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Conferenza sul clima di Copenhagen. La kermesse è finita: alle 15:28 di sabato 19 dicembre, con 21 ore e 38 minuti di ritardo, si è chiuso il vertice più inutile e grottesco che l’ONU abbia mai organizzato sino ad oggi. Con l’obiettivo di arrivare ad approvare un nuovo protocollo dopo quello di Kyoto, quasi in scadenza, 193 Paesi hanno litigato per 13 giorni di fila. Le ultime due giornate hanno visto anche la presenza di 100 capi di stato tutti pronti a sgolarsi e a discettare sul clima, nascondendo la mancanza di idee serie e realizzabili con le paillettes di promesse mirabolanti di riduzioni drastiche non prima del 2020 e, meglio, nel 2050. Tanto nessuno di loro (e nessuno di noi) potrà essere lì a verificare e, nel caso, contestare l’insuccesso, ma in cambio con i numeri si possono riempire le pagine dei giornali di oggi e catturare l’attenzione dei cittadini.

Dopo tutto questo tempo, la conferenza è arrivata soltanto a un testo fortemente condizionato e senza alcun vincolo né politico né legale. Infatti, l’Assemblea ha soltanto “preso nota” di un accordo tra alcuni Paesi che non vede nemmeno concordi tutti i partecipanti. Ancora una volta, l’accordo “globale e storico” che doveva rappresentare il punto di svolta importante nella lotta ai cambiamenti climatici si è risolto nel tipico documento vuoto di contenuti che troppo spesso caratterizza le iniziative dell’ONU in vari settori. Peggio di così le cose non potevano andare, a cominciare dalle gravi pecche organizzative che hanno ulteriormente caricato di negatività questa inutile maratona alla quale ben pochi dei partecipanti avevano creduto sin dall’inizio. E per di più, era già assolutamente ridicolo potersi aspettare che qualcosa di concreto e realistico potesse essere generato da un incontro dove erano previsti circa 15,000 partecipanti a vario titolo, già troppi in senso assoluto, e diventati 45,000.

In pochi hanno discusso di clima in termini scientifici e con cognizione di causa, ma nessuno, tranne qualche piccola ONG militante, si è posto il problema del costo economico, e soprattutto di quello energetico ed ambientale, generato da questa inutile kermesse. Ad una prima stima il summit è costato intorno ai 215 milioni di dollari; qualcosa come 140 jet privati a noleggio sono atterrati all’aeroporto di Copenhagen ogni giorno attivando anche il noleggio di 1200 limousine di lusso. Il costo economico è per difetto e forse mai se ne avrà uno veritiero. I dati  però si commentano da soli e chiedono solo che si stenda un pietoso velo sull’incongruenza tra obiettivi formali del summit e comportamenti reali degli attori che avrebbero dovuto assumere delle decisioni. Giorni fa, proprio per lo smacco organizzativo che era esploso al vertice, il ministro danese dell’Ambiente si è dimessa rimettendo il mandato nelle mani del suo Presidente del Consiglio: la signora è la stessa che assumerà a gennaio la carica di Commissario Europeo ai Cambiamenti Climatici: le premesse non sono delle migliori ma si può sempre sperare in peggio, staremo a vedere nei prossimi mesi.

Andiamo ad analizzare i risultati: c’era il tentativo, peraltro scientificamente contestato da molti esperti, di contenere in 2 gradi il riscaldamento entro il 2020 attraverso processi di verifica e controllo operativi nei singoli stati. Il tutto si riduce invece ad un testo estremamente generale che è l’espressione della volontà politica, peraltro piuttosto non univoca, dei due maggiori paesi inquinatori, USA e Cina, e delle potenze emergenti, Brasile e Sud Africa. Nella realtà, i primi due Paesi non accettano, tranne che a parole, vincoli al loro sviluppo ed alla loro economia, mentre i secondi due sono essenzialmente interessati a mantenere una già affermata leadership tra i Paesi in via di sviluppo dei quali si sono autonominati paladini.

Il gioco però non ha funzionato come avrebbe dovuto e abbiamo assistito al pianto accorato del delegato di Tuvalu che ha accusato i Paesi ricchi di gettare sul tavolo “trenta denari” per cercare di comprare i poveri: da qui l’esplosione della rivolta del blocco latino-americano a sostegno dei Paesi più deboli vittime degli interessi economici di quelli più ricchi. L’unico risultato certo è, sempre a parole almeno per il prossimo futuro, l’impegno a finanziare per 30 miliardi di euro nel triennio 2010-2012 i paesi più bisognosi e lo sviluppo di tecnologie verdi; 100 diventeranno i miliardi entro il 2020. Di tutto il resto se ne riparlerà, se tutto va bene e se si arriverà prima a confronti concreti e proposte effettivamente realizzabili, in un prossimo incontro da tenersi entro sei mesi a Bonn.

Soltanto il Segretario Generale dell’ONU ha, per dovere d’ufficio, considerato il risultato della Conferenza come positivo; c’è da domandarsi se non abbia assistito alla proiezione di un altro film o se non abbia ancora compreso di chi siano maggiormente le responsabilità di questo insuccesso planetario che mai in passato aveva visto posizioni politiche così distanti e discordanti. Eppure, un messaggio emerge chiaro da questo evento a chi lo voglia vedere: certe egemonie dell’Occidente sono finite per sempre, gli attori stanno cambiando e lo scacchiere della politica globale si sta decisamente spostando dal nord Atlantico lungo due assi: uno decisamente molto ad est verso la Cina e l’altro nel sud Atlantico. Per arrivare ad un simile risultato della Conferenza, nullo sul piano politico e legale, ma valido, forse, sul piano economico sarebbe bastata una riunione della Banca Mondiale senza la necessità di dar vita alla “migrazione” impazzita di 45,000 persone che da tutto il mondo si sono concentrate a Copenhagen. Riunioni telematiche e videoconferenze avrebbero probabilmente sortito risultati analoghi o migliori con un notevole risparmio economico e riduzione degli stessi costi ambientali.

Il migliore epitaffio sulla Conferenza è sintetizzato nella sarcastica, ma verissima, affermazione del Primo Ministro indiano: “Penso che nemmeno Obama possa tagliare il nodo Gordiano sul clima. Per i paesi in via di sviluppo è una questione di vita, per quelli industrializzati è una questione di stile di vita”. Ed infatti Obama non c’è riuscito, confermando che, forse, il Nobel alla Pace era prematuro e che in ogni caso gli era assegnato come “buon auspicio” per il futuro. Massimo Troisi in uno dei suoi film più celebri “ripartiva da 3”. Sul clima, domani si riparte da sottozero.

l’Occidentale
21 Dicembre 2009