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La storiografia delle politiche razziali antiebraiche nell’Italia fascista ha subito uno sviluppo straordinariamente rilevante nel corso di mezzo secolo. Negli anni sessanta, le conoscenze su questo tema erano racchiuse quasi interamente nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice [De Felice 1961], opera tanto più rilevante e meritoria in quanto rompeva un lungo silenzio attorno ad esso e anche attorno al tema dello sterminio degli ebrei nei lager nazisti. In questo silenzio anche la sinistra antifascista (e, in particolare, comunista) aveva avuto una responsabilità non secondaria.

Erano gli anni in cui si tendeva a spiegare il razzismo come una manifestazione dell’odio di classe. Gli ebrei internati e sterminati nei lager rientravano nella generica categoria di “deportati” e le politiche razziali del fascismo erano viste come una delle tante infamie della dittatura, neppure tra le più efferate. La tendenza a considerare il razzismo antiebraico del fascismo come un fenomeno secondario e privo di interesse specifico si sommava alla tendenza a sottolinearne le differenze con quello hitleriano. Si finiva col parlare di razzismo “blando”. In fondo – si diceva e si scriveva – il fascismo “discriminava, non perseguitava” gli ebrei, quasi che essere cacciati dal posto di lavoro per motivi di razza fosse una innocua penale in un gioco di società. Tutto il male veniva addossato al razzismo germanico. In questa tendenza all’assoluzione o alla minimizzazione hanno giocato un ruolo importante coloro che si erano compromessi non soltanto con il regime – costoro erano la stragrande maggioranza degli italiani – ma con le politiche razziali e che avevano mostrato uno zelo neppure richiesto nel promuovere la campagna razziale.

Nel suo libro, De Felice ricordava come l’Italia, negli anni trenta e quaranta, avesse visto una produzione di pubblicistica antisemita «vastissima quanto mai si possa immaginare». Nel 1946, gli autori dei misfatti razziali e coloro che si erano compromessi furono assolti con grande generosità. Furono loro restituite le posizioni di potere di cui avevano goduto negli anni del fascismo, al punto che essi si trovarono persino a gestire la reintegrazione di coloro che avevano perseguitato. Vi fu persino chi fu epurato soltanto perché non era stato antifascista pur essendo stato vittima del fascismo in quanto ebreo. L’occultamento e il rovesciamento delle responsabilità è testimoniato dal numero delle aule o istituti universitari che, nel dopoguerra, sono stati intitolati a coloro che si erano quantomeno sporcati le scarpe con la politica razziale del regime. In questa gigantesca opera di “lavacro”, destra e sinistra hanno purtroppo messo in opera tristi forme di connivenza che la letteratura più recente sta mettendo in luce non senza suscitare reazioni di fastidio o di ira.

In questo contesto, un capitolo specifico riguarda gli intellettuali che, come osservò lo stesso De Felice, furono la categoria più coinvolta, e massicciamente, nella campagna razziale. Come stupirsi allora se, nell’ambito degli studi storici sulle politiche razziali del fascismo, la “questione degli intellettuali” è stata clamorosamente trascurata? Era ovvio che chi deteneva gli strumenti dell’analisi storica non fosse disponibile a rivolgerli contro sé stesso o anche soltanto contro i propri colleghi, che già l’amnistia politica aveva lavato di ogni colpa per i misfatti commessi o per le grandi e piccole viltà. Sotto questo profilo, non è neppure da stupirsi che il libro di De Felice sia stato allora accolto con scarso favore ed abbia anzi destato reazioni di fastidio. Esso rappresentò un atto di coraggio notevole per la denuncia aspra che vi si faceva delle compromissioni degli intellettuali con le politiche della razza:

Due settori in particolare […] offrirono all’antisemitismo un certo numero di adesioni non trascurabile: la cultura e i giovani. […] Che la cultura italiana, fascista e profascista che essa fosse, abbia aderito su larghissima scala all’antisemitismo non è un mistero per nessuno. […] Pochi uomini di cultura anche tra coloro che godevano di tali posizioni di prestigio da non avere nulla da perdere, seppero mantenersi estranei alla canea di quegli anni. L’unico dei «grandi» che forse più seppe farlo fu Gentile. Tra gli altri, casi come quello di Bontempelli – che osò rinfacciare a Bottai la sua adesione all’antisemitismo – come quello di G. E. Barié – che all’Università di Milano insorse pubblicamente contro chi voleva vedere nella filosofia di Spinoza una prova del «pervertimento giudaico» –, come anche quello di Marinetti, rimasero casi isolati. E non si venga a gettare la colpa di questa abiezione sul regime solamente: chi non volle unirsi alla canea lo fece, rinunciando agli onori e alle prebende, è vero, ma salvando il suo onore e la sua dignità di uomo di cultura. […] Il fatto è che troppi «uomini di cultura» videro nell’antisemitismo di Stato una maniera per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori e le loro invidie contro questo o quel loro collega. [De Felice 1961, p. 442-4.]

Tuttavia, nel suo libro De Felice decideva di non insistere su questo tema, di non sviluppare un esame esaustivo della letteratura antisemita “colta”, per non avviare una sorta di «caccia alla rovescia». Non ci interessa tentare di capire se si sia trattato di un atto di generosità nei confronti dei colleghi. Quel che conta è che qui risiede la maggiore debolezza del libro di De Felice. La sua analisi sorvola completamente, o quasi, sul mondo intellettuale e universitario. Spesso mancano o sono appena menzionati protagonisti di primo piano della politica razziale. Ad esempio, quasi non si cita Sabato Visco, che pure fu a capo dell’Ufficio Razza del Ministero della Cultura Popolare.

Nel parlare del cosiddetto Manifesto degli scienziati razzisti si compiono clamorosi errori, come quello di menzionare Pende come l’unica «figura di primo piano» tra i firmatari, quasi che si trattasse di una lista di «giovani assistenti» o figure modeste, mentre tra di esse vi era il Presidente dell’Istat Franco Savorgnan e il patron della psichiatria italiana Arturo Donaggio. Ma la conseguenza più negativa dell’aver omesso un’analisi dell’atteggiamento del mondo culturale e universitario era la riduzione della vicenda del razzismo fascista a una questione meramente politica e persino soltanto di politica internazionale, e quindi l’aver accreditato la tesi secondo cui il fascismo non aveva mai avuto propensioni razziste, tantomeno antisemite e che la scelta di promulgare una legislazione razziale era stata conseguenza del patto d’acciaio con Hitler, e quindi soltanto una concessione all’alleato nazista. Questa tesi venne in effetti sostenuta da De Felice, anche se poi egli la corresse nella biografia di Mussolini, in cui sottolineava l’esistenza di un filo che legava le politiche pronataliste ed eugenetiche del fascismo con le politiche razziali, ammettendo quindi l’esistenza di correnti razziste autoctone. Ma su questo torneremo nel seguito.

Quel che ci preme sottolineare è che l’opera di De Felice, malgrado alcune affermazioni che andavano in senso opposto, mise in discussione soltanto in parte la diffusa interpretazione riduttiva del razzismo fascista. Poteva così accadere – non per responsabilità di De Felice, ovviamente, ma per l’inesistenza di una letteratura approfondita sull’argomento – che anche uno storico avvertito come George Mosse emettesse affermazioni avventate come questa:

L’Italia ha protetto i suoi ebrei ovunque le sia stato possibile. Nell’ottobre 1938 Mussolini aveva promulgato le proprie leggi razziali, che vietavano i matrimoni misti, escludevano gli ebrei dal servizio militare e proibivano loro di avere grosse proprietà terriere; egli però volle che questa legge fosse inoperante nei confronti di quegli ebrei che avevano partecipato alla prima guerra mondiale o al movimento fascista e coniò personalmente lo slogan “discriminare, non perseguitare”. Le leggi razziali avevano lo scopo di dare al fascismo, ormai invecchiato al potere, un nuovo dinamismo – un compito che esse non avrebbero assolto dato che in Italia non esisteva una tradizione razzista antiebraica. Le leggi razziali intendevano anche rappresentare un gesto di amicizia verso Hitler, ma nemmeno in questo caso diedero risultati migliori, anzi i nazisti si meravigliarono per il fallimento fascista nel far osservare le leggi. Mussolini non era un razzista […] [Mosse 1985, p. 214-5].

È bizzarro considerare la promulgazione di leggi razziali “blande” come la miglior forma di proteggere i propri ebrei «ovunque fosse possibile». Di fatto, Mosse si lasciava ingenuamente incantare proprio dallo slogan mussoliniano e ne faceva una chiave di interpretazione storiografica. Quanto al fatto che Mussolini fosse un razzista, era sufficiente ascoltare il dittatore stesso per rendersene conto. È indubbio che il razzismo, in particolare antisemita, ebbe un ruolo costitutivo nell’ideologia nazista, mentre non lo ebbe mai in quella fascista. È altrettanto indubbio che le leggi razziali fasciste furono meno severe di quelle naziste, che non vi fu una politica di deportazione e sterminio, e la collaborazione con le politiche razziali naziste si limitò al periodo della Repubblica Sociale. Ma ciò non autorizza a liquidare la questione del razzismo fascista come una sorta di escrescenza marginale prodotta da scelte opportunistiche in politica estera.

L’esistenza di un coinvolgimento del mondo intellettuale, vastissimo al di là di ogni immaginazione – per dirla con De Felice – imponeva di sviluppare un’analisi più approfondita del ruolo di tale mondo, e in particolare di quello scientifico, che era naturalmente coinvolto in una tematica “scientifica” come quella della razza. Ma una simile ricerca storiografica iniziò soltanto verso la fine degli anni ottanta, senza volere con ciò togliere nulla all’importanza di contributi come quelli di Roberto Finzi, Michele Sarfatti e Mario Toscano. Un passo decisivo fu rappresentato dal Convegno sul cinquantenario delle leggi razziali, promosso nell’ottobre 1988 dal presidente della Camera dei Deputati Nilde Iotti. Tale Congresso, sebbene prevalentemente dedicato agli aspetti legislativi, vide alcuni primi tentativi di affrontare la tematica culturale e scientifica; in particolare da parte di Gabriele Turi, sul tema del ruolo e destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo, e da parte di chi scrive, sul tema del ruolo della comunità scientifica e delle conseguenze subite dalla scienza italiana. Dopo pochi anni un importante articolo di Mauro Raspanti [Raspanti 1994] propose un’analisi dell’ideologia del razzismo fascista che evidenziava l’esistenza di diversi “razzismi” del fascismo.

Il 1998, sessantesimo anniversario delle leggi razziali, ha segnato l’inizio di una nuova letteratura sull’argomento che si è espansa del decennio successivo a un livello quantitativo sorprendente, anche se non sempre a un livello qualitativo altrettanto elevato. Ogni tentativo di citazione condurrebbe a omissioni e non intendiamo fare torto a nessuno. Il merito di questa nuova letteratura è stato di aver preso di petto le questioni cruciali lasciate aperte dalle interpretazioni precedenti, e che potremmo riassumere nei seguenti interrogativi. Le politiche razziali del fascismo furono dettate esclusivamente da scelte di politica estera, e in particolare dall’alleanza stretta con Hitler, oppure ebbero radici e motivazioni autoctone? Il razzismo fu un elemento costitutivo dell’ideologia fascista? In caso affermativo, quale fu la natura della concezione razzista del fascismo ed è fondato asserire che nel fascismo si confrontarono diverse visioni del razzismo? L’antisemitismo fu un elemento costitutivo dell’ideologia fascista, come lo fu di quella nazista? Quale fu il livello di coinvolgimento della società italiana, nei suoi differenti strati, nelle politiche razziali antiebraiche? In che misura il mondo scientifico si compromise nelle politiche razziali e diede un contributo alla loro formulazione teorica? Quale ruolo ebbero le ricerche nel campo dell’eugenetica e della teoria delle popolazioni nella definizione di un’ideologia razzista in Italia? Le politiche razziali ebbero conseguenze sul mondo della cultura e della scienza paragonabili a quelle verificatesi in Germania?

Si potrebbe continuare, ma l’elenco precedente è sufficiente a delineare un programma di ricerca molto vasto e che travalica i limiti ristretti entro cui si erano sviluppate le analisi storiografiche sull’argomento fino a una quindicina di anni fa. Non tenteremo qui di descrivere le caratteristiche di questa nuova letteratura e il tipo di risposte che sono state date alle domande precedenti. Ci limiteremo a dire che un tratto della storiografia dell’ultimo decennio è stato il superamento dell’idea secondo cui le politiche razziali del fascismo sono da ricondurre esclusivamente a scelte di politica estera. Ma al di là di questo tratto comune le risposte divergono, e anche di molto, soprattutto sul tema del ruolo della scienza e degli scienziati nonché sulla valutazione delle caratteristiche dell’ideologia fascista della razza. Nel 1998 uscì presso le edizioni de Il Mulino un libro, scritto da me e Pietro Nastasi, dal titolo Scienza e razza nell’Italia fascista. Lo scopo era di analizzare il «ruolo che la questione scientifica e gli scienziati hanno avuto nello sviluppo delle politiche razziali», sul quale – scrivevamo – «pochissimo è stato scritto nel nostro paese» [Israel, Nastasi 1998, p. 8-9]. La tesi fondamentale del libro – che ritengo possa essere riproposta senza sostanziali modifiche – era la seguente:

Il mondo scientifico italiano si è lasciato coinvolgere in modo assai rilevante nella politica della razza, anche se si è raramente abbandonato a forme di razzismo estremo del tipo di quello germanico. In fin dei conti, il primo documento ufficiale con cui prende le mosse la politica della razza è un Manifesto degli scienziati razzisti. Inoltre, anche in Italia si è sviluppata una tematica scientifica tendente a giustificare il razzismo. Tuttavia, essa è servita prevalentemente ad affermarne una visione “italica” (dominata da un approccio “spiritualistico”) che è stata sostenuta e difesa di fronte all’alleato germanico, anche nei momenti in cui l’alleanza era strettissima. Ciò dimostra che il razzismo italiano non fu affatto un fenomeno di pura e semplice importazione del razzismo nazista, anche se la scelta razziale fu certamente influenzata dall’alleanza con la Germania. Proprio nel mondo scientifico si levarono voci tese a difendere questa autonomia e specificità italiane e, al contempo, ad affermare la piena adesione ai provvedimenti legislativi antiebraici del regime.

Questi aspetti e queste teorizzazioni sono stati finora trascurati del tutto o bollati come marginali e insignificanti. Proprio qui risiede la causa della clamorosa insufficienza della storiografia nell’analisi del razzismo nell’Italia fascista. Si è confusa l’abiezione morale o l’inconsistenza teorico-scientifica con la pura e semplice inesistenza del fenomeno: in altri termini, poiché i razzisti “scientifici” erano immorali e magari sciocchi e ignoranti, le loro teorizzazioni erano irrilevanti e prive di peso. Purtroppo, la logica che ispira siffatti ragionamenti è banalmente falsa: tanto varrebbe dire che, siccome il Mein Kampf di Adolf Hitler è teoricamente inconsistente, esso fu anche ininfluente. Il razzismo scientifico italiano è esistito, ha avuto consistenza. Anzi, è nella corrente della demografia e dell’eugenica che è stato allevato l’interesse per la questione razziale, anche come questione politica, e sono state costruite le giustificazioni per le scelte pratiche poi assunte. Ignorando la questione scientifica, la storiografia ha ignorato ipso facto la questione razziale in Italia.

Queste critiche rivolte alla storiografia non possono essere più riproposte oggi, a distanza di un decennio, nel corso del quale è stata pubblicata una gran messe di studi che affrontano la questione scientifica, sia pure, in pochi casi, per ribadire il diniego della sua rilevanza. La ripubblicazione del libro non poteva quindi essere fatta come se nulla fosse avvenuto. Appariva necessaria una riscrittura completa che tenesse conto delle nuove acquisizioni storiografiche e che si confrontasse con le tesi formulate in questi anni (e anche con talune critiche espresse nei confronti del libro), che facesse ricorso a materiali bibliografici o archivistici successivamente acquisiti, omettendo invece la trascrizione in appendice di documenti allora difficilmente reperibili e oggi largamente disponibili. Con queste finalità ho realizzato il libro presente, da solo, poiché il collega Pietro Nastasi non era disponibile a questa impresa proposta da Ugo Berti che ringrazio per l’interesse e la stima.