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Forte del “buon esempio” del Giubileo, Rutelli aveva immaginato un centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia che fosse un po’ dovunque Babbo Natale di opere pubbliche (Palazzo del Cinema e dei Congressi a Venezia, Auditorium del Maggio Fiorentino, parchi a Torino e nel Ponente ligure, Centro Congressi del Molise, ristrutturazione del Museo del Tricolore a Reggio Emilia, completamento dell’aeroporto dell’Umbria, progettato da Gae Aulenti). Nel 2007 il governo Prodi aveva ipotizzato “un intervento infrastrutturale per ciascuna regione”, magari con qualche priorità piemontese, ma senza che si definisse fra Stato, Regioni ed Enti locali chi finanziasse che cosa, con quali risorse e a quale titolo. Di qui pure l’istituzione di un comitato di garanti presieduto dal senatore a vita Ciampi, per vigilare su spese ancora indefinite, mai ripartite e sulle quali non era possibile soprintendenza alcuna dei beni culturali. Conferire ai beni culturali mandato di promuovere opere pubbliche, in nome di una celebrazione nazionale, resterà fra gli interna corporis del gabinetto Prodi. Ma quella di voler per forza identificare nelle istituzioni regionali il filo conduttore di centocinquanta anni di esperienze dello Stato nazionale era un’idea davvero infelice. Soprattutto, sotto il profilo storiografico. Sarebbe necessario che al Collegio Romano ogni collaborazione con Regioni ed Enti locali fosse sempre finalizzata al tema dell’identità nazionale nella storia d’Italia; e non viceversa.

Era così che si faceva quando sul ministero dei beni culturali aleggiava il magistero d’influenza e persuasione di Giovanni Spadolini. Fu così che si fece nel 1986, in occasione del quarantesimo anniversario della Repubblica, conferendo a Leo Valiani la presidenza del Comitato Nazionale ad hoc e prevedendo un ben preciso ruolo di riferimento e di coordinamento dell’Archivio Centrale dello Stato. Su Bondi, La Russa e più in generale sul governo Berlusconi, è ricaduto così il compito di districarsi dal disordine istituzionale ereditato dall’enfasi panregionalista nella quale era stato precedentemente pensato il 2011. Ma al tempo stesso sulle celebrazioni prossime venture sembra essersi ormai abbattuto un tormentone di luoghi comuni antirisorgimentali di varia provenienza. Si vorrebbe ridurre l’Unità d’Italia ad una continua fumogena di tutt’altre cose. Le smanie revisionistiche incalzano da varie fonti. Voi credevate al Risorgimento fatto contro l’Austria, contro la Curia romana, contro le dinastie e contro le classi dirigenti legate all’assetto italiano di prima del 1861? Vi sbagliavate. Il Risorgimento fu fatto contro i contadini, contro il popolo e (ora si è scoperto) contro tutti: lombardi, veneti, toscani, gli stessi piemontesi, e, in specie, contro i meridionali. Non parliamo poi dei lager sabaudi, del milione di morti della “guerra nazionale” napoletana nel Sud (con totale disprezzo per tutte le statistiche demografiche dal 1860 al 1870), delle rapine piemontesi (specie al Sud) e di tanto altro. Ma come si fa a credere che tutte queste siano “scoperte” e coraggiose “rivelazioni” che ora finalmente vengono fatte emergere?

Non c’è, infatti, molto di ciò che si gabella oggi per nuovo e inedito che non abbia dietro di sé una rispettabile anzianità. Il Risorgimento non era neppure terminato, e già si iniziò a processarlo, in storia e in letteratura. La “conquista regia”? il peso marginale delle classi popolari nel moto e nella sistemazione finale? La natura borghese dell’ordine sociale uscito dal 1861? L’assorbimento e l’unificazione tributaria a danno del Mezzogiorno? La scelta del centralismo anziché del federalismo o dell’autonomismo? L’indiscriminata unificazione legislativa? Ebbene, proprio questo e altro è ciò di cui si è parlato con successivi approfondimenti e con grande varietà di racconto e di giudizi in un secolo e più di studi. Prendete il caso del brigantaggio. Se ne è parlato sempre. Esso non nacque affatto nel 1861. Era un grave problema, endemico e storico, del Mezzogiorno. Nel 1817 e nel 1821 con dure campagne di guerra il governo borbonico ne attenuò la portata, e in seguito cercò di controllarlo, ma non riuscì mai a eliminarlo, come dimostrano le sue cronache giudiziarie fino al 1860. Giustino Fortunato raccolse al riguardo un’enorme quantità di materiale. Ne discussero negli anni Trenta Omodeo e altri. Dopo la guerra un libro di Franco Molfese ne fissò alcuni tratti fondamentali. Convegni e seminari, talora di altro livello, ne hanno via via riproposto il tema. Ora sembra che tutto si scopra come una terra vergine, sempre nascosta dal solito imputato di tali misfatti, la “storiografia ufficiale”: un monolite inesistente.

Dopo la guerra si parlava di Bronte e dei relativi, tragici e crudeli massacri. Oggi si parla molto di Pontelandolfo, altra storia di tragici e crudeli massacri. Scoperte? Colpevoli silenzi? Di Bronte si fece un film di forte efficacia rappresentativa quanto discutibile in punto di storia. Di Pontelandolfo si parlò molto già al tempo dei fatti, e non se ne è mai taciuto. Sia a Bronte che a Pontelandolfo non si ebbe un semplice caso di brigantaggio, bensì, piuttosto, di questioni di altro ordine, come quelle poi inviperite dallo spregiudicato uso politico antitaliano del brigantaggio da parte borbonica e clericale dopo il 1860. Ma tant’è. Il giudizio sul Risorgimento, nel caso migliore, è quello, inverosimile, eppur accreditatissimo, nelle pagine de Il Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla. La tradizione dei meridionalisti liberali, da Giustino Fortunato in poi, aveva un fortissimo legame con lo Stato unitario. Fu il meridionalismo di Gramsci ad accusare il Risorgimento di non esser stato adeguatamente rivoluzionario. Nel febbraio scorso, Giorgio Napolitano, all’Accademia dei Lincei ha avuto il coraggio di prendere le distanze dalla storiografia gramsciana a favore degli studi sul Risorgimento e sull’Unita’ nazionale di Rosario Romeo. “A me piacerebbe che in questo 2011 si riscoprisse come non sia stato a suo tempo il Risorgimento a inventare l’Italia e la Nazione italiana, bensì la Nazione italiana a fare il Risorgimento e l’unità dello Stato”.

Dagli anni cinquanta agli anni ottanta l’unica difesa efficace, nel merito e nel metodo, del Risorgimento e dell’intera storia nazionale toccò alla storiografia liberale. Fu Romeo a sottolineare nel 1961, in occasione del primo centenario, l’affievolimento dei valori patriottici risorgimentali e l’insistente svalutazione dello Stato unitario liberale, proprio nel momento in cui si raccoglievano i migliori frutti di quanto si era seminato un secolo di vita unitaria. Quando irruppe sulla scena politica il leghismo, l’apparato difensivo del sentimento unitario era stato logorato dall’azione corrosiva esercitata da marxisti, radical-democratici, cattolici di sinistra, in misura di gran lunga superiore a quella esercitabile oggi dagli ultimi nostalgici asburgici, borbonici o neo-sanfedisti, i quali ripresero vigore proprio a partire dagli argomenti leghistici. Romeo morì nel 1986 e per tutta la sua vita ebbe sempre contro vecchi e nuovi gramsciani, in servizio permanente e di complemento, che mai gli risparmiarono avversione. Oggi la vulgata di un Risorgimento elitario, frutto solo del genio di Cavour e delle ambizioni di casa Savoia, viene confutata a sinistra rifacendosi al carattere addirittura di massa del movimento nazionale.

La strumentalizzazione è evidente. Tanto più efficace, in quanto nel 2011 l’Italia sarà priva dell’ultimo grande patriota del Risorgimento, Francesco Cossiga.
Straordinario cattolico liberale Cossiga all’Italia voleva bene sul serio. C’era forse più Ottocento che Novecento, più Spadolini che Scalfaro, più Romeo che Scoppola, piu’ Capograssi che Dossetti. Quella di Cossiga era l’Italia che Cavour, Ricasoli,  Minghetti avevano voluto, ma anche quella che Mazzini, Crispi e Garibaldi, avevano inseguito. L’idea di Roma capitale per più di un secolo e mezzo ha convissuto con la religione dei Manzoni e dei Rosmini. Un po’ come Cossiga aveva saputo essere, fino alla fine, democristiano ma al tempo stesso ‘whig’ britannico, anglosassone d’Italia e cultore di un costituzionalismo all’americana, democratico e quindi anticomunista, popolare-europeo e dunque davvero cristiano. Proprio una degna ricostruzione di un personaggio complesso e complicato come Cossiga mi piacerebbe vedere inserita nelle celebrazioni. Con discrezione, è una proposta che segnalo alla finezza di un ministro come Sandro Bondi.