L’ONU abbandona la speranza di mantenere la programmazione prevista per il dopo Copenhagen?
L’unico risultato concreto, un po’ pochino, che i partecipanti della kermesse di Copenhagen avevano raggiunto era quello di arrivare, per la fine di gennaio, a che ciascun paese partecipante dichiarasse l’ammontare dei gas serra che intendeva raggiungere: i paesi avanzati per l’anno 2020 mentre i paesi in via di sviluppo avrebbero dovuto soltanto indicare di quanto “intenderebbero frenare” la curva di crescita delle loro emissioni. Qui particolarmente significativo è l’uso del condizionale comparato alla richiesta del raggiungimento di un obiettivo numerico preciso per i paesi avanzati.
Risultato misero dopo tanto vociare, soprattutto alla luce del battage mediatico che ha caratterizzato la Conferenza: ebbene, nemmeno questo topolino partorito dalla montagna è soporavvissuto. Infatti alcuni giorni fa, Yvo de Boer, il massimo responsabile climatico del carrozzone ONU, ha dovuto ammettere che la data di scadenza era stata abbandonata.
In effetti, nella consueta forma felpata della diplomazia onusiana, ha informato che per la fine di gennaio i paesi avrebbero dovuto indicare se intendevano associarsi all’accordo e che i governi avrebbero potuto fornire le indicazioni richieste entro quella data o in seguito.
Arrampicandosi sugli specchi de Boer ha continuato indicando che se l’associazione non avveniva nei tempi definiti questo non significava che fosse una sconfitta perché, Sant’Ignazio da Loyola aiutaci tu, si trattava in definitiva di una “soft deadline” e che l’associazione all’accordo di Copenhagen poteva farsi anche nel seguito.
E’ raro trovarsi di fronte ad una Conferenza su di un tema oltremodo caldo, anche se largamente controverso, presentata al mondo come necessaria e strategica, che non sortisce alcun effetto se non uno striminzito documento di massima, non legalmente vincolante, e che per di più ha una data di scadenza ad ingresso continuato come al cinema di una volta, ove eventualmente se ne volesse usufruire.
Il tutto nasce dalle differenze che si erano determinate precedentemente alla Conferenza e che non erano state risolte prima di iniziare i lavori: le posizioni tra i blocchi di paesi, avanzati ed in via di sviluppo, erano troppo rilevanti per poter sperare nel miracolo di una soluzione condivisa. Il gruppo del BASIC, Brasile, Cina, India e Sud Africa, hanno mirato e mirano a risultati concreti e cogenti per i loro avversari senza, invece, voler assumere analoghe posizioni legalmente vincolanti: si riuniscono in questi giorni per definire una linea comune e dura, offrendo concessioni ridotte ai loro tagli ma contestando ai paesi avanzati le loro responsabilità storiche nell’inquinamento mondiale che necessitano tagli drastici ed a tempi brevi.
Su questi temi la geopolitica del globo sta rapidamente cambiando senza ancora trovare punti fermi: il G8 è morto all’Aquila e tutti hanno riconosciuto la necessità di considerare un G14 se non addirittura un G20. Il tentativo pre-Copenhaghen di un G2 Cina-USA ha funzionato per un poco ma si è rapidamente arenato nel momenti di dover affrontare i problemi concreti ed arrivare alla fase delle scelte; perdipiù ha creato tali malumori nei paesi del G8 e dei 27 europei che gli USA hanno dovuto fare una frettolosa marcia indietro per non offendere la permalosità dei vecchi e nuovi alleati.
Obama, nonostante i suoi sforzi ed i buoni propositi, continua a perdere consensi nel paese ed è costretto ad inseguire sempre più chimere populiste per difendere almeno le basi della sua proposta politica: tutto questo fa pensare che, probabilmente, il tema clima perderà il ruolo cardine avuto sino al dicembre scorso per rientrare come “uno” dei temi da affrontare visto anche la posizione negativa e critica del Senato USA nei confronti delle proposte presidenziali in vari campi settori.
Tutto questo fa supporre che il ruolo degli USA nelle prossime negoziazioni potrebbe essere meno rilevante preferendo un approccio verso la risoluzione dei problemi operando con politiche a rilevanza solo nazionale, come già fatto nel momento in cui non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto ma sono andati alla battaglia dei cambiamenti climatici in maniera autarchica e, spesso, efficace.
L’Europa in questo gioco resta un’incognita: i nuovi Commissari non si insedieranno se non nei prossimi mesi; il tentativo di assumere una leadership mondiale sul clima attraverso il lancio del programma 20:20:20 è pietosamente fallito; peggio, a Copenhagen gli europei, peraltro disuniti, ed incapaci di parlare con una voce sola sono stati tagliati fuori in maniera chiara da ogni vera negoziazione ritrovandosi sempre in posizioni ancillari degli attori principali così che hanno accettato, obtorto collo e malvolentieri, il documento finale.
Le chiacchiere stanno a zero e le riunioni stanno ripartendo in vista del nuovo incontro previsto verso giugno a Bonn: ci saranno passi avanti? Date le premesse seri dubbi sembrano più che ragionevoli. Questo tanto più in quanto stanno venendo al pettine le “stranezze” di alcuni risultati dello IPCC, icona climatica prima intoccabile ma oggi con molti scricchiolii e crepe nell’altare, e soprattutto la brillante e lucrosa carriera del suo presidente.
Ma di tutto questo ne parleremo prossimamente.
l’Occidentale
10 Febbraio 2010