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“Bisogna avere il coraggio di dire che ci sono troppe pagine sporche nelle vicende della guerra civile italiana, scritte per comodità politica. E tante pagine bianche, tante storie mai scritte. Verità e sincerità, ecco cosa serve”. Giampaolo Pansa, scrittore e giornalista tra i più affermati in Italia, ci parla del suo ultimo libro I vinti non dimenticano (Rizzoli, 462 pp.), che fa parte di un ciclo di opere in cui l’autore ha riesaminato il periodo della Resistenza raccontando una storia finora rimasta sconosciuta.

Ancora una volta sono loro i protagonisti. Chi sono i vinti di cui parla in questa e nelle sue precedenti opere?

Ne Il Sangue dei vinti, il libro che dà origine a questo ciclo di opere, i vinti sono gli sconfitti fascisti. In Italia c’era stata la guerra civile, cominciata nel ’43 e finita nel ’48 – faccia attenzione, non nel ’45 – con le elezioni del 18 aprile vinte dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi sul fronte popolare. Il sangue dei vinti ripercorre i due anni successivi alla fine della guerra civile. Di ciò che era accaduto ai vinti fascisti non si era praticamente scritto nulla eppure ne sono stati uccisi ventimila, una cifra che ritengo persino al di sotto di quella reale. In questo ultimo libro, invece, ho molto allargato il concetto dei vinti. Tanto per cominciare ho parlato delle vittime dei bombardamenti alleati, di cui si è sempre detto poco. E’ vero che americani e inglesi erano venuti a liberarci dal nazifascismo, ma hanno bombardato a man salva e hanno fatto migliaia di morti in più rispetto a quelli fatti dalle rappresaglie tedesche. Poi i vinti sono anche gli antifascisti che avevano osato contrastare il predominio dei comunisti e che, dopo la fine della guerra, nel caso migliore sono stati ignorati – penso al caso del liberale Pizzoni, che era stato per tanto tempo il presidente del Cln dell’alta Italia – mentre nei casi peggiori hanno rischiato la pelle o sono stati addirittura uccisi, negli ultimi minuti di guerra o immediatamente dopo.

Vittime della storia di cui la storia finora non ha parlato. Ma vittime anche di una strategia precisa, quella del partito comunista che puntava all’instaurazione in Italia della dittatura rossa. Mi spiega meglio in cosa consisteva questa strategia di cui lei parla?

Si tratta di un tema che avevo già affrontato nei precedenti libri, ma che ne I vinti non dimenticano spiego in maniera più approfondita. Il fronte resistenziale era diviso e la sua fazione più importante, quella comunista, non aveva affatto come traguardo l’Italia che poi fortunatamente abbiamo avuto dopo la fine della guerra, cioè una democrazia parlamentare con delle leggi elettorali più o meno corrette e con i cittadini che scelgono qual è la maggioranza che deve governare. I comunisti miravano a tutt’altra cosa. Alla fine della guerra civile il loro obiettivo era chiaro e dichiarato: volevano dare una spallata, conquistare il potere e fondare quella che loro chiamavano una democrazia “progressiva”. Al di là dell’aggettivo, in apparenza inoffensivo, si sarebbe trattato dell’anticamera alla dittatura del proletariato, che a sua svolta sarebbe sfociata in una Italia trasformata in Stato satellite dell’Unione Sovietica, al pari dei paesi occupati dall’Armata Rossa come Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia e Germania dell’est.

Cosa ha fatto fallire questa strategia?

La presenza delle truppe inglesi e americane. I comunisti italiani erano consapevoli – perché lo era anche Stalin – dell’impossibilità di instaurare una dittatura rossa in Italia, dopo il Patto di Yalta che fortunatamente aveva fatto entrare il nostro paese nell’orbita occidentale.

Ci furono comunque dei tentativi da parte comunista anche dopo il ’48?

I nostri partigiani avevano conservato le armi e si erano preparati a questa spallata. Disponevano di una rete organizzativa che rimase intatta per qualche anno e avevano collegamenti molto forti con l’Unione Sovietica attraverso Praga. Il libro racconta questi fatti non soltanto con le mie parole e i miei giudizi, ma anche attraverso la narrazione di alcune significative vicende personali. Basta leggere, ad esempio, la storia del comandante partigiano Anton Ukmar nel capitolo Falce, martello e fucile.

Come è possibile che di tutto ciò non se ne sia mai parlato?

C’erano degli interessi culturali e politici molto precisi. Quando parliamo di egemonia culturale del Pci non parliamo di un fantasma, parliamo di una conquista reale. Il partito comunista era molto forte e Togliatti sapeva quanto il radicamento culturale nelle università, nelle case editrici, nei giornali, nelle scuole e nei sindacati fosse necessario a stabilire quel primato che la Democrazia Cristiana non sarebbe mai riuscita a strappargli. Per questo non se ne è mai parlato.

E oggi perché si continua a non volerne parlare?

Se la sinistra di derivazione comunista – che poi è tuttora quella maggioritaria – ammettesse queste verità, riconoscendo anche di aver detto bugie per anni, la conseguenza sarebbe un’ulteriore perdita di voti perché tutta la truppa degli ultrà rossi non lo accetterebbe. Ne ho parlato tante volte con numerosi leader del vecchio Pci, diventati poi Pds, Ds e adesso Pd. Loro stessi – e io sono abbastanza anziano per averli conosciuti tutti – parlando a tu per tu mi dicevano: “Certo che hai ragione, ma non possiamo dirlo perché i nostri elettori ci toglierebbero il voto. Sarebbe un disastro elettorale”.

Stiamo parlando della “grande bugia” a cui lei, tra l’altro, ha dedicato uno dei suoi libri. E che, da quel che dice, continuerebbe ad andare avanti…

Va avanti, ma ha sempre meno forza. Lo dice anche il successo di questo mio ultimo libro, che dopo neanche un mese -visto che è uscito il 6 ottobre- è il secondo libro più venduto in Italia e il primo della saggistica. I numeri parlano chiaro: una tiratura che per ora è di centoventimila copie, segno che non sono soltanto i lettori di destra e di centrodestra ad averlo apprezzato, ma che il libro ha fatto breccia su un pubblico più ampio, di opinioni diverse. E lo vedo anche dalle tantissime richieste che mi vengono rivolte per andare a presentarlo.

E’ vero che, invece, non lo presenterà perché teme nuove contestazioni?

E’ vero ed è stata una decisione che io e Adele – la mia compagna da più di vent’anni, che mi ha sempre aiutato nella scrittura dei miei libri – abbiamo maturato dopo una consultazione con gli editori e, soprattutto, con persone degli apparati dello Stato esperte in queste cose. Ogni volta si creerebbero troppe tensioni in chi ci invita, saremmo costretti a mobilitare la Polizia, i Carabinieri, la Digos. Si immagini se un fumogeno venisse lanciato in una libreria dove Pansa presenta il suo libro. Abbiamo ritenuto opportuno evitare che si verificassero situazioni del genere.

Eppure, dopo le minacce e le contestazioni che lei ha subito nel 2006 a Reggio Emilia in occasione della presentazione de La grande bugia, sostenne “l’importanza” – e la cito testualmente – “di restare calmi, non lasciarci intimidire e rendere ognuno libero di esprimere la sua opinione”. Ha forse cambiato idea?

Assolutamente no. Infatti resto calmo e continuo a pubblicare i miei libri revisionisti.

Non la considera un po’ una sconfitta?

No, non mi sento affatto sconfitto. Ho semplicemente preso atto di una realtà e non mi sembrava opportuno distogliere le forze dell’ordine dai compiti ben più importanti cui devono adempiere. E poi per cosa? Per occuparsi del mantenimento della sicurezza alle presentazioni del libro di Pansa?

Torniamo al libro. Prima parlava di una lettura ideologica della storia alla quale le sinistre non possono rinunciare. Ma quella che viviamo adesso è un’epoca post-ideologica, cominciata con la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino. C’è qualcosa che non quadra…

La realtà è un’altra: i cascami delle vecchie ideologie del Novecento sono ancora presenti. Non siamo affatto in un’epoca post-ideologica. Almeno, mi riferisco alla sinistra perché la situazione a destra è più indistinta e confusa.

I crimini che lei racconta furono commessi in diverse parti d’Italia, tra cui la Toscana. Nel suo libro parla della caccia al fascista e delle esecuzioni sommarie avvenute a Firenze, Pisa, Prato, Carrara, Arezzo. Del campo di concentramento di Coltano, dove finirono fascisti di ogni tipo. Una brutalità omicida che non fece distinzioni nei rastrellamenti, coinvolgendo molti innocenti e tanti fascisti che furono tali più di nome che di fatto. Troppe storie per ricordarle tutte. Ne scelga una…

La storia toscana che mi ha affascinato di più è quella dei cecchini fascisti a Firenze, molti dei quali sono morti. Sono persone che si sono immolate per la loro fede politica e per la fiducia che avevano nell’ideologia.

Tra le tante storie di innocenti proprio loro, i “cattivi”?

I cattivi per chi? Forse nei racconti resistenziali scritti dagli autori comunisti. In una guerra civile come quella che c’è stata in Italia è impossibile fare distinzioni tra buoni e cattivi, tra il bene e il male. La parte maggioritaria della Resistenza voleva sostituire alla dittatura nera una dittatura rossa. Erano buoni o cattivi? Parlare in questi termini ha poco senso. I cecchini erano soltanto fascisti che volevano dimostrare con un gesto estremo che c’era qualcuno a Firenze che si opponeva all’occupazione – loro la chiamavano così – diversamente da quanto era accaduto a Roma e a Siena, dove americani e inglesi erano entrati senza incontrare resistenze. Si trattava di ragazzi e ragazze, molti di loro tra i diciannove e i venti anni, che credevano nel fascismo e lo hanno difeso fino alla fine, correndo il rischio di farsi uccidere. E molti di loro hanno perso la vita.

Di cosa c’è bisogno per superare le resistenze e fare finalmente i conti con il nostro passato?

C’è bisogno di verità. Ma se si rincorre sempre l’interesse della parrocchia politica a cui si appartiene la verità non la troveremo mai. Poi c’è bisogno di sincerità, il coraggio della sincerità. Il coraggio di dire che ci sono troppe pagine sporche nelle vicende della guerra civile italiana, scritte per comodità politica. E tante pagine bianche, tante storie mai scritte.

Cosa risponde a chi le dice che è un revisionista?

Rispondo: “Certo, e vorrei esserlo anche di più”. Ho scritto addirittura un libro di cinquecento pagine, in gran parte autobiografico, intitolato Il revisionista. Ma mi sento soprattutto un “completista”, uno che vuole la storia completa. La storia non è fatta di vicende che conviene raccontare e di altre che è meglio tacere perché non convengono alla nostra parte politica.

Perché in Italia il revisionismo non piace?

Ma chi lo dice che non piace?

Per esempio lo dice il fatto che chi le dà del revisionista lo fa per lo più in senso dispregiativo..

Ma come spiega allora che i libri della sinistra sulla guerra partigiana non vendono mai una copia mentre i libri di Pansa vendono tanto? Perché I vinti non dimenticano ha questo successo? Glielo dico io, perché Pansa senza essere di destra ha scritto un onesto libro di storia da destra. Un atteggiamento contrario a quello degli storici comunisti che hanno cattedre, vanno in tivù, ma non vendono una copia.

Quindi secondo lei si tratta più di un problema di offerta che di domanda?

Domanda e offerta non sono mai disgiunte. In questo momento c’è una domanda superiore all’offerta e un autore come Pansa evidentemente colma un vuoto. Credo di essere apprezzato perché trasmetto un messaggio chiaro e non trucco le carte.

Si dice che studiare il passato serva per capire il presente e progettare il futuro. Qual è il consiglio che dà alle nuove generazioni?

Ai giovani vorrei dire che il piatto non si riempie gratis, ma bisogna sempre pagare la minestra che si vuole mangiare. Non ci si deve illudere che basti una laurea, magari presa a trent’anni andando fuori corso, per avere un buon posto a tempo indeterminato. I giovani devono imparare che tutto quello che potranno avere se lo devono conquistare. Non credano di essere in debito verso la società degli adulti o degli anziani, perché se hanno questa folle idea in testa che tutto sia loro dovuto non avranno mai nulla. Devono lavorare, sacrificarsi e accettare le condizioni che la società di oggi impone. Con grande fatica e con grande pazienza.