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Dai caratteri mobili di Gutenberg alla bomba atomica di Oppenheimer la politica ha sempre creduto di trovare delle soluzioni tecnologiche definitive con cui sciogliere le tensioni più profonde del suo agire: l’angoscia della scelta, il peso della responsabilità, la capacità previsionale, il consenso, la tentazione carismatica. La tecnologia dell’informazione le ha offerto il Web. Creando uno spazio politico digitale.

Come nelle migliori sceneggiature di fantascienza, ad un certo punto l’evoluzione tecnologica subisce un’accelerazione tanto forte da sfuggire di mano ai suoi creatori. Da Frankenstein a Blade Runner, la narrazione si annoda intorno al punto focale in cui il creatore del “mostro” ne diviene la vittima. La politica resta ancora una costruzione umana, un fatto sociale – tuttavia ha un’insaziabile voracità di nuovi strumenti e nuove risorse. La politica è un incredibile quanto sottovalutato motore di innovazione tecnologica, dalla stampa alla televisione e al web. Ma il progresso tecnologico sembra aver abbandonato il ruolo puramente strumentale di attrezzo della politica. Dobbiamo prepararci a una “dominazione” tecnologica della politica?

La definizione più rivoluzionaria e al tempo stesso veritiera per capire il Presidente Obama è quella di “nuovo media”. Un uomo, un capo di stato, viene associato ad uno strumento di comunicazione – non ad un’ideologia, ad una guerra, ad una battaglia politica. Le “tre emme” di Obama, per riprendere il titolo di “The Obama Victory”, il libro di Kenski, Hardy e Jamieson dedicato alla campagna elettorale del candidato democratico, sono money, message ma soprattutto media. E’ come dire che Tizio è un nuovo utensile. Umanizza l’utensile, ma svaluta l’uomo. Forse perché tra Obama e i nuovi media, oggi conta più essere come i nuovi media che non essere Obama o forse perché Obama è Obama solo grazie ai nuovi media.

Una volta i leader si fregiavano con nomi da battaglia, evocando suggestioni inconsce che scuotevano i cuori del popolo. Erano principi, condottieri, cavalieri, guerrieri. Il ritratto idealtipico del capo politico premeva, col tratto dell’immaginazione, sulle linee del corpo – la politica era una questione di fisica, di masse in collisione. Dagli imperatori ai presidenti il leader era avvolto da una mistica. L’iconografia creava un’aura da leggenda in cui il leader era trasfigurato in un superuomo, un semidio, tra il cielo e la terra. Il capo era sempre davanti ai suoi soldati in battaglia, era sopra al popolo quando parlava, era sopra alla legge. Era un uomo staccato dall’umanità. L’emissario di una volontà divina, di un destino storico, di una missione o vocazione per un intero popolo.

Obama? E’ un nuovo media. Per la prima volta un leader globale come il Presidente americano viene identificato in uno strumento tecnologico – sorpassando addirittura il colore della sua pelle. Nel Novecento i grandi della terra hanno usato intensamente la tecnologia. Dai bollettini radio con cui Roosevelt si rivolgeva agli americani ai dibattiti televisivi con cui Kennedy vinse la presidenza, gli Usa sono stati i pionieri nel fondare e nel fondere il binomio tra politica e tecnologia. Ma era netto e ben visibile il confine tra questi due poli, tra l’uomo e lo strumento. Oggi non è più così. Obama è nato dal nulla e ha vinto le sue battaglie con Internet. Senza il web, gli Usa sarebbero senza Obama?

Come si è arrivati a questo punto interrogativo? Per quanto paradossale, la verità, insieme alla responsabilità, non è da scaricare sulla leggenda metropolitana del progresso inarrestabile della tecnologia. Il progresso è inscritto nel Dna umano da molto prima che l’atomo sprigionasse la sua energia o i bit iniziassero a viaggiare tra i protocolli di rete. Ma nel caso della politica il fattore determinante è un altro. E’ il continuo bisogno di sempre nuova tecnologia, il consumo assiduo di qualunque risorsa tecnica, la domanda di soluzioni pratiche che supera sempre la sua offerta. Ancora oggi i maestri soffiatori di Burano creano con sapienza secolare grandi opere di gusto. Ma nessun politico, neppure il più reazionario e retrogrado, vorrebbe privarsi  di un telefono cellulare o di un semplice computer.

La politica divora la tecnologia. Dai caratteri mobili di Gutenberg alla bomba atomica di Oppenheimer la politica ha sempre creduto di trovare la soluzione tecnologica definitiva con cui trasformare radicalmente il mondo e sciogliere le tensioni più profonde dell’agire politico: l’angoscia della scelta, il peso della responsabilità, la previsione del futuro, la fiducia con la gente, la tentazione di ridurre la politica all’edonismo e all’egocentrismo. Questa fame di tecnica rispecchia un pregiudizio molto comune: la fede nella capacità della scienza di trovare il rimedio ai mali dell’umanità. Ogni nuova scoperta diventa un miracolo che può salvare il mondo dalla catastrofe. E’ l’apoteosi della tecnica, del camice bianco, del laboratorio e della provetta. L’antico positivismo di Comte e dei convinti estimatori della scienza si è trasformato, ironia della storia, in una credenza popolare molto radicata. Ma ogni volta che la politica crede di aver trovato l’eldorado della tecnologia, ne finisce stravolta.

Ogni grande trasformazione tecnologica destabilizza la politica, producendo vincitori e vinti, scardinando le vecchie mentalità e creando nuove realtà, nuove forme e forze. La tecnologia dell’informazione e della comunicazione (Ict) ha digitalizzato la politica costringendola, nel bene o nel male, più spesso il secondo che il primo, a fare i conti con il web. Non è soltanto la tecnologia della comunicazione a sconvolgere la politica. Nel settore militare, dove la tecnologia ha ormai surclassato definitivamente l’antica arte della guerra, l’impiego sempre più diffuso dei Droni sta ponendo ingombranti questioni morali. I droni sono velivoli aerei teleguidati, perciò senza soldati. Vengono sfruttati, ad esempio, nelle impervie aree di confine tra Afghanistan e Pakistan. Servono a risparmiare vite umane. Ma non sono in grado di distinguere tra bersagli militari ed elementi civili. Sono programmati per distruggere totalmente il nemico. Non conoscono il codice morale della guerra. Non provano pietà. E’ questa la guerra? Una tecnologia formidabile come quella robotica mette a nudo le contraddizioni dei suoi fautori insieme al loro consueto, eccessivo, ottimismo. Per vincere la guerra, a Kabul e altrove, serve altro.

Perché la tecnologia non basta? Perché si tratti di un rudimentale motore a scoppio piuttosto che di un complesso microcircuito entrambi non hanno idee, senso, valori. Tuttavia la diffusione di massa e l’utilizzo costante hanno infuso in questi oggetti meccanici una dimensione di armonia, gusto, piacevolezza. All’inizio del novecento l’architetto Mies van der Rohe aveva intuito che di lì a poco i pistoni di un motore avrebbero acquisito una tale bellezza da poter diventare un regalo gradito a tutti. La tecnologia ha rapidamente creato un’estetica di se stessa. E’ il bello della tecnologia: nasce il design, dalle automobili ai telefonini. Ecco la mela di Steve Jobs cadere in testa all’umanità postmoderna facendo scoprire una legge forte come quella di Newton: la tecnologia è una moda, cioè un fatto sociale. Prima ancora di essere funzionali o efficienti, i prodotti di Apple corteggiano gli occhi dei consumatori, fanno innamorare giovani e meno giovani, appassionano i “geek” e i semplici utenti. Si trasformano in oggetti di culto.

Il caso di Apple è eclatante e sotto gli occhi di tutti. Ma non è il solo. La robotica sta partorendo umanoidi operanti con intelligenze artificiali sempre più ricalcate sul modello umano. Asimo, il robot semovente di Honda, partecipa a fiere tecnologiche e presentazioni al pubblico. E’ la nuova generazione di androidi intelligenti che mai come prima acquisiscono una personalizzazione umana. Non sono più batterie che fanno muovere scatole di latta. Asimo riconosce i volti, cammina, assume differenti posture, distingue i suoni, riconosce gli oggetti dell’ambiente circostante. Dimostra che è cambiata la percezione sociale: la robotica abbandona la meccanica per proporsi come una fisiologia digitale. Il bello della Mela e l’umanità del metallo: la tecnologia del ventunesimo secolo entra nelle case, ha un volto umano, quasi confortante. Tutti aggettivi che descrivono un contesto molto diverso dai precedenti, un contesto dove non conta più l’avanzamento tecnico-scientifico, quanto invece l’uso di massa, il consumo quotidiano, la naturalizzazione di una vita virtuale sempre più reale. E’ la premessa per comprendere l’insorgere di una fondamentale operazione politica.

Il web è la tecnologia che realizza più di altre quest’incontro tra meccanica e società. Il progresso del web non è più una questione di puro sviluppo tecnologico, di incremento della potenza di calcolo di un elaboratore o di ampiezza della banda, del server, dei software. La vera potenza è la densità sociale dei nodi della rete: lo sviluppo cresce negli utenti, nei files e nei messaggi scambiati – tutta questa fenomenologia sociale è riassunta in una sola parola chiave: partecipazione. E’ la filosofia del social network che Facebook e Twitter esprimono compiutamente: alle masse digitali non interessa la forza bruta di un computer nel generare miliardi di poligoni o di calcoli in virgola mobile. E’ la possibilità di socializzare, trovare amici, comunicare, inventarsi un’immagine pubblica, apparire come desiderano – insomma, stare insieme. E ora in rete possono farlo scavalcando latitudini e longitudini, a costi economici in costante riduzione, senza limiti di orario. La forza della rete è la capacità di attrarre persone che – questo è il passaggio saliente – trasformano uno strumento tecnico in uno spazio sociale. Il mezzo miliardo di utenti di Facebook equivale alla terza nazione più popolata al mondo. Sono tutte condizioni che determinano grandi cambiamenti nella sfera politica.

Ma questi cambiamenti non sono concentrati nella sfera politica istituzionale, “offline”. Poiché popolato di umanità che interagisce in un modo dotato di senso sociale, il web è una tecnologia che inevitabilmente diffonde un messaggio politico. La libertà di accesso alle informazioni forgia una libera coscienza che tende a diffondersi in ogni angolo della rete e a coinvolgere ogni aspetto, dalle canzoni in formato Mp3 al disastro ambientale del Golfo del Messico. Vivere online diventa una mentalità, uno stile, un’abitudine a ritenere ogni informazione “open” e perciò a nutrire l’aspettativa di conoscere e criticare. Non poteva che andare così: Internet ha abbattuto le barriere tra lettori e produttori di contenuti, abbassando le disuguaglianze nell’accesso e nella distribuzione delle informazioni. E’ l’epoca dell’auto-informazione nella network society, come afferma Manuel Castells. Ogni internauta ha la competenza e la possibilità di crearsi la propria informazione e perciò definirsi una propria visione del mondo. Tutti possono caricare le foto più intime oppure video di denuncia sociale. Libertà, democrazia, uguaglianza diventano le bandiere che il web ha issato su strumenti tecnici come l’email e comportamenti sociali come lo sharing, il tagging e il peer-to-peer. Sembra il trittico della rivoluzione francese. Al posto della coccarda tricolore c’è la chiocciolina simbolo dell’email.

Sarebbe troppo ingenuo ritenere possibile, o auspicabile, una trasposizione di questa sorta di ideologia telematica dal cyberspazio alle stanze del potere reale. l’uguaglianza orizzontale del web darebbe luogo ad una forma di governo assembleare tipica delle fasi più convulse delle rivoluzioni. La storia dimostra che il capitolo seguente racconta una storia esattamente opposta: la chiassosa assemblea dove tutti dicono la loro, ma alla fine nessuna decisione viene assunta, è l’anticamera alla dittatura del tiranno che mette ordine facendo tacere il popolo. Gli effetti politici del web non arrivano ad immaginare queste derive estreme. Sono meno appariscenti ma più concreti e perciò incisivi. I nuovi media tendono fortemente a cancellare le tradizionali figure dei mediatori. Il web, proprio perché fondato sulla partecipazione diretta ed immediata, non richiede la funzione di intermediari. Ad esempio i partiti, o gli stessi rappresentanti eletti; oppure ancora il mondo dell’informazione professionale, con redazioni e giornalisti; per non parlare di tutto il tessuto di enti pubblici che compongono il sistema amministrativo. La rete è un gigantesco fai-da-te che istruisce molto bene a provvedere a se stessi.

Google è il sito numero uno al mondo. La sua filosofia è chiara: se vuoi qualcosa, la cerchi. Io la trovo per te. Ma tu devi sapere esattamente cosa vuoi e cosa vuoi farci. Questa è la rete, che è anche agli antipodi della cultura politica, incentrata proprio sui mediatori che aggregano e filtrano gli input per le istituzioni. Invece la rete disarticola e disaggrega questi meccanismi di selezione per il semplice fatto che non ne ha bisogno tecnicamente e nemmeno socialmente. Le masse online entrano in connessione da sole. La gente ha imparato a fare da sé, scrivendo l’email al politico oppure confezionandosi il proprio palinsesto televisivo con Youtube. Viene meno il ruolo dei classici fiduciari, dei notabili, dei leaders di comunità – ruoli che mediavano tra popolo e potere. Oggi la rete è già un potere sociale fondato su un meccanismo di inclusione senza sosta.

Una volta insieme diventa anche più facile attivarsi e mobilitarsi – il flash mob è la nuova modalità di manifestazione che nasce in rete per poi concretizzarsi in piazza: basta un tam-tam online e la concertazione di una sola azione comune ed ecco fatto: senza preavviso, senza autorizzazioni, senza equipaggiamenti organizzativi o burocratici. L’ultimo passaggio per trasformare realmente la politica è arrivare al palazzo. Questo spiega perché in Cina, in Russia, in Iran e nel mondo musulmano sono frequenti i casi di intervento diretto delle autorità contro la rete. La parola chiave sembra la censura, se non fosse che dietro c’è molto di più. Questi interventi di sabotaggio, contrasto, chiusura e censura sono animati dalla volontà di porre la rete sotto un controllo politico. Significa mettere al guinzaglio la libertà di comunicazione e partecipazione. Ma tentare di governare in modo autoritario una struttura reticolare, priva di un unico centro e dispersa su scala globale, è un’impresa nata per fallire.

Il web, e questo è un aspetto forse poco conosciuto dal grande pubblico, è una tecnologia estremamente semplice e perciò estremamente difficile da manomettere. Quando un governo blocca l’accesso ad un sito, quel sito stesso può subito migrare su un altro server. E così via, all’infinito. I governi sono accerchiati dalla rete. Quelli più distanti dai principi democratici avvertono la nuova pressione del web. Il caso di Wikileaks è eclatante: un consorzio di intellettuali, giornalisti, ingegneri dalla Cina, dagli Usa, dalla Russia, dall’Europa e dall’Africa lavorano in clandestinità per diffondere in rete materiale sotto segreto di stato. Guantànamo, Bp, l’Afghanistan, Scientology, il Global Warming sono alcune delle “vittime” eccellenti di Wikileaks. In un solo anno di attività è sorto un database pubblico di oltre un milione di dati. Questa è l’ideologia del web: l’informazione su tutto e per tutti.  

Tutto ciò scatena una ridefinizione della politica tradizionale. Come tutte le questioni che riguardano il potere, non è un processo pacifico e scontato. Un curioso libro firmato da Marybeth Hicks parla di “Generazione S” dove la S sta per il Socialismo a cui  Obama avrebbe ridato nuova vita con le energie del web. Però il ritorno al passato non aiuta a comprendere il futuro. Nessuno sa come andrà a finire, tanto meno lo sanno i protagonisti del web. Finora i rami della storia hanno seguito evoluzioni casuali, sicuramente ramificate, spesso improvvisate ed imprevedibili. Dietro al web non c’è solo uno scienziato o un movimento di pensiero o una grande impresa. Ci sono sicuramente. Ma insieme a folle globali sempre più autocoscienti della realtà. Il nuovo sogno non è rivolto a utopie, perché tiene gli occhi aperti sul mondo per viverlo e parteciparlo in un modo politicamente diverso. La tecno-politica online non è un’ideale. E’ una realtà sperimentale e condivisa che fonda una polis aperta a cittadini digitali di tutto il pianeta. Come nell’antica Ellade, anche in questa e-polis sta sorgendo una nuova forma di politica.