“Il multiculturalismo ha fallito, completamente fallito” è così che Angela Merkel, circa un mese fa, davanti ai giovani dell’Unione dei Cristiano Democratici (CDU), è entrata nel lungo ed intenso dibattito sull’integrazione che da quest’estate tiene occupata e divide l’intera Germania. Difficile dare torto alla Cancelliera tedesca. Dall’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001, all’uccisione del leader olandese Pim Fortuyn del 2002 e del regista Theo van Gogh nel 2004, il fallimento del multiculturalismo è evidente a tutti. La confinante Olanda è il paese in cui, in modo più evidente di altrove, il multiculturalismo da modello è diventato un “dramma”. Del resto già nel 2000 il sociologo olandese Paul Scheffer, in un articolo sulla questione dell’immigrazione nel proprio paese, parlava esplicitamente di “Dramma multiculturale” e di “illusione cosmopolita”. Forse troppo a lungo si è voluto ignorare un problema esploso nei primi anni del 2000 e che oggi, in Olanda, è nelle mani di Geert Wilders.
“Non c’è alcuna differenza tra Islam ed Islamismo”, “l’islam non ha alcuna possibilità di modernizzarsi”, “l’islam è una ideologia che promuove la violenza così come in passato il Fascismo ed il Comunismo” – queste sono alcune delle espressioni di Geert Wilders, il politico che forse più di ogni altro si sta impegnando per fronteggiare ed ostacolare l’avanzamento dell’Islam in Occidente. Il leader olandese ha in mente, come ha detto a Berlino a fine settembre, un’Alleanza per la libertà, della quale dovrebbero far parte la Germania, gli Usa, la Gran Bretagna, il Canada e la Francia e naturalmente l’Olanda. I toni usati sono forti (“L’Islam è una malattia”, “L’Islam è dominato da fanatici”) e le sue tesi radicali (“Rifiuto dell’immigrazione dai paesi abitati a maggioranza da musulmani”), ma Wilders si considera (forse anche sopravvalutandosi) il salvatore dell’Occidente. Ha però individuato il problema, vuole affrontarlo di petto e cerca di farsi interprete delle esigenze dei cittadini: o dobbiamo continuare a mentirci per altri decenni ed in venti o trent’anni anni affronteremo sempre lo stesso dibattito perchè noi oggi abbiamo rifiutato di risolverlo?
Lo scorso settemebre, Geert Wilders è stato invitato in Germania da René Stadtkewitz, parlamentare nel Land di Berlino, al tempo ancora nella CDU che come risultato ha ottenuto l’espulsione dal suo partito e ne ha, così, fondato un altro: “Die Freiheit/La Libertà”. Alla fine di ottobre si è svolto il congresso costitutivo e che è già pronto a competere per le prossime elezioni nel Land della capitale tedesca fra poco meno di un anno. Si tratta di un partito che sarà probabilmente una sorta di avamposto tedesco di Geert Wilders: nazionalista, contro l’islamismo e l’islamizzazione della società tedesca, in difesa di Israele e contrario all’entrata nell’Unione Europea della Turchia.
Qualche giorno prima della visita di Geert Wilders in Germania ad aprire il dibattito su islam ed integrazione è stato però, e forse anche un po’ a sorpresa, Thilo Sarrazin, un economista “di sinistra”, già ministro delle Finanze, iscritto ai Socialdemocratici tedeschi (SPD) e consigliere della Banca di Germania in quota SPD. Il suo libro “La Germania si autodistrugge” (Deutschland schafft sich ab) ha creato un vero e proprio terremoto politico, con l’inizio di una discussione che è andata ben oltre le pur provocatorie tesi di Sarrazin. Il libro dell’economista tedesco è stato una sorta di allarme per la società e per la politica in Germania, o forse solo un grido di paura per una società, quella tedesca appunto, che sta lentamente ma inesorabilmente perdendo i suoi connotati tradizionali e si sta letteralmente de-germanizzando.
Sarrazin riporta una serie di dati dimostrando come la Germania, nonostante resti ancora oggi tra i paesi più ricchi in Occidente, non occupa più i primi posti della classifica, superata, infatti (anche se i dati si riferiscono al 2008), da Stati Uniti, Svizzera, Olanda, Svezia e Gran Bretagna. La migliore università tedesca, la Ludwig-Maximilians-Universität (LMU) di Monaco, è al cinquantacinquesimo posto nella graduatoria internazionale. Le nascite in Germania erano 1.3 milioni negli anni sessanta, 650.000 nel 2009 e, di questo passo, fra novant’anni saranno tra 200 e 250.000. La popolazione tedesca è destinata a diminuire a 25 milioni fra cento anni, a 8 milioni tra duecento e 3 milioni fra trecento. Per descrivere questo processo inesorabile, Thilo Sarrazin, molto efficacemente, ricorda il celebre film del 1957 “Radiazioni BX: distruzione uomo” di Jack Arnold in cui il protagonista causa una nube radioattiva, subisce un processo di graduale, costante ed irreversibile rimpicciolimento che lo porterà, di fatto, alla sparizione.
Il problema, però, è che al contempo aumentano sempre di più gli immigrati (musulmani in particolare) che hanno oggettive difficoltà ad integrarsi: parlano a stento il tedesco, vivono di sussidi statali (problema grave e molto sentito in Germania) e l’orizzonte culturale di riferimento resta sempre e soltanto quello del proprio gruppo nazionale di appartenenza. In compenso sono particolarmente fertili, al contrario di gran parte dei tedeschi – e qui il discorso si potrebbe allargare anche al resto d’Europa. Thilo Sarrazin porta l’esempio del grosso quartiere Neukölln di Berlino, dove di 305.000 abitanti 120.000 sono turchi o arabi (ai quali vanno aggiunti circa 20 o 30.000 di altri immigrati illegali). Oramai il quartiere viene considerato la più grande città turca in Germania. Il problema, in questo caso, è che negli anni sessanta e settanta la Germania è stata terra di migrazione in particolare per italiani e turchi, ma mentre gli italiani sono tornati in Italia o sono rimasti cercando, con più o meno successo, di integrarsi, i circa 750.000 turchi degli anni settanta sono rimasti ed hanno anche fatto arrivare in Germania la propria famiglia con il risultato che oggi sono circa 3 milioni.
Sarrazin ritiene, in conclusione, che la politica di integrazione sia stata un sostanziale fallimento perché non ha voluto prendere atto che il 95 per cento degli immigrati vengono dalla Turchia, dall’Africa, dal Medio o Vicino Oriente e sono di religione musulmana. Considerato, poi, la scarso livello di formazione culturale e di partecipazione al mercato del lavoro degli immigrati turchi (o più in generale musulmani) l’allarme di Sarrazin è che tra qualche decennio la società tedesca non solo perderà ancora maggior competitività, in quanto la teste migliori e con una migliore formazione non fanno figli, ma soprattutto non esisterà la Germania così come la conosciamo oggi.
Alla pubblicazione del libro di Sarrazin è seguito un ampio dibattito che dura tutt’ora e che sta dominando la politica tedesca, ma forse potremmo dire anche nord-europea. E’ qui naturalmente impossibile riassumere la varie posizioni, tuttavia un fattore non può essere tralasciato. Alle pur controverse tesi di Sarrazin (soprattutto lì dove l’economista tedesco parla di una inferiorità genetica e di trasmissione dell’intelligenza), la politica tedesca non si è assolutamente sforzata di capire da dove venissero, di cercare di capire perchè un economista affermato, famoso e certo non alla ricerca di visibilità politica, abbia lanciato quest’allarme. Al contrario è stato attaccato, criticato e costretto alle dimissioni dal Consiglio della Banca di Germania. C’è stata, insomma, una condanna a priori.
La stessa Angela Merkel ha addirittura sostenuto di non voler neanche leggere per intero quel libro, le sono stati sufficienti gli stralci letti sui giornali. Il leader dei Socialdemocratici tedeschi, Sigmar Gabriel, ha criticato la gran parte delle tesi dell’economista del suo stesso partito (in maniera anche sorprendentemente dettagliata) sia in televisione sia in un lungo articolo sulla Zeit. Eppure il libro ha venduto quasi due milioni di copie e secondo un sondaggio dell’Info-Institut di Berlino uscito sullo Spiegel circa il 37 per cento dei tedeschi ha dichiarato di condividere gran parte delle tesi di Sarrazin e, infine, un partito-Sarrazin, sempre secondo i dati riportati dalla stampa tedesca, oscillerebbe tra il 10 ed addirittura il 18 per cento. Da una parte, dunque, la politica si è schierata compatta, da destra a sinistra, contro Sarrazin, dall’altra sembra però che i cittadini si siano in qualche modo sentiti rappresentati dalle sue tesi. Del resto, il problema dell’integrazione è molto sentito dai cittadini, ma la politica, o almeno gran parte di essa, sembra non essere ancora riuscita a farsi veramente interprete delle loro esigenze ed a dare risposte anche alle paure ed insicurezze dei cittadini stessi rispetto ad un fenomeno nuovo e di proporzioni forse mai così massicce: il flusso migratorio.
Nel maggio del 2004 il giornale turco Hürriyet riportò un dialogo avvenuto in una cena tra imprenditori turchi e tedeschi, in cui l’imprenditore turco-tedesco Vural Öger affermò che nel 2100 ci saranno in Germania 35 milioni di turchi, mentre i tedeschi saranno circa 20 milioni. Ed aggiunse, secondo quanto riportato dal giornale turco: “ciò che il sultano Solimano I il Magnifico iniziò nel 1529 con l’assedio di Vienna, lo realizzeremo noi oggi con i nostri uomini forti e le nostre donne in salute”. Ora, stando a quanto sostenuto dall’imprenditore, quest’affermazione voleva essere soltanto uno scherzo ed una provocazione per invitare le donne tedesche a fare più bambini, ma resta il fatto che la popolazione autoctona tedesca è allo stesso livello di quarant’anni fa e nel giro delle prossime tre generazioni i tedeschi diminuiranno a circa 20 milioni. Infine, è comunque realistico – come sostenuto sempre da Thilo Sarrazin – che la popolazione musulmana possa crescere da qui al 2100 a circa 35 milioni grazie alla combinazione di elevati indici di natalità e continua immigrazione verso la Germania. Il cambiamento demografico ed i flussi migratori sono dunque un problema reale e strettamente legato al problema dell’integrazione.
Del resto questa questione è stata anche ripresa dal Ministro della Difesa tedesco Karl Theodor zu Guttenberg, che, con i suoi trentanove anni, è il nuovo astro nascente della politica tedesca e rappresenta la speranza dell’ala più conservatrice del centro-destra tedesco. Zu Guttenberg, nel suo discorso, poco più di un mese fa, nell’ambito dei festeggiamenti per la riunificazione della Germania, ha affermato che ogni generazione ha i suoi compiti assegnati dalla storia; e la nostra (e qui sta parlando appunto un ministro di neanche quanrant’anni) ha il compito di dominare i flussi migratori ed i cambiamenti demografici, ma non abbiamo nessun modello precedente a cui poterci ispirare. Per Karl Theodor zu Guttenberg la globalizzazione non vuol dire che lo Stato Nazionale sparirà o verrà meno, bensì resterà un’istituzione fondamentale, perché fondamentale resta la conoscenza della propria storia, delle proprie tradizioni e della propria identità, proprio al fine di poter accettare e meglio integrare gli eventuali immigrati. L’apertura al mondo non può prescindere, infine, da un sano e produttivo Patriottismo ed i cristiano-democatici tedeschi non devono certo vergognarsi di difendere e tutelare i valori della tradizione cristiano-giudaica (Alle Gewalt geht vom Worte aus, Frankfurter Allgemein Zeitung 13/10/2010).
Ragionare e ripensare il rapporto tra identità, integrazione ed immigrazione è diventato, come è evidente, estremamente difficile. Gli attacchi terroristici, le guerre in Medio Oriente, il crescente aumento dell’influenza della religione islamica in Occidente, il nuovo equilibrio tra stati nazionali e grandi istituzioni sovranazionali, tutto questo ha reso ancor più complesso l’approccio a questo tema. Molto spesso si oscilla tra il multiculturalismo ed il nazionalismo (e/o localismo), tra l’apertura indiscriminata delle frontiere e la chiusura ad oltranza, ed inoltre, come ha recentemente affermato in una articolo sulla Zeit (Das Ende des liberalen Jahrhunderts, 28/10/2010) il sociologo olandese Paul Scheffer, le élite culturali e politiche di gran parte dei paesi occidentali non hanno alcuna idea veramente convincente per considerare la migrazione come parte costante della società occidentale, manca una visione nella quale l’integrazione europea funzioni come riparo delle democrazie nazionali. Da una parte c’è, dunque, un’enorme richiesta di nuove misure di contrasto all’immigrazione, dall’altra, la politica ha spesso difficoltà a trattare in modo organico, senza ideologismi ed in maniera neutra un tema, che negli ultimi mesi è diventato di grande attualità in tutto il mondo Occidentale.
Non è, però, soltanto una questione di sicurezza interna in quanto, come dimostra il dibattito tedesco sull’integrazione, ciò che spesso si rimprovera agli immigrati è la scarsa voglia di inserimento e la deficitaria formazione culturale. E non è neanche una questione di quanti anni devono passare perché un immigrato possa eventualmente ottenere la cittadinanza, perché mai come oggi è diffusa l’emigrazione temporanea per motivi di lavoro o economici. La cittadinanza, inoltre, non è ovviamente un diritto ma un semmai un patto, è un riconoscimento di un determinato sistema di valori e non può certo essere il punto di partenza dell’integrazione, ma naturalmente il completamento di un processo di integrazione che non può che prevedere diversi stadi e/o livelli. Bisogna, dunque, ripensare e ristabilire i parametri nel rapporto tra l’identità nazionale, il fenomeno dell’immigrazione e la necessità di integrare gli immigrati regolari.
Per realizzare questo compito le parole d’ordine del passato, multiculturalismo da una parte e nazionalismo dall’altra, sono concetti oramai superati dalla storia; non offrono più quel patrimonio concettuale sufficiente a risolvere le questioni odierne. Le vecchie categorie, dunque, non servono più perché il mondo è diventato più complesso e complicato da comprendere, come del resto è stato già ricordato molto bene da Massimo Introvigne nell’ambito dello spazio di approfondimento su identità ed integrazione riservato dalla Fondazione Magna Carta. Introvigne, riprendendo e ricontestualizzando un concetto già espresso da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate, afferma che “nessuno stato europeo oggi […] può pensare di ‘abolire’ l’immigrazione, e nessuna forza politica può ragionevolmente chiederglielo, a meno che si tratti di pura demagogia elettorale. Tuttavia l’immigrazione può e deve essere governata […] Le autorità che rinunciano a governare l’immigrazione non sono buone, ma buoniste, e vengono meno ai loro doveri verso il bene comune”.
Se, dunque, da una parte è necessario governare l’immigrazione, bisogna anche capire il come. E’ sicuramente necessario elaborare una politica per l’immigrazione, che, come già ricordato dal Ministro della Difesa tedesco, è il grande compito che spetta alla classe politica e dirigente europea nei prossimi decenni. Non è, poi, un caso che proprio nell’ultimo anno il cosiddetto sistema a punti abbia acquisito sempre più lo status di “sistema modello” al quale ogni governo nazionale applica modifiche dovute alla propria specificità territoriale. Senza entrare nello specifico del sistema a punti, sarà sufficiente ricordare come in Canada, in Gran Bretagna, in Olanda, in Svezia è sostanzialmente questo il sistema che si sta applicando o cercando di applicare. Ed anche in Germania se ne discute, anche se nella maggioranza di governo la CDU (Cristiano Democratici Uniti) è, al momento, contraria, ed i liberali (FDP) favorevoli.
E’ ovvio, dunque, che il problema, vale la pena ripeterlo, non è tanto il numero di anni dopo i quali è possibile ottenere la cittadinanza, ma le condizioni ed i requisiti che permettono eventualmente di ottenerla. Un cittadino deve ovviamente rispettare ed attenersi alle leggi del paese in cui vive, deve avere un duraturo contratto di lavoro, deve giurare sulla Costituzione del paese di accoglienza, deve impegnarsi ad imparare la lingua del paese in cui ha deciso di vivere – e questi sono solo alcuni dei passaggi fondamentali. Di per sé non sono affatto contrario alla diminuzione del numero di anni per il raggiungimento della cittadinanza, ma se questo non è accompagnato ad una serie di garanzie che dimostrino l’effettiva ed avvenuta integrazione, il problema non è risolto, è solo aggravato.
Difficile non essere dunque d’accordo con il Manifesto sulla cittadinanza italiana della Fondazione Magna Carta lì dove si afferma che “occorre, in altre parole, individuare alcuni criteri di carattere qualitativo che, integrando il tradizionale criterio cronologico, potrebbero servire a qualificare il periodo di tempo trascorso in Italia. In particolare, andrebbero valorizzati tutti quegli elementi che indicano come la permanenza in Italia dell’aspirante cittadino abbia assunto un carattere di spiccata stabilità, carattere che evidentemente normalmente determina una maggiore rapidità nel processo di integrazione […] Ma la stabilità della condizione sociale dell’aspirante cittadino potrebbe essere verificata anche mediante altri indicatori: in primo luogo il possesso per l’intero periodo di residenza di un lavoro regolare, dal quale l’aspirante cittadino abbia ricavato un reddito (fiscalmente dichiarato) sufficiente a mantenere sé stesso e la propria famiglia. Ma rilievo assume anche la stabilità della residenza. La permanenza prolungata in una in una determinata città o provincia, così come la stabilità e l’idoneità del domicilio costituiscono certamente sintomi di un processo di radicamento e di integrazione più compiuto.”
Ora, un recente rapporto della Caritas ha dimostrato che gli immigrati incidono per l’11 per cento del Prodotto Interno Lordo (PIL) e che il bilancio dell’INPS è in attivo grazie ai contributi degli immigrati. Proprio questi immigrati che dimostrano un’effettiva integrazione e che contribuiscono al mantenimento del bilancio statale, rappresentano la sana ed utile immigrazione da sostenere e possono anche essere considerati una risorsa per il paese. Gli immigrati sono, infatti, un potenziale da valorizzare nella misura in cui contribuiscono allo sviluppo ed alla crescita della comunità a cui chiedono di appartenere. È però vero che il Dossier Statitistico Immigrazione 2010 Caritas/Migrantes ci informa anche di altre verità forse un po’ più scomode: negli ultimi vent’anni il numero di immigrati è cresciuto di ben venti volte e sono diventati quasi 5 milioni – uno ogni dodici residenti; nell’ultimo decennio gli immigrati sono aumentati di 3 milioni nell’ultimo decennio e di 1 milione solo nell’ultimo anno; ci sono sempre più matrimoni misti; in circa 50 mila all’anno ottengono la cittadinanza; gli immigrati rappresentano un fattore di parziale equilibrio demografico in una società in cui gli ultrasessantenni superano i minori di quindici anni.
Queste dati devono far riflettere e ci dicono almeno due cose ben precise:
1) Gli immigrati aumentano a ritmo crescente, incidono sempre di più nella nostra società non solo dal punto di vista economico, ma, inevitabilmente, anche culturale. Il fenomeno descritto da Thilo Sarrazin per la Germania, con le dovute cautele e differenze dovute alle diversità tra i due paesi ed all’entità del fenomeno stesso, si può in qualche modo applicare anche al nostro Paese. Fermo restando che la nostra società occidentale è inevitabilmente destinata a diventare sempre più eterogenea, variegata e mista, dobbiamo, al contempo, essere ancor più decisi a difendere i nostri principi di democrazia e libertà propri di uno stato di diritto. Il flusso migratorio verso il nostro paese è, dunque, un fenomeno da tenere sotto controllo se vogliamo difendere il nostro stile di vita ed i nostri valori di riferimento. Thilo Sarrazin l’ha detto in modo chiaro: le generazioni future rischiano di vivere in un paese “musulmano”, con donne con il velo e ritmi della giornata scanditi dai muezzin. Sarà forse anche una visione apocalittica, ma, a mio avviso, è doveroso non sottovalutarla.
2) La crescente presenza di immigrati solleva un problema culturale. In un futuro non lontano, nella nostra società, tenderanno a coesistere sempre di più gruppi di nazionalità e di religioni diverse. Lasciando da parte il problema legato alla sicurezza (di cui non ho intenzione di parlare e che in ogni caso non è necessariamente legato alla presenza degli immigrati), è fondamentale cercare di stabilire in che modo la nostra società occidentale, europea ed italiana intende confrontarsi con la concreta prospettiva di una società costituita da un insieme di paralleli microcosmi culturali e religiosi. Con quale sistema di valori e con quali idee si proporrà la nostra società davanti al crescente numero di competitor culturali e religiosi? In un futuro melting-pot in quali condizioni ci arriveremo? Semplicemente con i valori, assolutamente indiscutibili, della democrazia, della libertà e dei diritti umani o è forse necessario aggiungere a questi qualcosa di più profondo? Un sistema di valori, uno stile di vita, una propria cultura che possa rappresentare il paradigma di una civiltà alla quale l’immigrato potrà trovare, eventualmente, una nuova identità ed anche cittadinanza?
Come già sopra accennato, allora, la questione dell’integrazione non può prescindere dall’identità culturale di una nazione, di una comunità o di una civiltà. Qualunque discorso sull’integrazione e l’immigrazione non può essere slegato da questo punto. Non si tratta, sia ben chiaro, di riproporre una sorta di nuovo nazionalismo religioso, semmai di un sano e proficuo patriottismo. Si tratta, in primo luogo, di tutelare l’esigenza primordiale di qualunque individuo e, più in generale, di qualunque società di riconoscersi in un sistema di valori ed in una tradizione culturale. Sarrazin stesso ha definito l’essere umano un’essenza orientata territorialmente ed al proprio gruppo di appartenenza. Non voglio qui affrontare nel dettaglio il problema dei valori cristiani dell’Europa in quanto il discorso sarebbe troppo lungo, ma è ovvio che la nostra società occidentale deve presentarsi davanti al flusso migratorio ed ai cambiamenti demografici, con un chiaro e solido sistema di valori in cui il Cristianesimo non può che svolgere una funzione fondamentale.
Anche qui la discussione sull’integrazione in Germania offre un patrimonio concettuale e linguistico di una certa utilità: Leitkultur, ovvero cultura dominante. Ora, cultura dominante vuol dire, almeno così come la discussione si è sviluppata in Germania negli ultimi anni, principalmente riconoscimento dei diritti e dei doveri stabiliti dalla costituzione, un patrimonio comune a tutti ed in cui tutti si possono e si devono riconoscere, un vasto consenso, come si dice in Germania, che possa evitare che una società possa dissolversi. Recentemente, il concetto di cultura dominante è stato ripreso, tra gli altri, anche da Roland Koch, ex Presidente del Land dell’Assia e ed ora direttore generale del gruppo industriale tedesco Bilfinger Berger, in un suo recente libro, dall’eloquente titolo: Konservativ.
Senza valori e principi non si costruisce uno stato, il conservatore riformista Koch, come ama definirsi, afferma che chiunque intende vivere in una determinata società deve entrare in sintonia con la cultura che plasma quella società stessa. L’ordine statale non può esserci senza un consenso, intellettuale ed emozionale, dei cittadini. Per Koch una cultura dominante deve essere parte, se non proprio il perno, di qualsiasi politica di integrazione. E per cultura dominante bisogna considerare anche tutte quelle convenzioni tipiche della nostra società che non possono essere realmente comprese senza conoscere l’importanza e la funzione della tradizione cristiana nella storia della nostra civiltà. Non si tratta naturalmente di costringere gli immigrati a recidere le proprie radici, ma di responsabilizzare tutti i cittadini di una comunità al fine di riconoscere una serie di valori di riferimento in cui identificarsi, valori che devono, inoltre, essere considerati come maggiormente rappresentativi della società stessa.