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Anche il Santo Padre, due domeniche fa, ha espresso parole di sostegno a due delle principali vertenze aperte in questi mesi: alla Fiat di Termini Imerese e all’Alcoa di Porto Vesme.

Si tratta sicuramente di stabilimenti importanti per quanto riguarda il numero dei posti di lavoro in pericolo, ma soprattutto per il ruolo che essi svolgono nei contesti socio-economici in cui sono allocati. Paradossalmente, però, le due vertenze, che sono diventate l’emblema dell’attuale fase di crisi, avrebbero potuto esplodere e svolgersi nei medesimi termini di adesso anche durante una congiuntura economica caratterizzata da tassi di crescita di tipo cinese.

In sostanza, la crisi non c’entra quasi per nulla. Di ambedue le vicende sono protagoniste delle multinazionali che considerano l’Italia alla stregua di una delle tante possibili allocazioni per i loro investimenti, di cui tenere conto sulla base di un complesso quadro di convenienze. La Fiat ha ormai il suo baricentro tra gli Usa e il Canada; da quell’osservatorio scruta l’orizzonte del mercato dell’auto nei prossimi decenni, nel tentativo di sopravvivere in qualità di produttore. Per l’Italia ha già fatto molto spostando sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco le produzioni prima dislocate in Polonia. Termini Imerese non entra in questo disegno, a causa della sua collocazione geografica prima di tutto.

Non ha molto senso, dunque, sostenere che il Governo deve essere disposto a rifinanziare gli incentivi alla rottamazione soltanto se la Fiat “salva” Termini Imerese. Due errori messi assieme non si trasformerebbero in una scelta corretta, ma produrrebbero il duplice effetto di un mercato dell’auto “drogato” e di una Fiat inutilmente appesantita nel suo percorso – è doloroso ma è così – da un’inutile palla al piede.

E’ diverso pretendere, invece, che il gruppo partecipi alla ricerca di soluzioni alternative tali da salvaguardare quel polo produttivo e l’occupazione. A tanto la Fiat è tenuta perché deve rendere al Paese parte di ciò che le è stato concesso in molti decenni ora in termini di cassa integrazione e prepensionamenti, ora di finanziamenti a fondo perduto e quant’altro. E non può certo pretendere di selezionare i possibili nuovi acquirenti della impresa siciliana, anche se dovesse essere un produttore di automobili. Già in passato le venne concesso di impedire alla Ford di entrare direttamente nel mercato nazionale tramite l’acquisto dell’Alfa Romeo.

E’ sul terreno delle soluzioni alternative che il Governo dovrebbe fare la voce dura anziché agitare la minaccia degli incentivi. Un conto è operare, ad opera del Governo e della Regione interessata, affinché, nella località investita dallo tsunami della ristrutturazione, restino dei poli produttivi in grado di salvare le fabbriche, l’indotto e l’occupazione. E’ un impegno, questo, a cui neppure la Fiat può sottrarsi, come vorrebbe fare. Pretendere invece che quelle unità continuino a sfornare unicamente automobili – quando è più conveniente farlo altrove in qualche parte del mondo – sarebbe un’impostazione sbagliata, condannata in partenza alla sconfitta.

Quanto all’Alcoa, l’azienda – le cui produzioni richiedono un alto consumo energetico – non è più disponile a sostenere costi maggiori di quelli di altri Paesi. Il Governo italiano, a tale proposito, è vincolato dalle normative della Ue. Si tratta, allora, di portare avanti un’iniziativa molto difficile e delicata, le cui prospettive non migliorano certo se affidate a lotte esasperate, comprensibili e giustificate, ma cieche e sorde, ed impotenti.

Sarebbe sbagliato – lo diciamo al Governo e ai sindacati – attestarsi in difesa di una realtà esistente che non è più sostenibile. L’economia ha le sue leggi, che vengono prima delle considerazioni etiche ed umanitarie, alle quali deve pensare lo Stato con le politiche industriali, le politiche attive del lavoro e gli ammortizzatori sociali.

l’Occidentale.it
8 Febbraio 2010