’ un’idea assurda quella secondo cui Doug Feith, Paul Wolfowitz e Richard Perle – che neanche faceva parte dell’amministrazione – stavano manipolando gente come Don Rumsfeld e Dick Cheney, inducendoli a fare ciò che non avrebbero voluto” dice Norman Podhoretz (Perle fu presidente del Defense Policy Board del Defense Department civile). “E’ stato solo l’antisemitismo alla base di tutte queste storie che ha fatto sembrare plausibile a tanta gente una storia del tipo ‘questi scaltri ebrei stanno manipolando questi stupidi goyim (gentili, ndt) al governo’… questo è il modello. Non è mai stato detto in modo tanto crudo, ma l’idea, essenzialmente, è questa”. Che fu tutta una manovra degli israeliani è qualcosa di “doppiamente assurdo”, continua Podhoretz, perché la verità è che Israele si oppose alla guerra (in effetti, dice Stephen Walt, le cose sono più complesse: Israele riteneva che l’Iraq fosse una diversione rispetto al problema principale, cioè l’Iran, ma acconsentì alla guerra dopo che Bush promise di occuparsi, in seguito, degli ayatollah).

Quando la guerra in Iraq si tramutò in un disastro, i neocon uscirono dall’amministrazione Bush, si curarono le ferite e scrissero memorie difensive. Ma sin da allora, la gran parte di loro afferma che la guerra in Medio Oriente per la quale tanto si spesero resta una buona idea; il problema è che i loro consigli furono terribilmente travisati. Tra questi c’è Boot, che già nel 2001 ammoniva che l’Afghanistan avrebbe potuto tornare a essere un “covo di terroristi” qualora Bush avesse insistito a fare la guerra solo con aerei e hi-tech, e che anche l’Iraq richiedeva un più alto numero di truppe. Nel 2006 Boot trasformò quella che Bush, apparentemente, credeva doveva essere una chiacchierata informale alla Casa Bianca con alcuni neoconservatori – tra loro anche Krauthammer e Kristol – in un severo seminario su quello che era andato storto in Iraq, che lasciò il presidente rosso in faccia e piuttosto agitato.

Un altro che non lesinava critiche è Frederick Kagan, un analista militare che ha sempre lavorato all’ombra del padre e del fratello maggiore. Nel tratteggiare e caldeggiare il surge in Iraq, il giovane Kagan ha aiutato a ribaltare l’incerto andamento della guerra e del neoconservatorismo. Nel farlo, ha prodotto un caso degno di studio sulla tenacia, la metodologia, l’intelligence, e l’efficacia dei neocon. Alla fine dello scorso anno, quando Foreign Policy rese pubblica la sua “Top 100” dei Pensatori Globali, “La famiglia Kagan” appariva, collettivamente, al 66° posto. A volte, sembra che vi siano tanti Kagan quanti neocon. In effetti, ce ne sono solo quattro: Donald (il padre), Robert e Frederick (i figli), e Kimberly (la moglie di Frederick). Donald Kagan, professore di storia a Yale, è un’autorità sulla guerra del Peloponneso, ma i suoi interessi si allargano alla guerra in quanto tale, che lui arriva a vedere, come disse una volta, “lo stato naturale della specie umana”.

Frederick in gioventù era un ragazzo sgobbone e noioso che passava il tempo ricostruendo su una carta geografica le battaglie di portata storica; conseguì un dottorato a Yale in storia militare russa e sovietica, poi insegnò guerre per dieci anni ai cadetti di West Point. Lungo la strada ha sposato Kimberly Kessler, una compagna dello Yale dagli interessi quasi altrettanto inquietanti quanto i suoi (adesso la Kessler dirige un piccolo think-tank di Washington, l’Istituto per gli studi di guerra). Sin dall’inizio Frederick Kagan, che si è sempre mostrato scettico sui metodi di guerra hi-tech che tanto piacevano a Rumsfeld, si rese conto che la guerra in Iraq era mal condotta e, con l’aiuto del generale in ritiro Jack Keane, riuscì a convincere di questo fatto anche Bush. Di qui il surge. Tra i più impressionati vi fu il generale David Petraeus, adesso a capo del Central Command. Petraeus (cui è stato conferito il Premio Irving Kristol 2010, e che per questo aprirà la conferenza Irving Kristol all’AEI, in maggio) definisce Fred Kagan “brillante”, “estremamente scrupoloso nel suo lavoro”, “un autentico studioso della storia”.

Su suo invito, Frederick e Kimberly Kagan, per l’occasione coperti da un giubbotto antiproiettile, a partire dall’aprile del 2007 hanno compiuto diverse ispezioni del teatro iracheno. Due volte, l’anno scorso, sono andati in Afghanistan, la seconda volta come sesta parte di un gruppo di dodici civili chiamato a dare consigli al generale Stanley McChrystal. I risultati cui giunse quel gruppo avvaloravano la richiesta di altri 40 mila soldati avanzata da McChrystal.

Secondo i suoi critici, alle volte Frederick Kagan mostra eccessiva fiducia nelle soluzioni puramente militari (un’accusa alla quale i neocon, molto pochi dei quali hanno fatto il militare, sono particolarmente soggetti). “Sono uomini ai quali la vita ha dato troppo e troppo facilmente, così diventa per loro molto facile vedere le nostre truppe come semplici strumenti per realizzare i loro piani” dice il commentatore di affari militari Ralph Peters, già ufficiale del servizio informazioni dell’esercito (Peters resta sorpreso e perplesso quando viene chiamato neocon. “Non ho i requisiti – ribatte: – ho servito nell’esercito, non sono stato a un college né a un’università della Ivy League, non ho finanziatori. E sono fisicamente abile”). Per parte sue, Kagan assicura di non nutrire ingenuità circa le possibilità delle armi, né si pente di aver ripreso, a volte, i generali. E sebbene sia iscritto al Partito repubblicano nonché co-editore del Weekly Standard, afferma di non essere un neocon.

Nonostante la loro rimarchevole resistenza, c’è poco trionfalismo tra i neocon. Persino quelli che si sono mantenuti prudentemente ai margini durante la guerra in Iraq si mantengono istintivamente sulla difensiva, tradendo un atteggiamento quasi patologico da outsider (qui nel senso di straniero, ndr). “Non voglio parlare con lei se sta preparando qualcosa di cattivo” è stata la risposta data da John Podhoretz a una normale richiesta per un’intervista. Il solitamente affabile Bill Kristol è stato ugualmente sfuggente. Nonostante il suo disdegno per qualunque comportamento alla Kissinger, lui ha giocato la classica carta di Kissinger: era in strada, spiegava, e quindi non disponibile. Quando lo sono andato a trovare all’improvviso – nella tana del lupo dei conservatori, al 1150 della 17ma strada di Washington nordovest, dove The Weekly Standard ha sede cinque piani più in basso dell’AEI – lui era apparentemente tornato dai suoi viaggi, ma comunque si è rifiutato di ricevermi. Nei circa tre minuti che mi ha concesso, è apparso chiaro che il solo parlare di neoconservatorismo – legittimare la semplice nozione della sue esistenza, e la sua influenza – gli risulta estremamente sgradevole.

Coloro che hanno ascoltato l’elogio di Bill al padre, quella mattina di settembre, concordano nel dire che fu uno splendido addio, quello che vorresti sentire detto per te da tuo figlio. Eppure, persino alcuni suoi ammiratori restarono stupiti. Il Bill Kristol che conoscono è un ragazzo accorto, che utilizza il suo considerevole intelletto per fini concreti. Non lo avevano mai visto, ecco, così sincero. Quelli che sono familiari con i Kristol, padre e figlio, vedono le somiglianza tra i due, in special modo il loro modo di fare arguto ed educato. Ma quel che colpisce di più sono le differenze. Come disse Rabbi Gil Steinlauf a quel funerale, Irving è stato il “perenne outsider”, incarnando così il destino perenne degli ebrei, condannati a indagare, analizzare, mantenersi retti e onesti. Bill, al contrario, è l’affermato insider, quello che formula giudizi, che intesse reti, che costruisce palazzi. Persino i suoi amici lo descrivono più come un uomo d’azione che come un ideologo.

Irving era spesso al di sopra della politica; Bill invece c’è dentro fino al collo, e le sue scelte lo hanno portato ad appoggiare Colin Powell, Gary Bauer, Alan Keyes, e la Palin. “Preferirebbe prendere una posizione audacemente sbagliata che una scontatamente giusta” dice un neocon di lunga data che vuol mantenere l’anonimato, in nome dell’amicizia tra i due. Diverse persone che conoscono Kristol descrivono il suo fervente attivismo per la Palin – condusse una vera campagna d’opinione per convincere John McCain a inserirla nel ticket repubblicano – come l’attrazione di un’adolescente, la cui scintilla si accese quando una crociera del Weekly Standard fece tappa a Juneau. Boot la mette in modo un po’ diverso: “E’ stata, credo, una fantasia fatta senza pensarci su troppo. Non credo che Bill pensasse che sarebbe davvero accaduto. Lui è il tipo di persona che dice ‘Hey, guarda quel bel volto a cui nessuno presta attenzione’”. “Bill è un mio caro amico, ma fa un sacco di cose solo per farsi pubblicità” dice un repubblicano di spicco, anche lui dietro la promessa dell’anonimato per paura di offendere Kristol. Ciò detto, è consolidata tradizione neocon (a introdurla sarebbe stato uno dei principali guru del movimento, Leo Strauss, controverso teorico politico all’università di Chicago tra gli anni ’40 e i ’50) che l’elite erudita debba crescere principi, o principesse, al principio del tutto impreparati. E’ ciò che Kristol fece a suo tempo con Quayle.

E mentre Irving Kristol era diffidente circa l’ “esportare la democrazia”, questa è diventata la grande causa di suo figlio. I detrattori di Bill Kristol amano citare le sue cantonate, ad esempio che gli sciiti e i sunniti avrebbero convissuto senza problemi. “Bill Kristol, ma non ne azzecchi mai una?” gli chiese una volta Jon Stewart. Persino suo padre se ne doleva: “Mio figlio si è sbagliato ancora”, si lamentava talvolta con gli amici di famiglia. Ma i timori del vecchio Kristol sono stati sepolti sotto la nacha, ossia l’orgoglio di un padre ebreo verso i suoi figli. Leggo il New York Times, disse una volta, solo per cercare il nome di mio figlio. Per l’infinita frustrazione dei critici di Bill, però, niente sembra toccarlo. La sua breve e infelice carriera da opinionista per il New York Times, per esempio, è stata immediatamente seguita da una collaborazione al Washington Post. Tra l’altro, nell’ambiente neocon il fiasco al Times ne ha solo innalzato la considerazione: come una volta mi ha detto uno di loro, a differenza di un presunto conservatore come David Brooks, Bill Kristol non si è “adattato” piegandosi alle inclinazioni liberal di quel giornale.

Non c’è dubbio che Bill Kristol sia attualmente il neocon più in vista e ascoltato, con una potenza e un’influenza che suo padre non ha mai avuto. Adesso appoggia Obama sull’Afghanistan. Naturalmente, non è stato facile per lui: ha dovuto cospargere il suo editoriale sul Washington Post con una serie di espressioni quali “tropo bello a metà”, “folle”, “sciocco”, “pseudo”, prima di arrivare al fatidico “Però…”. I critici potrebbero supporre che Kristol e i neocon abbiano assunto una posizione inattaccabile, che consenta loro di rivendicare i meriti nel caso la sforzo bellico di Obama abbia successo, o di biasimare le mezze misure adottate dai democratici qualora le cose si mettano male. Ma non potrebbe essere, come ha suggerito Jacob Heilbrunn, che il pensiero neoconservatore non si sia limitato a conquistare i Repubblicani, ma si sia anche infiltrato tra i Democratici?

Un funzionario dell’amministrazione Obama se la ride all’idea che i neocon abbiano potuto influenzare le deliberazioni del presidente, soprattutto per quel che riguarda l’Afghanistan. “Si potranno sentire vendicati – dice – ma se è così, allora ammettono il fatto che l’amministrazione che loro hanno religiosamente appoggiato ha sbagliato tutto”. Ciò è senz’altro vero. Ma con due guerre che vanno avanti, con aspiranti kamikaze che si riempiono la biancheria di esplosivo, con agenti doppiogiochisti che fanno brandelli di agenti della Cia, con le centrifughe degli ayatollah che continuano a girare… In altri termini, con tutti i problemi del Medio Oriente e non solo che sembrano sempre più fuori controllo, gli americani potrebbero diventare ancora più insofferenti di diplomazia e dialogo e sfumature, proprio come stanno diventando sempre più disincantati verso la politica interna di Obama. Il neoconservatorismo è vivo e vegeto, e grazie alle sue certezze, il suo fascino – seppure aiutato, forse, da un opportuno cambio di nome – continuerà, molto probabilmente, a crescere.

l’Occidentale

3 Febbraio 2010
Tratto da Newsweek
Traduzione di Enrico De Simone