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Pubblichiamo l’intervento del senatore Gaetano Quagliariello al convegno di Bologna “Verso una riforma: come modernizzare il sistema universitario”.

La crisi dell’università non è una prerogativa italiana. Viene da lontano. Per lo meno dagli anni Sessanta, anche se negli ultimi decenni si è aggravata e ci si è allontanati dal trovarle una soluzione.

Andando dritti al nocciolo del problema, la si potrebbe considerare crisi di una istituzione tradizionale, in un mondo in veloce e profonda trasformazione. In Italia, questa situazione ha presentato delle aggravanti: ha dovuto scontare la complessiva debolezza istituzionale; si è confrontata con i vincoli di bilancio pubblico strettissimi; e ha subìto le conseguenze di un’azione di governo spesso di breve respiro, non fosse altro che a causa del rapido alternarsi delle compagini ministeriali.

Il modello tradizionale di università aveva fra i suoi elementi fondanti la separatezza e la cooptazione: si trattava di un’istituzione che si autogovernava e autoperpetuava, e che, per questo, si teneva il più possibile al riparo da quel che accade nel mondo esterno.

Oggi quel modello non è più perseguito. All’università si richiede di interagire col mondo esterno, di seguirne se non addirittura di anticiparne i cambiamenti, oltre che di esserne sottoposta al vaglio. Insomma, all’università si chiede di “stare sul mercato”. Separatezza e cooptazione sono principi che hanno perso legittimità. E questo mutamento si riflette nelle pressioni che ogni giorno sono esercitate sul docente universitario, al quale si richiede di essere al contempo didatta, ricercatore, manager attento alle esigenze del mercato, fund raiser, eccetera. E si riflette poi, a un livello meno nobile, sulla politica di comunicazione seguita da troppi atenei, intenta a promuovere il prodotto quasi si trattasse di una saponetta Camay.

 

Bisogna che l’università modifichi il suo paradigma, cedendo a queste spinte che vengono dall’esterno? A questo quesito risponderei, al tempo stesso, sì e no. Sì perché il modello tradizionale, in primo luogo, era effettivamente in eccessiva disarmonia con il tempo presente. Esso, inoltre, consentiva che si aprissero troppe nicchie e sinecure. Sotto il manto della separatezza e della cooptazione, insomma, si celavano (e continuano a celarsi) pigrizie e clientelismi: meno forse di quanto non si pensi, ma certo in misura non irrilevante.

Tuttavia, l’università, almeno in una certa misura, deve restare un luogo astratto e isolato, nel quale a chi ne ha le capacità sia consentito di ragionare “fuori dal tempo”: di produrre quei ragionamenti che non servono ad altro che a far crescere la cultura, a far progredire la scienza, e che potranno avere conseguenze pratiche di grande momento, ma in forme e in tempi affatto imprevedibili. Inoltre, l’università, almeno in una certa misura, dell’autogoverno e della cooptazione non può del tutto fare a meno. Finora non sono stati trovati meccanismi di governo migliori.

Serve dunque un punto di equilibrio fra tradizione e modernità. E, bisogna affermarlo con chiarezza, sin qui esso non è stato trovato. Le caotiche, ripetute, contraddittorie riforme degli ultimi anni – dalla zoppicante e incompiuta autonomia universitaria ai mille provvedimenti che l’hanno limitata o negata nei fatti, alla riforma localistica dei concorsi, fino al “3+2” che ha scardinato l’antiquata ma solida laurea quadriennale e non si capisce bene cosa abbia messo al suo posto – non hanno risolto la crisi dell’università. Semmai l’hanno aggravata.

 

La riforma localistica dei concorsi ha sostituito alle indiscriminate chiusure nel reclutamento delle aperture indiscriminate, creando nei fatti una progressione per anzianità e fedeltà all’istituzione. Non ha consentito un’autentica selezione e ha bloccato quella mobilità del corpo docente che concedeva al sapere universitario un’apertura universale, e incoraggiava il contaminarsi tra scuole e culture.

L’autonomia si è tradotta in molti casi non in possibilità di dirigere gli atenei secondo piani meditati di sviluppo, ma nello sfascio dei bilanci. In tal senso, il caso dell’Università di Siena svegliatasi un mattino con più di duecento milioni di debiti in attesa è solo la punta dell’iceberg.

Il “3+2” ha reso l’università assai meno selettiva e ha creato una smisurata proliferazione di corsi – oltre che di duplicazioni fra triennio e biennio (anche se, bisogna pur ammetterlo, ha reso i percorsi di studio più liberi e flessibili). E il tutto, infine, si è spesso tradotto per i docenti in un aumento della quantità di lavoro e abbassamento della qualità della vita, senza che ciò abbia comportato crescita né qualitativa né quantitativa della loro produttività.

La soluzione

La soluzione più in voga per correggere queste storture e per approdare al mitico equilibrio, sponsorizzata dalla pubblicistica e battuta da molti governi (e in ciò, lo dico con il rispetto che si deve alle tesi verso le quali si è antagonisti, le ricette del ministro Mussi rappresentano quasi un idealtipo) è stata la soluzione dirigistica: gravare gli atenei di regole, vincoli, controlli a valle, provando per questa via a rendere virtuose le università e i professori universitari.

Io ritengo questa una via sbagliata, da abbandonare. Non si può chiedere a un’istituzione di agire strategicamente e reagire alle trasformazioni dell’ambiente e al contempo negarle la libertà necessaria a queste azioni e reazioni.

Sono un sostenitore della via opposta: dare agli atenei la massima libertà possibile, controllando con rigore ma a monte, ex post, al momento del raggiungimento della vetta, il loro operato. Per far questo è necessario costruire un sistema efficace e severo di incentivi e disincentivi per chi della propria libertà faccia un uso buono o cattivo: modello – sia detto per inciso – utilizzato con successo in Gran Bretagna fin dalla fine degli anni Ottanta. In quegli anni con il professor Pombeni mi recavo a studiare ad Oxford: il tempio del modello tradizionale. Sono stato testimone diretto delle feroci reazioni suscitate nei colleghi inglesi da quel cambio di paradigma. Oggi, dopo più di vent’anni, si può dire che quelle reazioni erano ingiustificate e che quel mutamento era necessario. Ora come allora è possibile spingere, attraverso gli incentivi e disincentivi di cui sopra, per un verso gli atenei a rispondere alle richieste che provengono dall’ambiente loro circostante; per l’altro verso, a costruire all’interno degli atenei dei percorsi di eccellenza, entro i quali sia possibile produrre ragionamenti e ricerche, almeno in una certa misura, “fuori dal tempo”.

Il disegno di legge dell’ottobre 2009

La riforma approvata dal consiglio dei ministri lo scorso ottobre e adesso all’esame del Parlamento, risponde a queste esigenze? A me pare che muova nella giusta direzione, anche se in essa sono ancora presenti elementi di dirigismo e burocratismo.

Sia detto senza infingimenti: al cospetto di una difficile transizione, una certa dose di ambiguità – il conservare alcuni elementi dell’ancien regime – può essere necessaria. Può aiutare, insomma, a rendere meno traumatico il cambiamento. Proprio per questo il provvedimento alla nostra attenzione avrebbe la possibilità di diventare un provvedimento ottimo se, nel corso dell’iter parlamentare, l’equilibrio fra controlli ex ante e controlli ex post fosse modificato a vantaggio dei secondi, se certe regolamentazioni di dettaglio fossero sfrondate, se alcune procedure fossero semplificate, e se fosse definita con chiarezza una road map verso la graduale sostituzione dei vincoli dirigistici con un sistema liberale di incentivi e disincentivi.

Quel che ci porta a considerare assai positivamente la base di partenza che questo provvedimento ci propone può essere sintetizzato in quattro punti:

a) L’enfasi sulla valutazione ex post, con la costruzione di un sistema di incentivi e disincentivi per atenei e singoli docenti: legati ai finanziamenti per gli atenei, e agli scatti stipendiali e alla partecipazione alle commissioni di concorso per i docenti. Questa, come s’è detto, la via maestra verso una modernizzazione del sistema universitario che ne rispetti la specificità e quel che è rimasto della tradizione;

b) la lista aperta di idoneità nazionale: sistema di controllo complessivo della qualità dei cooptati che limita ma non annulla la libertà degli atenei di cooptare chi ritengano opportuno, sotto la propria responsabilità;

c) la semplificazione della struttura interna degli atenei, con l’abolizione delle facoltà: riduzione di duplicazioni, burocratismi, organi collegiali, semplificazione delle procedure decisionali e quindi anche dell’attribuzione di responsabilità;

d) la riforma della governance degli atenei, perché accentra il potere, rendendo più chiara l’attribuzione di responsabilità, maggiore la possibilità di indirizzo dell’ateneo e minore la possibilità di gestioni caotiche e finanziariamente scriteriate come quelle che abbiamo visto negli ultimi anni.

Un esame critico come quello che si deve compiere in una fase di avvio della discussione impone però, accanto agli aspetti positivi, di segnalare anche alcuni limiti nella prospettiva di possibili correzioni. A me sembra che l’impianto della legge, nel suo complesso, presenti ancora un’impronta fondamentalmente dirigista. Non è, come si è detto, un male in sé: nell’attesa che il meccanismo di incentivi/disincentivi ex post vada a regime, il legislatore ha deciso di conservare e in qualche caso di rafforzare i vincoli ex ante per evitare che il sistema possa scivolare verso l’anarchia. Per far sì però che questa contraddizione diventi una felice ambiguità è comunque necessario riportare i vincoli a priori entro limiti compatibili.

E’ necessario fare uno sforzo anche su un altro aspetto: dopo aver disciplinato minuziosamente la governance degli atenei, la legge non può tacere sulla sostanza della composizione del consiglio di amministrazione. Vale la pena chiudere il cerchio e stabilire dove debba essere il “manico” delle università, garantendo che gli atenei non vengano presi per fame da Regioni, fondazioni bancarie, poteri più o meno forti.

Per quanto riguarda il reclutamento, abbiamo sostenuto che la lista nazionale è un elemento di grande positività. Bisogna però rendere i meccanismi di selezione meno complessi e meno burocratici. Al momento è previsto che, per scegliere all’interno della lista, i dipartimenti debbano costituire una commissione e poi votare sul risultato della commissione. Si può ritenere tutto ciò un eccesso di procedura.

Infine, un tasto dolente: il carico di lavoro dei docenti. La legge lo porta a 1500 ore, compresa l’attività di studio. Chi è stato all’interno di un’università sa quanta distanza vi è tra quanti che “tirano la carretta” e per i quali 1500 ore rappresentano un incredibile sconto, e quanti, invece, sono sostanzialmente latitanti e il loro impegno accademico tradotto in ore è pari alla temperatura di Lamezia Terme riportata dal meteo: non pervenuta.

Queste differenze devono gradatamente emergere attraverso il sistema di incentivi e disincentivi. Ma fissare un limite temporale per l’attività di studio e di ricerca è pura demagogia. Si stabilisca dunque il monte ore della didattica, in particolare quella frontale, e si prevedano sistemi per controllarlo. Ma si lasci inalterato quell’antico principio per il quale la ricerca e lo studio si possano e si debbano fare in piena libertà di tempo e di luogo. Se fissassimo la norma per la quale si studia e si ricerca solo nelle sedi istituzionali, saremmo tutti più poveri.

Da questa disamina discende, di conseguenza, la direzione verso la quale ci si dovrebbe muovere per migliorare il provvedimento in Parlamento, senza stravolgerlo e senza massimalismi. L’esperienza delle riforme passate dovrebbe averci insegnato che il meglio è nemico del bene.

Ben venga dunque qualsiasi emendamento vada nella direzione di irrobustire il sistema di incentivi e disincentivi ex post. Così come è possibile sfrondare più di un articolo che presenta eccessi di burocraticità: sui numeri dei dipartimenti o dei professori afferenti ai dipartimenti; sulla governance degli atenei; sui rapporti fra interni ed esterni nelle chiamate (anche questo potrebbe essere sostituito con un sistema di incentivi/disincentivi ex post: se chiami degli esterni guadagni punti);

Il sistema concorsuale va poi semplificato: una volta presa l’idoneità, si vada a chiamata nominativa dal consiglio di dipartimento e basta. Poi interverrà il sistema di premi e punizioni ex post. Sarebbe a tal proposito auspicabile che per un certo numero di anni dopo un concorso i commissari siano considerati “responsabili” della performance di quelli che hanno fatto vincere, e premiati o penalizzati a seconda del loro comportamento.

Infine, una volta che il secchio sia stato riparato, bisognerà pure versarci qualcosa dentro. In Francia e Germania si stanno investendo miliardi di euro nei poli di eccellenza. Noi dobbiamo recuperare il ritardo. Contemporaneamente alla riforma, dobbiamo metter mano al sistema di alta formazione sorto spontaneamente assumendo questi anni di spontaneismo come una fase di sperimentazione e riportando il meglio di quest’esperienza a fattor comune. E’ l’unico modo per evitare che queste istituzioni si trasformino in nuove baronie o in dependance di questo o quell’ateneo.

Inoltre, la federazione tra atenei dev’essere precondizione per un grande programma di centri di eccellenza che eviti le sovrapposizioni e stimoli in senso positivo la concorrenza.

Questa legislatura si è inaugurata con la classe accademica intenta a chiedere soltanto più soldi e un governo ingiustamente accusato di tagliare in modo indiscriminato, per penalizzare la cultura e ceti che tradizionalmente gli sono stati ostili. Questa contrapposizione iniziale è stata superata. Bisogna dare atto al ministro Gelmini di essere riuscita a far comprendere che la riforma implicava il mettersi in discussione, ma che tale atteggiamento non era inteso né come una punizione né come un pegno da pagare. Si è così instaurato un nuovo clima, e questa proposta ne è il più evidente risultato. Se sapremo condurla in porto con cura, migliorandola ulteriormente, rafforzando la collaborazione e la comprensione reciproca, potrà veramente essere una svolta. Anche al di là del suo significato legislativo.

Bologna, 12 febbraio 2010