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Intervento di Gaetano Quagliariello, Vicepresidente del gruppo Pdl al Senato e Presidente Onorario della Fondazione Magna Carta, al convegno “Diritti, sicurezza e libertà”, che si è svolto lunedì 10 maggio 2010 presso il Tribunale di Bari.

Cari amici,

grazie innanzi tutto per avermi invitato a questo dibattito. In questo momento sono molto utili occasioni di approfondimento per fare chiarezza su un tema estremamente delicato che la contingenza della lotta politica espone purtroppo a fraintendimenti quando non a vere e proprie operazioni di disinformazione.

Nella discussione sulle intercettazioni, infatti, entrano in gioco principi costituzionali di primaria importanza, che il legislatore deve preoccuparsi di bilanciare e gli attori a vario titolo chiamati in causa dovrebbero tenere bene a mente. Cosa che non sempre accade. Al contrario, la coperta dei diritti costituzionalmente garantiti viene tirata da una parte e dell’altra, non di rado in maniera strumentale, e spesso dando prova di vero e proprio strabismo.

Non mi nasconderò dietro un dito, e come primo esempio vorrei citare proprio un caso di stretta attualità. Nei giorni scorsi autorevoli quotidiani nazionali, prendendo spunto dalla concomitanza tra alcune inchieste che hanno attirato l’attenzione dei media e la discussione in Senato del disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche, hanno lanciato un allarme: se fossero state già in vigore le norme che Palazzo Madama si accinge ad approvare – è stato scritto – del caso Scajola non avremmo saputo niente. Ergo: il Parlamento vuole imporci la solita legge-bavaglio a tutela della “casta” e a salvaguardia di una presunzione d’impunità.

Il riferimento è alla proposta contenuta nel ddl in discussione che pone un argine alla pubblicazione degli atti giudiziari riferiti alla fase delle indagini preliminari: a una fase nella quale, insomma, le tesi dell’accusa non hanno ancora incontrato neppure un giudice a verificarne l’attendibilità. E il riferimento è anche al fatto che Claudio Scajola abbia ritenuto di spogliarsi della veste di ministro senza che nessuna autorità giudiziaria avesse formalizzato nessun addebito nei suoi confronti, ma sulla esclusiva base di articoli giornalistici la cui pubblicabilità il ddl in questione è accusato di voler comprimere.

Il richiamo di fondo, dunque, è all’evocatissimo articolo 21 della Costituzione, alla libertà di espressione, al diritto di cronaca, al diritto dei cittadini di essere informati. Tutti principi che ovviamente non sono in discussione. Ma è sorprendente che negli stessi giorni in cui il caso Scajola veniva preso a pretesto per dimostrare l’indimostrabile – ovvero che il ddl sulle intercettazioni comprimerebbe diritti di rango costituzionale – nessuno dei sedicenti custodi della Carta fondamentale si sia accorto, e voglio sottolinearlo di fronte a un uditorio così qualificato, che un altro articolo della stessa Carta veniva calpestato nel generale disinteresse. Mi riferisco all’articolo 111, architrave del “giusto processo”, in nome del quale – cito testualmente – “nel processo penale la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”.

E invece Claudio Scajola, mentre gli organi di stampa diffondevano atti d’accusa a suo carico, al punto tale da indurlo per senso di responsabilità a rassegnare le dimissioni da ministro, non era iscritto sul registro degli indagati. Indagato di fatto a mezzo stampa, si trovava al di fuori di quel sistema di garanzie che consente a un cittadino di conoscere tempestivamente e con precisione, dall’autorità giudiziaria e non dai giornali, quali siano le contestazioni che gli vengono mosse; che implica differenti modalità d’interrogatorio e un diverso metro di giudizio nella valutazione delle dichiarazioni che vengono rese; che impone alla magistratura parametri rigorosi nella fissazione della competenza territoriale.

Nulla è accaduto di tutto questo, e nessuno è sembrato scandalizzarsene.

Cosa testimonia questo esempio? Che la Costituzione è un testo complesso e articolato. Che i diritti dei cittadini sono cosa ben più seria di una battaglia di bandiera o di una rivendicazione corporativa. Che spesso un diritto confligge con un altro in un sistema a somma zero, e il legislatore ha il dovere di sottrarsi alla legge di chi strilla di più, perché se nella ricerca di un necessario equilibrio un diritto finisce col tracimare sull’altro, e una libertà finisce col comprimerne un’altra, vi saranno dei cittadini ai quali le garanzie fondamentali saranno inevitabilmente negate.

In gioco, nel dibattito sulle intercettazioni, vi sono tre esigenze, tutte sacrosante: quella delle indagini, quella della cronaca e quella della libertà dei cittadini. Ma in Italia si assiste a uno strano paradosso. Sentiamo molto parlare delle prerogative di chi indaga, perché associazioni e sindacati di magistrati se ne fanno portavoce e i mass media – forse per una sostanziale convergenza d’interessi – ne trasferiscono le istanze presso l’opinione pubblica. Sentiamo ancor più parlare della libertà d’informazione e del diritto dei giornalisti di pubblicare qualsiasi atto d’indagine, perché di fronte a ogni ipotesi di regolamentazione in materia si assiste a rumorose levate di scudi. Ma molto poco si sa, perché non riconducibile nello specifico ad alcuna categoria, del diritto diffuso di tutti i cittadini a vedere preservata la propria privacy e la propria onorabilità, a non subire processi mediatici preventivi. E se un governo e una maggioranza, accanto al diritto d’indagine e al diritto di cronaca, provano a farsi carico anche della libertà personale dei cittadini senza ledere né le inchieste giudiziarie né l’informazione, ecco pronte le accuse di voler creare sacche d’impunità e tenere il popolo all’oscuro delle manovre della “casta”; addirittura, di voler aiutare la criminalità organizzata.

Non siamo ipocriti: è evidente che se tutti i telefoni fossero sotto controllo per 24 ore al giorno verrebbero scoperti molti più reati, e le possibilità di sfuggire alle maglie della giustizia sarebbero ridotte al minimo. Ma dobbiamo chiederci se è questo il Paese che vogliamo. Se il modello al quale ispirarci debba essere la DDR raccontata nel film “Le vite degli altri” o piuttosto la grande democrazia americana dove a fronte di una popolazione cinque volte superiore a quella italiana il volume annuo delle intercettazioni è pari a meno di un cinquantesimo (sono circa 100mila gli intercettati ogni anno in Italia, e circa 1.700 negli Stati Uniti).

Io credo che per affrontare correttamente questo tema complesso sia necessario un approccio laico. In caso contrario, il rischio è che in nome di questa o quella libertà – magari della libertà di stampa, o della libertà d’indagare senza confini – si insinuino nella nostra società nuove striscianti oppressioni.

C’è bisogno insomma di una buona dose di empiria e approssimazione. Anche perché la storia si è incaricata di insegnarci che una legge può essere buona quanto si vuole, ma se il legislatore manca di interrogarsi sull’uso che ne viene fatto, si rende responsabile di imperdonabili omissioni dalle conseguenze talvolta drammatiche. Lo abbiamo visto ad esempio con la legge sui collaboratori di giustizia. Lo stesso vale nel campo delle intercettazioni. Perché se noi prendessimo in mano il codice che ne regola attualmente l’utilizzo, ci accorgeremmo che la legge fissava in origine determinati paletti che decenni di ripetuti abusi e un progressivo sfaldamento del sistema delle garanzie hanno di fatto scardinato.

Non credo, ad esempio, che fra le intenzioni originarie che hanno ispirato il legislatore e gli stessi Padri costituenti vi fosse quella di consentire a una Procura della Repubblica che indaga sulle carte di credito di intercettare e trascrivere una conversazione telefonica in cui il presidente del Consiglio parla del suo divorzio. Non credo che fosse previsto che uno strumento d’indagine eccezionale e altamente invasivo potesse essere utilizzato alla ricerca di reati come una rete nella pesca a strascico. Non credo che fosse previsto un così plateale spregio per la riservatezza delle persone non coinvolte nelle indagini. E non credo neppure che l’indiscriminato abuso delle intercettazioni telefoniche fosse mai stato immaginato come arma di lotta politica.

Eppure tutto questo è accaduto. Ed è dovere della politica assumersi la responsabilità di comprendere come sia stato possibile, e intervenire sulla legislazione per sanare gli interstizi nei quali l’abuso più facilmente può annidarsi. Sono convinto che da una rivisitazione delle norme che sovrintendono all’utilizzo delle intercettazioni e da una più rigorosa disciplina della materia tutti abbiano da guadagnare. A cominciare dalla qualità stessa della nostra democrazia, e anche da quella credibilità del sistema giudiziario che una minoranza di magistrati ha così profondamente minato. Ripristinare un sistema di regole e garanzie che prevenga le storture e delimiti con chiarezza procedure, competenze e prerogative, è il primo passo per ricondurre i rapporti tra giustizia, politica e la stessa opinione pubblica entro i binari della fisiologia.

L’auspicio dunque è che tutti i soggetti coinvolti sappiano scendere dalle rispettive barricate, mettere da parte visioni parziali e contribuire a questa opera di composizione di diversi diritti e di diverse libertà nella quale il Parlamento – ben lungi dall’aver operato accelerazioni, come da più parti si sente dire – è impegnato da molti mesi.

Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, senza furbizie. Il governo e la maggioranza l’hanno fatto, e ancora nelle ultime settimane in Senato hanno dato prova di disponibilità al confronto e apertura a modifiche anche importanti sul testo. Altrettanta responsabilità ci si attenderebbe dalle categorie che dal ddl si sentono colpite.

Dal mondo dell’informazione, che dovrebbe mostrarsi più consapevole delle conseguenze che un uso non equilibrato del proprio potere e della propria influenza può determinare sulla vita e sulla libertà dei cittadini.

E dalle rappresentanze dei magistrati, che sollecitate a dar conto della sostanziale impunità di cui godono i responsabili delle fughe di notizie su atti riservati d’indagine, sono solite replicare addossando per lo più la propalazione indebita su altri attori come la polizia giudiziaria o gli avvocati, senza minimamente accennare a un’autocritica, ad esempio, sulla ormai abituale produzione di ordinanze elefantiache di centinaia e centinaia di pagine in cui vengono riversate in quantità industriale trascrizioni di intercettazioni telefoniche non sempre fondamentali all’atto di cui si dispone l’esecuzione ma così destinate a divenire di pubblico dominio. Basti a tal proposito ricordare cosa è avvenuto negli anni scorsi tra Potenza e Reggio Calabria per comprendere che un cambiamento di rotta si impone.

Insomma, è il momento che ognuno scenda dalla propria torre d’avorio e rinunci ai propri ideali astratti per confrontarsi con la realtà. Perché troppo spesso in nome di categorie assolute si è finito col comprimere la libertà delle persone. Riprendiamo in mano la Costituzione, senza omissioni né pagine strappate. Scopriremo che talvolta il fine della politica è il perseguimento di un nobile compromesso tra istanze diverse e tutte legittime. E noi siamo pronti a sporcarci le mani.

Grazie.