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Il disegno di legge sembra a prima vista rispondere alla aspettativa di molti: finalmente un progetto organico di riconsiderazione delle funzioni e dell’organizzazione del sistema universitario. Ma questo solo a prima vista. Se si guarda con attenzione si comprende subito che il progetto risponde soltanto in parte alle aspettative toccando unicamente alcuni segmenti, per quanto di grande rilievo,  dei problemi che ci interessano. E questo con luci ed ombre.

Appare positivo il proposito di promuovere il merito, introdurre procedure di valutazione, disposrre criteri per l’accreditamento degli atenei, disciplinare il reclutamento dei docenti in due tempi, a livello nazionale e locale. Ma nel complesso il disegno di legge soffre di una evidente macchinosità e di un eccesso di disciplina analitica che meglio andrebbe lasciata alla fase regolamentare e agli statuti. Del tutto ingenua è l’idea di portare avanti radicali modifiche dell’attuale regime “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”. Come sia credibile alimentare il Fondo di rotazione fra atenei senza un concorso finanziario aggiuntivo non è comprensibile. Cervellotico attribuire la responsabilità del Fondo per il merito degli studenti migliori appoggiandolo al ministero dell’economi tramite la Consap che ha zero competenze nel settore dell’istruzione.

C’è però da fare una importante osservazione di premessa. Questo è un disegno aperto, non è un testo normativo congegnato con la tecnica del prendere o lasciare. Il fatto che il Governo abbia scelto la strada del disegno di legge destinato a passare al vaglio delle commissioni parlamentari è indubbiamente una fatto positivo in quanto c’è una ragionevole prospettiva di poter introdurre utili emendamenti E lo svolgimento delle analisi presso  la Commissione Istruzione del Senato sembra confermare questo rilievo. E infatti nelle riunioni fino ad oggi tenute (9 dicembre 2009 e 4 e 10 febbraio 2010) per esaminare il progetto il presidente Possa ha proprio sottolineato il dato della disponibilità a introdurre alcuni significativi emendamenti.

C’è quindi una ragionevole speranza che alcune delle storture che oggi balzano agli occhi siano eliminabili non solo per il concorso delle opposizioni ma anche per intervento della maggioranza di governo con l’aspettativa che il Ministro accetti le modifiche.

Ma quali sono le premesse che dovrebbero tenersi presenti per introdurre una riforma seria del sistema universitario? Direi in prima battuta che occorrerebbe prendere atto dello stato comatoso della ricerca, delle carenze dei sistemi di selezione e valutazione dei docenti, delle carenze nell’ammissione degli studenti, della insufficienza dei finanziamenti. Tutti deficienze ben presenti a chi si occupa di università. Ma prima ancora occorre capire che tipo di università si vuole: una università di eccellenza o una università come quella che conosciamo in cui chi la governa deve limitarsi a gestire l’esistente assicurando la gestione delle carriere dei docenti e del personale e assistendo impotente all’ingresso e alla permanenza a tempo indeterminato di masse di studenti demotivati e destinati in larga percentuale a non terminare gli studi?

Non è da stupirsi se con tali premesse oggi la nostre università tocchino il fondo delle classifiche internazionali e che quindi salvo lodevoli eccezioni per qualche sede non stiano al passo degli standards di eccellenza internazionali e siano poco appetibili per gli studenti stranieri.

Inoltre è altrettanto noto il livello bassissimo di preparazione di larghe schiere di studenti che giungono a ottenere il titolo formale di diploma ma che sono a un livello obiettivamente insufficiente di preparazione. Qui entra il problema della mancata selezione all’ingresso e della disattenzione per quel requisito di merito che la Costituzione pretende ma inascoltata. Qui emerge l’illusorietà della scelta legislativa che ha ritenuto di risolvere i problemi elevando il numero annuale dei laureati, con conseguente immissione nel mondo delle professioni di persone spesso dequalificate.

Sull’indirizzo che le università dovrebbero seguire nel disciplinare l’acceso degli studenti il disegno tace ed è questa una delle più macroscopiche carenze che denotano una fuga dalla realtà e dalle responsabilità dell’attuale classe politica che in questo settore continua a ignorare il problema con gravissime conseguenze sulla possibilità di recuperare in termini di efficienza e serietà del sistema. E’ su questa carenza che devo soffermarmi.

L’accesso indiscriminato degli studenti alla università è uno dei punti critici che interessa oggi la maggior parte delle facoltà, con esclusione di quelle che hanno adottato il numero chiuso. L’accesso è indiscriminato, affidato alla unica scelta dell’aspirante o della sua famiglia. Non ci sono filtri selettivi all’ingresso. Le pagine informative sui percorsi di studio fornite dalle università non hanno che scarso significato per instradare gli aspiranti. Ciò comporta l’afflusso di un numero elevato di iscritti che sono costretti ad abbandonare gli studi dopo i primi esami al secondo o terzo anno. In pratica la selezione viene fatta a scapito dell’interesse dello studente, che perde anni di lavoro, dei docenti, che si disperdono su un numero elevato di studenti che seguiranno sempre in modo inadeguato, del sistema, che disperde le scarse risorse su soggetti destinati all’abbandono.

Questo sistema è del tutto irrazionale, frutto della demagogia del legislatore di qualsiasi segno politico, che continua a considerare certe facoltà come aree di parcheggio. In tal modo l’università funziona come area in cui incanalare persone disadattate o disorientate che il sistema della istruzione preuniversitaria non ha saputo o voluto finalizzare alla professione.

Il sistema è non solo demagogico e antieconomico ma a ben vedere è contrario al dettato  costituzionale. Secondo la Costituzione, che evidentemente viene invocata soltanto quando fa comodo, solo “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34). Il diritto non l’hanno coloro che non sono né capaci, né meritevoli. Lo stato avrebbe quindi dovuto disciplinare modalità di verifica dei titoli necessari per l’ammissione ai “gradi più alti degli studi” che nel nostro sistema sono quelli universitari e non certo le accademie o le istituzioni di alta cultura e di ricerca. Questa lacuna ha provocato nei decenni passati un autentico disastro a cui abbiamo tutti fatto assuefazione: la cosiddetta università di massa, concetto che non qualifica il numero alto (il che sarebbe positivo) ma la bassa o bassissima qualità del livello degli iscritti che obbliga a un insegnamento orientato verso il basso (per essere accessibile alla “massa”) e non verso l’alto come dovrebbe essere secondo il dettato costituzionale.

La battaglia politica per il numero chiuso collegato a una effettiva selezione alla ammissione – e quindi assolutamente senza automatismi, non esistendo un diritto quesito alla immatricolazione – potrebbe essere il cavallo su cui puntare con l’obiettivo di una qualificazione degli studi universitari. A questo si aggiungerebbe una proposta organica per introdurre un sistema di sussidi e incentivi che consentano l’accesso dei capaci e meritevoli privi di adeguati mezzi economici. Con ciò rispettando il dettato costituzionale che prevede che il diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi è reso effettivo “con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (sempre l’art. 34, comma 4).

E’ evidente che qualora si riuscisse a far varare un sistema rispettoso del dettato costituzionale si otterrebbe un risultato di giustizia sociale in quanto i migliori studenti, ove privi di risorse, si vedrebbero riconoscere l’aiuto dello stato per potere compiere il curriculum universitario. Ad un tempo logica vorrebbe che tutti quegli studenti che possono permettersi di affrontare i costi della iscrizione e della frequenza pagassero per il servizio della istruzione in modo adeguato e correlato a una logica di mercato. Cesserebbe quindi l’attuale  meccanismo del tutto illogico previsto dalla attuale legislazione in cui le tasse universitarie sono del tutto inadeguate a pagare il servizio, rischiano di essere alte per qualcuno ma sicuramente sono irrisorie per la maggioranza degli iscritti. Le università dovrebbero finanziarsi essenzialmente tramite il corrispettivo del servizio pagato da chi può permetterselo e integrato soltanto in via accessoria dai trasferimenti ministeriali.

A questo punto l’attenzione si sposta su un altro versante, quello della autonomia delle università che attualmente è compressa dalla uniformità di criteri imposti alla organizzazione e funzionamento dalla legislazione e dal ruolo del ministero. Il disegno di legge richiama la nostra attenzione su un vecchio problema: quello dei rapporti fra centralizzazione ministeriale e autonomia.

La Costituzione ci ricorda che le università hanno “diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalla legge dello stato” (articolo 33 u.c.). Si tratta quindi di capire quale debba essere l’equilibrio fra legge statale e autonomia racchiusa negli statuti. Il disegno a questo proposito sembra imperniato su una idea forte del potere legislativo che intende dare regole molto stringenti sulla organizzazione rimodellando tutti gli organi di governo in modo uniforme. La tensione che ne scaturirà tra propositi del legislatore e le diverse università, con la loro spinta a una autonomia sostanziale e non di facciata è già oggi evidente e sicuramente è destinata a salire nei prossimi mesi.

Ciò detto, quali osservazioni propositive aggiungere? Se uno degli scopi fondamentali della nuova legislazione deve essere la razionalizzazionedell’esistente con l’introduzione di modifiche finalizzate alla efficienza del sistema, occorrerebbe insistere per un modello che veda una ampia libertà di scelte quanto alla politica degli studenti (programmi, oneri di iscrizione, rigore dei criteri valutativi…), della ricerca dei docenti da utilizzare, delle strutture organizzative e simili.

Occorrerebbe quindi creare un sistema competitivo fra università che avesse a riferimento l’obiettivo della qualità in modo da creare un mercato dei titoli rilasciati che diverrebbero ambiti in base a una graduatoria che si formerebbe su un criterio esclusivamente qualitativo. Ovviamente cesserebbe l’automatismo del valore legale di qualsiasi titolo di studio rilasciato dalla miriade di sedi universitarie e ogni titolo finirebbe per avere il suo valore e la sua appetibilità (da spendere verso i potenziali studenti da ammettere, verso i docenti da assumere, verso il mondo del lavoro e della ricerca). Scomparirebbe in tal modo l’assurdo della equiparazione del diploma rilasciato da una sede universitaria seria con quello rilasciato da università fantoccio, quali sono alcune pubbliche e private che vivono ai margini di accettabilità da parte della comunità scientifica nazionale.

E’ chiaro che un indirizzo di tal tipo è inconciliabile con la politica di recente avvalorata dagli organi di governo secondo cui l’obiettivo da raggiungere è quello dell’aumento del numero dei laureati. La riforma che ha voluto il 3+2 e le lauree brevi è del tutto inutile sul piano della riduzione dei tempi di permanenza degli studenti nella università ed è del tutto dequalificante perché ha ulteriormente abbassato il livello di formazione dei diplomati. Inoltre l’aumento dei laureati non ha niente a che fare col miglioramento del progresso scientifico ed economico. Purtroppo la verifica del degradare del livello del “prodotto” delle nostre università la troviamo periodicamente quando i giornali pubblicizzano la graduatoria della qualità delle università a livello europeo o mondiale. Ci accorgiamo allora come le pompose affermazioni dei ministri, dei parlamentari e della Conferenza dei Rettori vadano a picco di fronte alla realtà dei valutatori internazionali, alcuni dei quali sicuramente obiettivi e affidabili.

Opportunamente come previsto dal disegno di legge, la selezione del personale docente dovrebbe seguire nuovi percorsi tendenti ad evitare i fenomeni verificatisi con l’espletamento dei concorsi in sede locale, che hanno visto una incontrollata proliferazione dei posti banditi, al di fuori di qualunque programmazione su scala nazionale, nonché un vistoso decremento della qualità del personale selezionato, anche in considerazione della estrema frammentazione dei criteri di valutazione adottati dalle singole commissioni di concorso. In tal modo anche la scarsa qualificazione professionale dei docenti ha drammaticamente contribuito a peggiorare la qualità della preparazione degli studenti. Le procedure di selezione devono pertanto assumere nuovamente carattere nazionale.

Il sistema competitivo della formazione dovrebbe collegarsi a quello della ricerca e quest’ultimo a quello della ricerca applicata, nei settori in cui questa più incisivamente rileva, dando quindi un contributo alla crescita economica del Paese. Qui si apre il capitolo del finanziamento della ricerca, della politica da seguire per gli enti di ricerca, del concorso fra privato e pubblico, tutto un settore su cui la proposta non incide.

Per concludere esprimo la fiducia che veramente il disegno di legge di cui ci occupiamo sia considerato una proposta aperta ai contributi migliorativi  promessi dal presidente Possa. C’è spazio per riconsiderare l’assetto complessivo della governance intervenendo su quanto ora scritto a proposito del rapporto fra attribuzioni del senato accademico e del consiglio di amministrazione e del numero e dei criteri di designazione dei rispettivi componenti. Ad un tempo va ripensato il rapporto fra legge e statuti. C’è da chiarire il ruolo da lasciare alle facoltà in rapporto ai dipartimenti. Anche qui non sarebbe male lasciare più spazio all’autonomia delle singole sedi. A proposito dei criteri di valutazione occorre lasciare agli atenei la valutazione dei docenti e all’Anvur quella degli atenei. Va rivisto il regime del Fondo per il merito prevedendo un finanziamento pubblico ma va estesa la normativa sui criteri di merito applicandola alla selezione all’ingresso degli studenti e non prevedendolo soltanto con riferimento agli studenti già entrati faticosamente in un circuito virtuoso in cui abbiano potuto emergere nonostante l’appesantimento della zavorra di non meritevoli che irresponsabilmente si continua a far affluire nelle università.

(Il testo dell’intervento su “Reclutamento, Sistema di finanziamento, Risorse e Governance”, tenuto dal Professor Giuseppe de Vergottini – ordinario di Diritto Costituzionale all’università di Bologna, durante il convegno della Fondazione Magna Carta sulla riforma dell’università).