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Per iniziare una discussione sul sistema elettorale occorre, a mio avviso, partire dalla seguente domanda: a cosa serve il sistema elettorale? Due sono le risposte: a fare una maggioranza e un governo; a rappresentare i sentimenti di una collettività. Nelle due risposte ci sono, implicitamente, le due grandi formule elettorali: il maggioritario, che esalta la governabilità; il proporzionale, che valorizza la rappresentatività.

Della seconda, ovvero l’eccesso di rappresentatività, l’Italia non ha potuto fare a meno di adottarla a partire dal 1948, cioè fin dalla nascita della democrazia repubblicana, che aveva bisogno di crescere e rafforzarsi anche attraverso la plurima rappresentanza dalle varie forze politiche. Questo processo di rappresentatività si è però esaurito all’inizio degli anni Novanta, complice una continua, snervante e dannosa ricaduta negativa sulla durata dei governi e –quindi– sull’incapacità di produrre un indirizzo politico stabile, in grado di programmare un’attività di governo per l’intero mandato di legislatura.

E’ possibile fissare il giorno in cui gli italiani hanno fortemente deciso che la governabilità doveva prevalere rispetto alla rappresentatività e, soprattutto, che il loro voto doveva “contare di più”, perché oltre a quello sulla rappresentanza parlamentare ci doveva essere quello a favore dell’investitura del governo. Come ormai da tempo avviene nelle grandi democrazie occidentali. Il giorno è quello del 18 aprile 1993, quando 11 milioni e 662 elettori (su 14 milioni e 573, quindi l’83,30 per cento) votarono a favore del referendum per abrogare significative parti della legge elettorale del Senato, e consentire così che questa potesse trasformarsi, grazie alla normativa di risulta, da una legge sul sistema proporzionale a una che introduce un sistema elettorale a prevalenza maggioritario. Quella domenica di primavera di tredici anni fa è stata e rimane un evento straordinario. Come partecipazione, come esito e come fatto giuridico. C’è chi vide proprio in quel referendum il veicolo di apparizione del potere costituente al servizio dei diritti e delle libertà pubbliche.

Sia chiaro un punto: quel voto referendario non volle, né poteva, scegliere un preciso sistema elettorale, ma piuttosto indicava chiaramente una filosofia del voto: ovvero, l’affermarsi di qualunque metodo che potesse consegnare agli elettori la libertà di scegliere una maggioranza e un governo. E così fu.

Sia concessa una breve parentesi: il nuovo sistema elettorale venne subito definito, con formula giornalisticamente felice ma volutamente dispregiativa, “Mattarellum”. Credo che l’abuso di questa espressione non abbia certo aiutato una corretta e imparziale valutazione del sistema elettorale; perché marchiandolo come “Mattarellum” lo sì è, vuoi pure inconsapevolmente, finito col giudicare negativamente “a prescindere”. E lo stesso vale per il “Tatarellum”, altro conio lessicale, prodotto dalla stessa penna e riferito al sistema elettorale regionale; a maggior ragione, poi, il discorso vale per l’attuale legge elettorale, che viene definita addirittura “Porcellum”, solo perché in un’intervista l’on. Calderoli definì la legge una “porcata”. Chiusa parentesi.

Quindi: i cittadini italiani nel 1993 vollero affermare l’esigenza di avere una legge elettorale in grado di produrre una maggioranza e un governo, e quindi uno sviluppo del sistema politico in senso bipolare. Così come si è verificato ogniqualvolta si è andati a elezioni: nel 1994, nel 1996, nel 2001, nel 2006 e nel 2008. Qualcuno dice che si tratta di un “bipolarismo conflittuale” (è difficile però immaginare un bipolarismo “amicale”….), ma è un bipolarismo grazie al quale si è potuto così – finalmente, è il caso di dire – consentire all’elettore italiano di fare quello che gli elettori delle democrazie occidentali fanno già da tempo, e cioè di scegliere i propri governanti; quindi designare il governo votando per la sua maggioranza parlamentare, sulla base di un programma elettorale, che poi è destinato a divenire l’attività di indirizzo politico per la durata della legislatura. Si è così riusciti a portare l’Italia in Europa, con riferimento al metodo del governare. Infatti: il panorama europeo delle forme di governo –al di là del “modellino” parlamentare o semipresidenziale– è a larga prevalenza fondato sulla legittimazione diretta dei governi, in cui il corpo elettorale è messo in condizione di scegliere chi deve governare. In tal modo, è come se stia venendosi a formare un patrimonio costituzionale europeo anche in tema di forma di governo, oltreché, come noto, in tema di diritti di libertà; e che questo patrimonio costituzionale europeo è quello del buon governo, scelto dal corpo elettorale e responsabile di fronte a esso. Un governo soggetto al giudizio degli elettori, che possono agire su di esso per il tramite del voto, che può essere di premio o di sanzione, ovvero di rinnovo o di negazione della fiducia.

Ancora: si è potuto, sia pure con differenze, completare il disegno e lo svolgimento istituzionale degli esecutivi a livello comunale, provinciale e regionale, che prevedono la scelta immediata da parte degli elettori del Presidente e della sua maggioranza consiliare che lo sostiene fiduciariamente (peraltro sotto l’usbergo del simul stabunt simul cadent). Se il governo a livello locale è scelto direttamente dagli elettori non si vede perché altrettanto non dovrebbe farsi a livello nazionale, sia pure con il metodo dell’investitura piuttosto che dell’elezione diretta.

Quindi, è con l’assunzione del principio maggioritario che si viene a produrre un nuovo modo di governare e di fare l’opposizione. Certo, principio maggioritario da approntare nel suo duplice volto: come “regola per eleggere”, che attiene alle modalità di funzionamento della formula elettorale maggioritaria, ovvero a effetto maggioritario, e come “regola per governare”, che valorizza il principio di responsabilità politica e con esso il ruolo che il corpo elettorale assume ai fini della scelta del Governo. Con l’obiettivo di assicurare il formarsi di un governo stabile, efficace, che duri per l’intero corso della legislatura e che risponda del suo operato presso il corpo elettorale. Infatti, un Governo è stabile non solo in base alla sua durata in carica, ma anche quando la sua durata è periodicamente verificata e confermata da libere elezioni; un Governo, inoltre, è efficace quando le sue decisioni rispondono alle esigenze degli elettori, i quali possono confermare o sostituire quel Governo, creando così un regime di alternanza. Alla base di questo sistema c’è un processo di valorizzazione della sovranità popolare, la quale, in quanto corpo elettorale, è chiamata ad eleggere dei rappresentanti nella consapevolezza di eleggere anche i governanti. Il popolo-corpo elettorale, allora, prima di votare viene a conoscenza del programma di governo e degli uomini che lo attueranno; è messo in condizione di conoscere, preventivamente all’esito elettorale, quale indirizzo politico verrà perseguito qualora dovesse vincere (ovvero, qualora dovesse avere la maggioranza) uno schieramento politico oppure l’altro; è in grado di confermare col voto un Governo oppure far sì che risulti vincitore il Governo alternativo, il quale si sarà organizzato svolgendo un’opposizione costruttiva. È questa anche una nuova forma di libertà, riconducibile al principio della sovranità popolare: ovvero la libertà di essere associati nell’elaborazione delle decisioni; la libertà di partecipare direttamente e attivamente al formarsi della politica nazionale, attraverso la scelta “immediata” del titolare dell’indirizzo politico e, parimenti, la libertà di cambiare i governanti qualora abbiano demeritato.

Detto tutto ciò, un’ulteriore domanda: l’attuale legge elettorale consente il corretto esercizio del metodo maggioritario, il rafforzarsi del bipolarismo e l’investitura del governo da parte degli elettori? La risposta è senz’altro sì. Anzi: l’attuale legge elettorale esalta, meglio di altri meccanismi elettorali, la governabilità e il potere di scelta del governo da parte dei cittadini. Valori che in una democrazia matura sono imprescindibili.

Certo, è una legge perfettibile: per esempio eliminando il premio regionale per l’elezione del Senato e introducendo, anche lì come alla Camera, il premio nazionale, che è senz’altro compatibile con la Costituzione e in particolare con l’art. 57 nella parte in cui recita “Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale”, che si riferisce alla divisione dei collegi e non certo al risultato elettorale. Si può, altresì, immaginare di cambiare il meccanismo delle cd. “liste bloccate” (presente però in altri ordinamenti come la Germania), ma allora occorrerebbe reintrodurre le preferenze, che non pochi problemi ha procurato in termini di tenuta “morale” delle elezioni…

Ci sono tanti sistemi elettorali nel mondo; anzi, ogni Paese ha il suo. E’ come se in materia elettorale ci fosse una sovranità assoluta esercitata attraverso l’individuazione di un proprio sistema elettorale che non copia e riproduce modelli altrui. Si pensi alla Francia del doppio turno, alla Gran Bretagna dell’uninominale, alla Germania della clausola di sbarramento, alla Spagna dei collegi provinciali ristretti. Anche l’Italia ha un suo sistema elettorale, il cui intento è quello di riuscire a ottenere, di più e meglio di altri sistemi, quello che oggi serve alle democrazie in crisi per effetto della globalizzazione: avere una maggioranza e un governo, scelto e legittimato attraverso il voto degli elettori.