Privacy Policy Cookie Policy

Lettere scarlatte. “Allora era anche peggio (di oggi) perché c’era chi voleva la rivoluzione mentre oggi – se ci fa caso – pure i comunisti non è che siano tanto distanti dai liberali, si sta divisi perché conviene, se no la gente dice: ‘E che ti voto a fare?’ ”. La citazione è tratta da Canale Mussolini, l’ultimo romanzo di Antonio Pennacchi, fasciocomunista per auto definizione, nella parte in cui racconta il passaggio di Rossoni e Mussolini dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo, attraverso l’interventismo, allo scoppio della prima guerra mondiale.

La citazione mi è tornata in mente quest’estate leggendo le lettere che Veltroni e Bersani hanno inviato, in rapida successione, al Corriere della Sera e a Repubblica. Non solo perché lettere di due ex-comunisti che si affannavano a dar lezioni di liberalismo a chi magari liberale lo è stato tutta la vita. Soprattutto perché quella necessità di dirsi liberali “ma anche” conservare qualcosa del tempo in cui la politica era altro, mi è sembrato potesse spiegare quel senso di confusione, falsa coscienza, annaspante ricerca di una prospettiva ideale che la lettura dello scambio epistolare mi ha provocato.

Come fra le righe ci dice Pennacchi, stiamo vivendo un tempo storico nel quale coincidono le eclissi di due parabole. In Occidente si è spenta l’eco del comunismo – sono passati solo vent’anni, un tempo relativamente breve se comparato con la portata dell’esperimento sociale abortito -; contemporaneamente, si è smorzata la più ampia parabola rivoluzionaria, inauguratasi nel 1789, nel corso della quale la politica è stata dominata dalla prospettiva della rottura palingenetica, sia per chi di tale prospettiva è stato sostenitore, sia per quanti, paradossalmente, l’hanno contrastata.

Le conseguenze di questi cambiamenti sono tali che per ogni uomo politico appena illuminato sarebbe saggio – e anche necessario – mettere da parte le certezze; rifuggere dalla ricerca di ideologie di sostituzione per aprire una discussione a tutto campo sui nuovi strumenti della politica, sulla natura delle nuove contrapposizioni, sulle riforme necessarie al Paese, in particolare in ambito istituzionale.

La fine della parabola rivoluzionaria avrebbe dovuto implicare anche la fine della pretesa di marchiare a fuoco il proprio competitore, per assumere da lui una differente distanza: cercare di comprendere le sue ragioni piuttosto che impartirgli lezioni in nome di quel liberalismo europeo del quale fino a ieri i nuovi autoproclamati “maestri” erano stati “nemici di classe”.

Invece, come ci dice Pennacchi, almeno sul piano verbale si va alla ricerca di un inedito radicalismo, di un nuovo nemico sul quale catalizzare l’odio per il nemico smarrito; si presagiscono nuovi crolli storici dietro i quali scorgere il profilarsi del vecchio – e non importa se un po’ avvizzito – “Sole dell’Avvenire”. Al di là dello stile, della costruzione retorica e persino della prospettiva politica non coincidente, è questo il filo che accomuna le “lettere scarlatte” di Veltroni e Bersani.

Veltroni rivendica di essere stato l’artefice di una spettacolare semplificazione del quadro partitico-politico, scegliendo, alle elezioni del 2008, di smarcarsi dall’arcipelago dell’estrema sinistra per puntare su un Pd inteso come grande partito di coalizione, in grado di raccogliere 14 milioni di voti e proporsi come pilastro di una stabile e moderna democrazia bipolare dell’alternanza. Sotto una montagna di panna retorica, però, l’ex sindaco di Roma cerca di nascondere le due insanabili contraddizioni che, inoculate nel cuore della sua linea politica, ne hanno provocato infine la sconfitta.

Omette, innanzi tutto, che quella scelta politica poté realizzarsi anche perché preparata da incontri pubblici noti a tutti e incontri riservati meno noti con il “grande nemico” Berlusconi; incontri sostenuti dalla consapevolezza – sono parole del Veltroni di allora – che “colloqui del genere tra il capo del governo e quello del principale partito di opposizione debbono diventare una consuetudine”. Insomma – traduciamo noi –, dalla consapevolezza che fosse necessario almeno un certo grado di reciproca legittimazione in quanto l’esperimento di grandi partiti post-ideologici sulle sponde opposte del sistema politico o si sostiene reciprocamente o insieme decade.

La seconda omissione è che – in aperta contraddizione con la consapevolezza appena espressa – al momento di stabilire le alleanze e scegliere lo “junior partner”, Veltroni apparentò il Pd con una forza giustizialista, giacobina, apertamente anti-sistema, condannando a morte politica i socialisti: un dejà-vu e un residuo di sovversivismo anti-statale duro a morire in un ex-comunista.

Oggi Veltroni scioglie – almeno in apparenza – la contraddizione di allora. Ma a me pare che la riconquistata linearità produca un groviglio ancora maggiore. Veltroni, infatti, rivendica l’effetto bipolare delle scelte compiute due anni fa. Dice no ad ammucchiate confuse. E vorrebbe coniugare questa politica con un rinnovato e rinfocolato anti-berlusconismo: come se lo schema bipolare potesse derivare non già da un fisiologico funzionamento del sistema che preveda l’alternanza degli schieramenti al governo, quanto piuttosto dalla presunzione di ritenere che esista uno schieramento legittimato a governare e un altro non degno di tale prerogativa. Veltroni non ne è consapevole ma, così facendo, finisce con il proporre “la via bipolare alla rivoluzione antiberlusconiana”, pensata contro il nuovo nemico non più concepito in una prospettiva di classe ma in termini addirittura antropologici”.

A questa debolezza cerca di porre rimedio Bersani. E’ come se il segretario del Pd dicesse al suo compagno di partito: hai ragione nell’identificare in Berlusconi il problema; e fai bene anche a contrapporre a una destra che si dimostrata in grado di vincere e conquistare il Paese, il sogno di una destra finalmente “europea” e “liberale” (come la intendiamo noi), e, soprattutto, finalmente disposta a soccombere. Una destra, insomma, che si limiti a fare la sua bella figura: a fare figo, come direbbero le mie figlie.

E siccome – dice ancora Bersani a Veltroni – qualcuno inizia a farci credere che questo nostro sogno potrebbe divenire realtà, almeno per un po’ mettiamo da parte il rivoluzionarismo bipolare e riesumiamo l’Union Sacrée contro il nemico interno; cerchiamo di attrarre tutti in un grande schieramento da far defluire, a vittoria conquistata, in una più ordinaria logica di coalizione come quella che D’Alema e Casini hanno invano ricercato in Puglia. Magari cambiando questa legge elettorale che tra le sue tante e indubbie imperfezioni ne ha una che risulta veramente indigesta e insopportabile ai suoi detrattori: garantisce in ogni caso che il governo non sia scelto dagli accordi d’altri tempi fra i partiti ma che si crei un rapporto diretto tra sovranità popolare ed esecutivo; e dunque tenta di governare il non agevole passaggio dalla democrazia dei partiti a quella degli elettori.

Verrebbe da chiedere cosa resta dell’analisi del segretario del Pd dopo le contestazioni di Torino al presidente del Senato Renato Schifani. Se non erriamo, è stato un compagno di partito di Bersani, Piero Fassino, a definire “squadristi” coloro i quali avevano inscenato quella che è stata autorevolmente definita una intimidatoria gazzarra. E quegli squadristi sono stati applauditi da esponenti dell’Italia dei Valori, potenziali alleati del nuovo “comitato di liberazione nazionale”, che a quanto pare ha dunque superato la pregiudiziale antifascista accogliendo nelle sue fila anche gli squadristi o quantomeno chi li applaude.

La svolta della legislatura. Le due lettere, insomma, un pregio l’hanno avuto. Hanno reso ancor più evidente quel che era già abbastanza chiaro. Questa legislatura è iniziata sulla premessa di una semplificazione epocale del sistema politico, con l’affermarsi – sulle due opposte sponde – di partiti di tipo nuovo che hanno ridotto la frammentazione e hanno fatto intravedere la prospettiva di una lineare, ordinata, fisiologica alternanza al potere sancita dagli elettori e dalle loro valutazioni, sempre empiriche e approssimative, sulle leadership, le classi dirigenti e i programmi, in considerazione delle esigenze e del vantaggio del Paese.

Al di là delle contraddizioni e aporie iniziali, che non erano sparite come per incanto, questa prospettiva per svilupparsi avrebbe avuto bisogno di riforme condivise: quelle indicate nell’incontro tra Berlusconi e Veltroni del 16 maggio 2008. E avrebbe dovuto essere messa al riparo dal conflitto tra politica e giustizia deflagrato a partire dal 1994. Forse si sarebbe anche potuto aggirare lo scoglio della presenza di Di Pietro in Parlamento, ma di certo non si poteva superare la riproposizione della “soluzione finale”: la ripresa della caccia all’uomo che si perpetua da sedici anni, da parte di una minoranza della magistratura che sin dall’inizio di questa lunga transizione italiana è alla ricerca del cambiamento per via giudiziaria.

Per questo – per i suoi effetti immediati e soprattutto per quelli indotti – sono convinto che la vera svolta della legislatura vada ricercata nella decisione della Corte Costituzionale di bocciare il Lodo Alfano che concedeva uno scudo temporaneo alle massime cariche istituzionali, anestetizzando, per tutta la durata dell’incarico, il conflitto potenziale tra esigenze della politica ed esigenze della giustizia. Nel tentativo di rendere entrambe più trasparenti.

Quella decisione, infatti, ha rinfocolato lo scontro sulla giustizia facendo cadere su riforme necessarie un velo di sospetto. Ha posto nuovamente all’ordine del giorno la possibilità di uno sconvolgimento del quadro politico attraverso una sentenza di condanna nei confronti del Premier. Per riflesso conseguente, ha reso per la sinistra impossibile prescindere dall’anti-berlusconismo, insinuando il sospetto d’intelligenza col nemico su chiunque continuasse ad alimentare la prospettiva di riforme condivise. E, nel centro-destra, ha posto nell’orizzonte di alcuni il problema di una possibile successione in tempi brevi, magari pure con l’alibi di dover far fronte, sacrificandosi, alle necessità imposte dall’evoluzione politica e da una possibile improvvisa necessità oggettiva.

Che fare? Il partito e i principi. Questa, per l’essenziale, la storia dell’ultimo anno. Ognuno di voi, cari ragazzi, potrà completare il quadro animando la scena descritta con nomi e cognomi di persone in carne e ossa. Nel domandarsi cosa il PdL dovrebbe fare di fronte a questo scenario, è bene però continuare ad evitare riferimenti espliciti a fatti e persone affinché l’analisi possa restare più oggettiva possibile. Siamo pur sempre in un corso di politica!
C’è un punto di partenza obbligato. L’obiettivo di costruire un sistema politico basato su almeno due grandi partiti post-novecenteschi, post-ideologici, in grado di riunire orientamenti di fondo piuttosto che abbracciare religioni civili, resta nell’orizzonte del PdL. Quest’obbiettivo, però, si è allontanato almeno per due motivi sostanziali.

Il primo rimanda a una considerazione sistemica: affinché l’esperimento dei grandi partiti di coalizione possa durare – lo insegna la storia centenaria dei sistemi politici anglosassoni – c’è bisogno di regole condivise radicate nel senso comune. E dove la sola consuetudine non basta, sono necessarie anche riforme di rango ordinario e costituzionale che puntellino quella realtà. Questa prospettiva, per quanto abbiamo fin qui detto, in Italia non è all’ordine del giorno.

Il secondo motivo è di natura interna. Vivere in un partito post-ideologico non è un fatto scontato. Non si può pretendere dagli appartenenti l’adesione a una fede, a un’ideologia e neppure il riferimento a una cultura politica monolitica. Ma non si può nemmeno concepire un partito post-ideologico come una mera agenzia relativistica senza verità, messa su soltanto per la contingente gestione del potere. In un tempo nel quale la velocità di comunicazione amplifica qualsiasi dissenso, per chi è minoranza è necessario un surplus di prudenza e di auto-disciplina per non trasformare il diritto alla critica in uno stillicidio quotidiano. E’ necessario, soprattutto, che nessuno metta in discussione tre aspetti: i principi di fondo non disponibili (pochi ma indispensabili per non accedere a una visione relativistica della politica che liquida l’idealità e, alla lunga anche la moralità); gli impegni assunti con gli elettori; e, infine, la leadership che quegli impegni incarna.

In quest’ultimo anno è accaduto che, dopo un’elezione vinta contro venti e maree – mi riferisco alle regionali – tutti e tre questi capisaldi sono stati messi in discussione dalla minoranza finiana. Soprattutto, con il tempo si è delineato un dissenso sui principi di fondo che non sembra sanabile e che, da ultimo, ha trovato un riflesso nel nome scelto dai dissidenti per i nuovi gruppi parlamentari.

La storia del centrodestra così come si è sviluppata dal 1994 ad oggi ha determinato una netta distinzione tra il concetto di moralità e il richiamo a una presunta “questione morale” permanente attraverso la quale, inevitabilmente, si attenta al primato della politica. E tale distinzione – non astratta ma derivata da ciò che è avvenuto in Italia negli ultimi sedici anni – ha portato la destra italiana ad evolvere da posizioni giacobine e rivoluzionarie, che trovavano nel leghismo francese sviluppatosi tra i due secoli le loro ascendenze più antiche, a una definizione garantista e liberale. Su questo terreno, Futuro e Libertà sembra essere tornata al passato: somiglia, insomma, più all’MSI che ad AN.

Allo stesso modo, la storia del centrodestra italiano – intrecciata in maniera indissolubile con la ricerca di un rapporto non strumentale con la Lega nord – spinge verso la definizione di un meridionalismo non più legato all’intervento pubblico e neppure alla riedizione dell’intervento straordinario. La convinzione, insomma, è che l’interesse del sud in un’epoca di globalizzazione sia quello di creare condizioni di contesto in grado di attrarre capitali, piuttosto che restare con il cappello in mano. Il governo del Paese spetta dunque a un partito in grado di essere autenticamente nazionale. E capace perciò di utilizzare la “risorsa politica” per mediare tra le giuste insofferenze dell’opinione pubblica settentrionale nei confronti di sprechi atavici, e le iniziative di riforma di una nuova classe politica meridionale che deve fare i conti – soprattutto nel campo dell’occupazione – con diritti acquisiti non comprimibili e, soprattutto, non comprimibili dall’oggi al domani. Anche in questo caso, dunque, una linea politica di acritico, preventivo e sistematico contrasto della Lega, in nome di un suo presunto predominio, sembra fondarsi più sulla ricerca di rendite di posizione passate che sul perseguimento di scenari futuri.

Infine, una formazione di destra post-ideologica che guardi al proprio tempo senza allarmismi ma anche senza ingiustificati ottimismi, non può dimenticare quel che è successo nel mondo l’11 settembre 2001. Da lì discende una laica considerazione del contenuto di libertà implicito nella nostra tradizione religiosa; una prudente politica di accoglienza sull’immigrazione che non provochi, per eccesso di ottimismo, fenomeni di rigetto; un confronto con le altre religioni basato sul rispetto e sulla valorizzazione del loro portato pubblicistico, piuttosto che sulla presunzione di una progressiva e inevitabile secolarizzazione che alla fine farà tabula rasa di ogni fede. Da lì discende anche e soprattutto la convinzione che gli inediti problemi posti dalla modernità possano trovare risposta in un’idea di libertà che attinga al patrimonio di responsabilità personale distillato dalla tradizione occidentale, piuttosto che alle riserve del politicamente corretto per il quale la libertà ha bisogno di norme che la sanciscano, alla ricerca di un’autodeterminazione assoluta e totale dell’individuo.

Se si vuole andare alla radice delle cose, si dovrebbe ammettere che su tutto questo noi e gli esponenti più seri di Futuro e Libertà la pensiamo in modo assolutamente differente. Rappresentiamo ormai due destre diverse. Ed è per questo che per alcuni di loro – i meno seri – è stato possibile contravvenire apertamente a punti del programma elettorale e indebolire senza ritegno la leadership che li ha incarnati; per la stessa ragione altri si sono potuti permettere di giocare una partita tattica senza limiti né di prudenza né di buon gusto.

Chi ha chiaro questo scenario, non potrà che prendere atto con realismo del punto d’approdo al quale si è arrivati. Non si può pretendere di avere principi di fondo differenti, stare in gruppi parlamentari diversi e poi alloggiare nello stesso partito, magari pure con incarichi di responsabilità. Se ciò accadesse, il PdL diverrebbe irriconoscibile e, per questo, ridotto a uno stato di impotenza. Allora, e solo se accettassimo uno scenario del genere, avrebbe ragione Fini: il PdL non esisterebbe più.

Proprio la consapevolezza di dover risalire la china degli accordi e delle alleanze, imposta da quest’ennesima campagna antiberlusconiana, richiede invece uno sforzo di chiarezza ideale. Non c’era e non c’è da parte nostra nessuna preclusione ad accordi in grado di completare la legislatura rispettando il patto con gli elettori, né limiti a discussioni su prospettive future. Ma né gli uni né le altre sono possibili se i nostri interlocutori propongono accordi dettati da una sorta di complesso dell’obelisco che mette al centro solo se stesso e le sue esigenze.

Non si può, insomma, pretendere che il PdL esista solo quando fa comodo. Dov’era Fini durante la campagna elettorale delle regionali quando contro venti e maree, contro il tentativo di farci perdere a tavolino cancellando il nostro partito dalla competizione, c’era da far eleggere anche i candidati presidenti designati da lui? E ancora. Non si può proporre un garantismo a geometria variabile, a seconda della convenienza del momento. Non ci si può ricordare della dignità della persona e distribuire marchi d’infamia solo quando si è sotto attacco, dimenticando le tante campagne che in questi sedici anni hanno offeso la dignità della persona e che piuttosto che a inchieste giornalistiche si sono affidate al buco della serratura.

Non si può stare al governo e all’opposizione. Soprattutto, non si può chiedere un rinnovato patto di legislatura dimenticando quanto di buono ha fatto il governo in questi anni e, su un tavolo parallelo, aprire a una coalizione più ampia per cambiare le regole del gioco. Questo, appunto, è il complesso dell’obelisco. Gianfranco Fini sembra convinto che tutti gli interlocutori del sistema politico giochino a suo favore e siano disposti ad assecondare i suoi interessi. In tutta franchezza, mi chiedo se non valga la pena verificare su quale forza politica ed elettorale Fini fondi tale pretesa.

Il percorso del PdL deve mantenere la sua iniziale impostazione, che è la più semplice e quella che i cittadini possono comprendere: si governa se c’è una maggioranza vera, consapevole dei problemi del Paese e non dei problemi della propria parte. Se questa maggioranza non c’è, e votare a favore di un governo significa solo prendere tempo per logorare il premier e organizzare la propria parte, si chiede di tornare di fronte al popolo sovrano nel più breve tempo possibile.

Una strada diversa porterebbe a disperdere quello che resta il vero vantaggio sul quale il PdL può contare. Con buona pace di quanti predicano contro il cesarismo, la realtà leaderistica dei partiti di oggi è un fatto indiscusso che si è affermato su scala continentale: neppure l’Italia può sottrarvisi. Da noi, a ben vedere, solo il Pd non ha un leader e, per questo, paga un prezzo assai caro.

La leadership di Berlusconi – per la sua capacità di sintonizzare i problemi della gente con le esigenze di governo del Paese (i nostri avversari parlano con disprezzo di populismo) – rappresenta il valore aggiunto che, non certo casualmente, si vorrebbe a tutti i costi annullare. E che il nostro Partito, per questo, deve a tutti i costi difendere.

Per il PdL, poi, l’esercizio della leadership può contare su un ulteriore vantaggio. Se si va oltre gli stereotipi, si comprende subito come essa si fondi sulla collaborazione con una classe politica che è cresciuta gradualmente, nella quale si stanno progressivamente integrando quanti provengono da Forza Italia, da An, da altre formazioni minori. Oggi questa classe politica è l’unica in grado di assicurare il governo del Paese.

Questa risorsa non può essere dispersa, corrotta, consumata da innaturali convivenze. Riguadagniamo la sovranità sul nostro partito per non avere più alibi. Per tornare a costruire sulla chiarezza di ciò che ci unisce e di ciò che ci divide. Facciamo tesoro della lezione di quest’anno e sappiamo trasformare le difficoltà del momento in un’occasione di crescita, sapendo che nella vita dei partiti, non diversamente che in quella delle persone in carne e ossa, da un’avversità può sempre nascere un bene.

(L’intervento del Senatore Gaetano Quagliariello alla inaugurazione della V Edizione della Summer School di Magna Carta)