Ci sono almeno tre episodi significativi che suggeriscono come all’interno della comunità scientifica attualmente non ci sia un consenso generale sulla questione del global warming. Nel luglio del 2009, una ricerca apparsa sull’autorevole rivista scientifica Nature Geoscience ha evidenziato che il riscaldamento climatico non è legato unicamente all’incremento di biossido di carbonio. La ricerca spiega che solo la metà del riscaldamento registrato durante il grande cambiamento climatico globale avvenuto circa 55 milioni di anni fa può essere riconducibile a un eccesso di CO2 nell’atmosfera terrestre. All’epoca, le temperature medie aumentarono di circa 13 gradi in un intervallo di diecimila anni: questo fa del Paleocene-Eocene Thermal Maximum (PETM) un periodo comparabile con la situazione attuale, e difatti il PETM viene utilizzato per le proiezioni dall’Intergovernmental Panel of Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite (l’organismo scientifico Premio Nobel 2007 con l’ex vicepresidente Al Gore). Eppure c’è qualcosa che non torna nel PETM. “In parole povere i modelli teorici non spiegano ciò che osserviamo nelle registrazioni geologiche – ammette l’oceanografo Gerald Dickens della Rice University – sembra esserci qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel modo in cui la temperatura e il Carbonio vengono correlati nei modelli climatici”. Le proiezioni, va da sé, non sono previsioni e i modelli matematici della climatologia – una scienza ancora giovane – non possiedono tutti i parametri necessari a definire l’evoluzione fisica e chimica di un sistema complesso come quello in cui viviamo. Ciò significa che non è stata ancora compresa appieno, né quantificata, la relazione di “causa-effetto” fra le emissioni di CO2 dovute ai “fattori antropici” e il fenomeno del riscaldamento globale.
Il secondo episodio è legato al cosiddetto Climategate scoppiato prima del Vertice di Copenaghen. Alla fine di novembre 2009, un hacker “posta” delle informazioni riservate sopra un server russo: il materiale pubblicato riguarda uno scambio di e-mail tra scienziati inglesi e americani che lavorano anche per l’IPCC e che vengono considerati esperti a livello mondiale sul global warming. Secondo le accuse, gli esperti avrebbero manipolato e tenuto nascoste le tesi degli scettici e di chi contestava le teorie dominanti. Uno dei luminari finito al centro dello scandalo è il direttore del Penn State Earth System Science Center (ESSC), Michael Mann, convinto che negli ultimi 1.500 anni non ci sia mai stato un riscaldamento pari a quello che il mondo ha vissuto negli ultimi 50 anni. In un carteggio fra Mann e il professor Kevin Trenberth della Università del Colorado, il capo dell’ESSC difende le sue tesi nonostante l’interlocutore esprima seri dubbi sul paradigma scientifico corrente: “Qui a Boulder, in Colorado, negli ultimi giorni abbiamo avuto le giornate più fredde da sempre. Potrebbe esserci un riscaldamento maggiore che in passato, ma i dati sono spesso sbagliati e il nostro sistema di osservazione è inadeguato”. Erano esattamenti messaggi come questo che Mann cestinava nel suo computer. In un’altra delle mail incriminate, il professore se la prende con la rivista Climate Research colpevole di aver pubblicato delle ricerche non ortodosse sul global warming, avanzando l’ipotesi che questo fenomeno sia dovuto principalmente alle variazioni della radianza solare: “Dobbiamo smetterla di considerarlo un giornale legittimato a esprimere pareri sui buoni progetti (a legitimate peer-reviewed journal)”, scrive Mann. “Forse dovremmo incoraggiare i nostri colleghi della comunità che studia il clima a non inviare più le loro ricerche o a citare come fonte articoli apparsi su quel giornale”. Un atteggiamento che nel migliore dei casi sembra difensivo e nel peggiore una forma di bullismo scientifico allergico al dissenso. Dopo lo scandalo, la comunità scientifica sensibile al global warming ha fatto quadrato intorno a Mann, recentemente con l’appassionata difesa apparsa sul blog di Joseph J. Romm, uno dei guru dell’obamiano Center for American Progress. L’indagine interna condotta dal Penn State, l’istituto dove lavora Mann, non ha trovato evidenze che sconfessino le teorie del professore. Può aver sbagliato a scrivere certi messaggi di posta elettronica ma la base scientifica del suo lavoro è fuori discussione. Probabilmente Mann continuerà a godere dei fondi per la ricerca stanziati dal bailout, a lavorare per le Nazioni Unite, e i suoi libri saranno fonte di citazione per altri studi sul clima.
La terza storia che vale la pena raccontare riguarda invece uno dei cavalli di battaglia dell’ICCP: “salviamo i ghiacciai dell’Himalaya”. Un mantra che ha esaltato Verdi e ambientalisti con il megafono dei media e della stampa. Il report dell’ONU in cui si annunciava che il Tetto del mondo si sarebbe liquefatto entro il 2035 risale a un paio di anni fa, ma Syed Hasnain, lo scienziato indiano che lanciò l’allarme dalle colonne del New Scientist, ha ammesso di aver prodotto “una speculazione non supportata da ricerche formali”. Così, dopo la conferenza di Copenaghen, l’ICCP è stato costretto a smentire la tesi sullo scioglimento dei ghiacciai: “Ci siamo sbagliati di una cifra, è vero – ha reagito il numero uno dell’organizzazione, Rajendra Pachauri – ma questo non toglie nulla alle prove scientifiche sul riscaldamento del Pianeta”.
Le contraddizioni del PETM, il Climategate, la storia dei ghiacciai himalayani, dimostrano che le linee-guida politiche del Vertice di Copenaghen erano e continuano ad essere basate su informazioni scientifiche parziali. C’è una lunga lista di scienziati che la pensa diversamente, come i 31.000 sottoscrittori della Oregon Petition: “Non ci sono prove che il rilascio nell’atmosfera da parte dell’uomo di biossido di carbonio, metano e altri gas serra, stia causando, o causerà nell’immediato futuro, un riscaldamento catastrofico della atmosfera terrestre e la conseguente distruzione del clima”. Ma allora da dove nascono la forza e il peso scientifico delle teorie sul global warming e come mai sono in grado di dettare l’agenda politica internazionale? Dovremmo invertire l’ordine dei fattori e chiederci se non sia stata proprio la politica ad aver cercato di subordinare la scienza ai suoi interessi, per esempio attraverso i sussidi governativi offerti generosamente al sistema della ricerca compiacente. Dopo il documentario di Al Gore, An Inconvenience Truth, molti scienziati si sono definitivamente uniformati al “pensiero unico” sul riscaldamento climatico. E’ un fronte variegato che sogna una società affrancata dai combustibili fossili e che al suo interno comprende l’ICCP e le Nazioni Unite, Al Gore e il WWF, le forze che in America spingono per una regolamentazione governativa e in chiave protezionistica delle emissioni inquinanti (la Carbon Tariff), e il blocco europeo, socialdemocratico ma anche popolare, che si è dato ambiziosi quanto solitari obiettivi come il “20-20-20”. Entro un decennio, l’Ue punta a una riduzione del 20 per cento delle emissioni inquinanti, a un risparmio energetico del 20 per cento e a ottenere energia dalle “rinnovabili” per un altro 20. La prima ricaduta pratica della nuova legge sul clima è stao il divieto di usare lampadine a incandescenza nei Paesi dell’Unione…
Trascinare la scienza nel dibattito pubblico e politico, scrive la rivista Commentary, è pericoloso perché alla fine si tende a sostituire l’emotività con l’oggettività dei dati empirici. Decisioni politiche avventate possono avere conseguenze gravi sulla libertà di pensiero degli scienziati ma anche sull’economia mondiale. L’eredità del “Rapporto Stern”, le teorie sulla decrescita, gli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti e della temperatura globale (irrinunciabili quanto irraggiungibili), rischiano di deprimere il mercato, inasprire la leva fiscale e contrarre l’occupazione in un momento di profonda crisi della economia globale, quando invece servirebbe un approccio più mite ed elastico a problemi che pure esistono e nessuno vuole negare. Un clima di compromesso più che l’urgenza di un accordo a tutti i costi, insomma. Uno sguardo “freddo” che osservi l’evidenza del global warming senza risposte preconfezionate oltre che illiberali. In questo senso si può ripensare Copenaghen ridimensionando il pessimismo che ha circondato il vertice decretandone il fallimento: in fondo, nel corso degli ultimi anni, molte nazioni hanno iniziato seriamente a porsi il problema del taglio delle emissioni inquinanti, muovendosi nella direzione dell’Europa; anche se, proprio per la sua voglia di essere la “prima della classe”, la UE alla fine è rimasta esclusa dall’accordo non vincolante raggiunto a Copenaghen tra America, Cina, Brasile, India e Sud Africa (BASIC). Lungi dal creare un “direttorio” mondiale sul clima, dunque, il vertice danese ha riaffermato il diritto delle singole nazioni a procedere in ordine sparso quando si parla di tagli alle emissioni e modelli di sviluppo. (Nella linea tracciata dalla Asia-Pacific Partnership di George W. Bush.)
Un assaggio del nuovo assetto geopolitico legato al clima lo avevamo avuto mesi fa al vertice di Singapore tra Usa e Cina quando le due superpotenze avevano riaffermato il diritto di anteporre l’interesse nazionale alle decisioni della “comunità internazionale”. Dopo Copenaghen i negoziati riprenderanno, prossime tappe Bonn e Città del Messico, ma aspettiamoci un lento processo di concessioni reciproche – gli Usa verso un riduzione graduale e a lungo termine delle emissioni (l’American Clean Energy and Security Act di Obama prevede un primo sostanzioso taglio entro il 2020 ma è fermo al Congresso), e la Cina, che oggi rappresenta la più grande potenza inquinante, assumendosi le responsabilità che le derivano dal suo ruolo internazionale. Ci vorrà anche molto tempo per fornire aiuti economici e la giusta assistenza tecnica ai “grandi emergenti” come l’India o il Brasile e ai Paesi poveri, per offrire al Secondo e al Terzo Mondo un futuro non dominato dall’inquinamento, senza impedirgli, nello stesso tempo, di avere quel tipo di sviluppo che negli ultimi 150 anni ha fatto avanzare il mondo occidentale. L’accordo di Copenaghen prevede 30 miliardi di euro di aiuti nel triennio 2010-2012 e altri 100 miliardi entro il 2020, ma sono cifre eccessive che con ogni probabilità si abbasseranno; l’invio degli aiuti sarà auspicabilmente legato al monitoraggio dell’uso che ne faranno le classi dirigenti locali. Pragmatismo, tempo e perseveranza, sono la ricetta giusta per affrontare la questione climatica.
Non si può dimenticare che ci sono Paesi che usano in modo un po’ canagliesco il “global warming”, generando nell’opinione pubblica un misto di senso di colpa e di risentimento buono a far salire l’importo dell’assegno staccato dai Paesi ricchi a quelli poveri. Il blocco dell’ALBA (Venezuela, Cuba, Repubblica Dominicana, Nigaragua, Honduras, Bolivia) nell’aprile del 2009 ha redatto la Dichiarazione di Cumanà, in cui si chiede alle nazioni occidentali di pagare il “debito ecologico” accumulato nei confronti del Terzo mondo, “per sdebitarsi delle emissioni rilasciate nella atmosfera a partire dal 1750”. Un atteggiamento ricattatorio che a Copenaghen ha trovato eco nella proposta del procuratore argentino Antonio Gustavo Gomez di istituire un Tribunale Penale Ecologico contro i “reati climatici”. Ecco il genere di risarcimento che si chiede all’Occidente.
(“Il Grande Freddo”. Testi e credits di Roberto Santoro, Melania Perciballi e Danilo Montefiori. Foto e grafica di Four Sticks)