Il 18 aprile del 1861 il giovane parlamenti italiano vive il suo primo vero momento di tensione. Si dibatte sul destino dei garibaldini protagonisti della conquista dell’Italia meridionale, se inquadrarli nell’esercito regolare o rispedirli a casa con una pacca sulla spalla e un compenso simbolico. La sala di palazzo Carignano, che ospita la seduta a Torino, è percorsa da un’insolita agitazione. Ha parlato il ministro della guerra, generale Fanti, regista della calata delle truppe piemontesi nello Stato Pontificio e della sua parziale occupazione. La sua posizione è drastica: solo un limitato numero di camicie rosse può essere può essere inserito nell’esercito regolare, il resto deve essere smobilitato.
Le idee di Cavour sull’argomento sono note: il presidente del consiglio ha promesso che i volontari confluiranno in gran parte nell’esercito regolare e una porzione cospicua degli ufficiali garibaldini verrà assorbita nei ranghi dei graduati sabaudi, senza peraltro pretendere di ricevere lo stesso trattamento degli ufficiali regolari. In una lettera di qualche mese prima a Farini, emissario del governo a Napoli, il conte assicurava che non avrebbe mai e poi mai permesso di liquidare le camicie rosse con una semplice gratificazione. “Su questo punto non transigerei. Anziché assumere la responsabilità di un atto di nera ingratitudine, vado a seppellirmi a Leri [la sua tenuta di campagna]”.
Alla seduta è presente Giuseppe Garibaldi. Eletto deputato nel collegio di Napoli, risalta immediatamente tra le marsine e i cilindri dei colleghi. E’ seduto tra i banchi dell’estrema sinistra, addobbato alla sua maniera con la camicia rossa e il poncho argentino. Ha un discorso scritto ma decide di parlare a braccio. Prende la parola e nella sala all’improvviso cala il silenzio.
La voce del Generale è decisa, la “natura leonina” ruggisce come sul campo di battaglia. Il suo è un discorso assolutamente impolitico. “L’Italia è fatta”, proclama, “ne ho la coscienza perché ho fede nel nostro forte esercito e di più conto sull’entusiasmo e sulla generosa volontà di una nazione che già tante ha dato prove di valore, ancor senza essere esercito disciplinato e regolare” .
Poi si pronuncia sul dualismo che per molti lo vede contrapposto al conte di Cavour e assicura di non aver fatto nulla per alimentarlo. “Tutte le volte che quel dualismo ha potuto nuocere alla gran causa del mio paese io ho piegato, e piegherò sempre”.
Si tratta, Garibaldi lo lascia intuire, di una contrapposizione personale (essendo ormai caduta ogni questione di fedeltà alla corona, rispetto della monarchia e abiura della rivoluzione mazziniana) e per ciò stesso ancora più penosa. Ma a dispetto di questa contrapposizione “l’Italia non è dimezzata, è intera; perché Garibaldi e i suoi amici saranno sempre con coloro che propugnano la causa d’Italia e ne combattono i nemici in qualunque circostanza”. A Cavour, però, il Generale non fa sconti. Il suo ministero lo ha reso “straniero in Italia”, la “fredda e nemica mano” del suo ministero ha fatto sentire i suoi “malefici effetti” anche sulla spedizione dei Mille, mobilitando l’esercito piemontese col pretesto dell’anarchia nell’Italia centrale e provocando “l’orrore di una guerra fratricida”.
A palazzo Carignano scoppia il putiferio. Vocio confuso, tumulto tra le tribune e nelle gallerie (siamo nel 1861, avete capito bene…). Cavour protesta dai banchi del governo e la Camera, come a una parola d’ordine, insorge. I moderati gridano al vilipendio delle istituzioni, da sinistra si invoca libertà di parola per Garibaldi, ma inutilmente. Su tutto emerge ancora una volta la figura del presidente del consiglio, il geniale primo ministro che ha guidato l’Italia all’unità, il prodigioso incanta serpi che regge le fila del gioco politico in parlamento. Per dieci anni, nella fossa dell’assemblea legislativa, ha affogato impeti, sbaragliato concorrenti, rivoltato trame, orientato sentimenti e decisioni. Ancora in parlamento spera di risolvere il problema dell’amalgama tra il nord d’Italia e le regioni meridionali recentemente conquistate. In una lettera alla contessa di Circourt, alla fine del 1860, poteva orgogliosamente affermare: “Io non mi sono mai sentito debole se non quando le camere erano chiuse. D’altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita. Sono figlio della libertà: è ad essa che debbo tutto quello che sono”.
In realtà Cavour è un uomo solo. “Ammirato, temuto e seguito, ma non amato”, come ha notato l’ambasciatore inglese a Torino Sir James Hudson. Circondato da pochi amici non del tutto fidati, incapace di aprirsi completamente coi suoi collaboratori e di concedere loro un’iniziativa veramente personale. Né più né meno Cavour è un accentratore, con un’irresistibile tendenza al “faccio tutto io”. I suoi fedelissimi lo considerano un “nobile amico”, salvo restare spiazzati dai suoi capricci, il suo umore cangiante, l’egocentrismo, la permalosità. Allora rispondono alla freddezza con la freddezza, all’ingratitudine con l’ingratitudine, nell’attesa che un’attenzione, una risata contagiosa, un’intuizione alla cui genialità non si può restare indifferenti, li riconquisti.
Instabile, umorale, geniale; infaticabile fino a mettere a repentaglio la sua salute, Cavour è un istrione della politica, un solista con la vocazione insopprimibile al protagonismo. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, il suo vero demone, al di là della sbandierata fedeltà ai principi liberali, è l’amore per la tirannia. Per amore di tirannia (o per gli incomodi della ragion di Stato?) nel 1855 aveva impegnato il Piemonte nella guerra di Crimea contro la maggioranza del suo stesso governo; nel 1857 aveva fatto annullare l’elezione di un quarto dei deputati al parlamento sabaudo, per lo più clericali e ultraconservatori a lui sgraditi; per mesi nel 1859 aveva concentrato nelle sue mani, oltre alla carica di presidente del consiglio, i ministeri degli esteri e degli interni, della guerra e della marina.
Da qualche tempo anche con Vittorio Emanuele II i rapporti sono tesi. Secondo le stesse parole di Cavour, il re è geloso di lui e non ne sopporta la vicinanza: ha ormai smascherato la tattica del “prima fare e poi dirglielo” che il primo ministro cerca di applicare nei suoi confronti . Cavour è solo, garantito dal suo prestigio e dalla generale consapevolezza della sua insostituibilità, eppure circondato da una cronica diffidenza. Non si tratta soltanto dell’ovvia opposizione dei democratici: anche nella maggioranza moderata si respira aria di fronda contro il conte. I principali esponenti della “destra storica” covano rancore nei suoi confronti.
Massimo D’Azeglio, il più anziano statista italiano, deplora molti dei metodi usati da Cavour per unire l’Italia. Con parole che potrebbero star bene in bocca a Mazzini ammonisce: “Non si fonda un’associazione umana qualunque su una serie di furberie, di perfidie e di bugie”. Non è un’obiezione puramente moralistica: al conte D’Azeglio rimprovera “la sua ignoranza delle varie parti della penisola. Voler agire su un paese senza averlo neppure veduto, è questo un problema che nessun gran talento basta a risolvere” . In privato, poi, sostiene che l’annessione di Napoli equivale a dividere il letto con un malato di vaiolo.
Il barone Ricasoli, destinato ad essere il successore di Cavour, è un orgoglioso aristocratico toscano, onesto ma rigido, estraneo ai piccoli inganni e ai compromessi insiti nel governo parlamentare, incapace di capire fino in fondo e dunque di imitare le tecniche cavouriane.
Urbano Rattazzi ha letteralmente il dente avvelenato. Dopo aver condiviso con Cavour gli onori e gli oneri della stagione del “connubio”, era stato silurato qualche anno prima, quando Napoleone III ne aveva chiesto la testa perché troppo progressista. A malincuore si era piegato alla decisione in nome dell’Italia, per facilitare la trattativa che avrebbe dovuto condurre alla guerra con l’Austria; ma a Cavour non aveva perdonato la disinvoltura mostrata nella sua giubilazione. Escluso dal governo, se n’era rimasto a guardare gli avvenimenti in disparte, a frequentare i salotti e a rassicurare Vittorio Emanuele sulla fedeltà della sua amante, ricevendone in cambio l’investitura a primo ministro dopo le dimissioni del conte nell’estate del 1859. Il tutto mentre la moglie, fortunata scrittrice, dipingeva il ritratto inverosimile e agiografico dell’Italia “ai tempi di Rattazzi” . Adesso, di fronte alle vibranti proteste di Cavour, fa valere, con un pizzico di compiacimento, la sua autonomia e le sue prerogative di presidente della Camera. Che stia al suo posto e provi l’impotenza, il signor primo ministro…
Dopo un quarto d’ora di sospensione per “sedare i tumulti”, alle quattro del pomeriggio del 18 aprile, la seduta del parlamento riprende in un silenzio tombale. Garibaldi rinuncia ad attaccare Cavour ma continua a lamentare il trattamento umiliante riservato alle camicie rosse: “Dirò soltanto che se si voleva conservare l’armata meridionale, si poteva dare a ciascuno uno, due, tre mesi di permesso, e non solleticarli con sei mesi di soldo perché se ne andassero…” .
In pochi minuti la Camera torna in preda all’agitazione. Tutti i gruppi della destra liberale – i piemontesi vicini a Cavour, i lombardi di Minghetti e i toscani del barone Ricasoli – contestano l’impudenza di Garibaldi, che gli costerà una precoce, e inevitabile, emarginazione politica. Ma a rumoreggiare sono anche la sinistra democratica e i nuovi arrivati, i deputati meridionali, gli esuli “adottati” dal Piemonte come Massari e Cordova e l’accozzaglia indegna ma “malleabile” estratta dall’élite dell’ex regno borbonico e presentata a Cavour in termini assai poco lusinghieri dal suo emissario a Napoli Costantino Nigra .
Se i compagni dell’opposizione si preoccupano per le intemperanze di Garibaldi, gli uomini del sud sono divisi, sospesi tra la riconoscenza al Generale e il rispetto (al confine del timor sacro) verso Cavour, l’avversione alla “piemontizzazione” e la necessità di acquisire crediti presso il governo. Per questo, messe da parte per un giorno le critiche all’azione ministeriale nel meridione, il 18 aprile scelgono di fare fronte comune col presidente del consiglio contro le pretese di Garibaldi. Si scaldano, partecipano al vocio, sono tra i principali artefici del tumulto che invade l’aula e fa minacciare a Rattazzi una nuova sospensione della seduta.
Non appena, a fatica, l’ordine viene ristabilito, il primo a prendere la parola è Nino Bixio. Degli uomini di sinistra presenti in parlamento non è certo il più navigato. Non è Depretis, il “cacciatore di popolarità” che Cavour mal sopporta. Non è Crispi, l’audace organizzatore della spedizione dei Mille, l’ex mazziniano dal passato torbido che prova a riciclarsi come uomo di Stato. Non si può annoverare tra i politici di professione. E infatti tiene un discorso per niente politico, ma altamente, e ingenuamente, patriottico.
“Io sorgo nel nome della concordia e dell’Italia. Quelli che mi conoscono sanno che io appartengo sopra ogni cosa al mio paese. Io sono tra coloro che credono alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia, ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor conte di Cavour” . Sull’onda degli applausi prolungati, Bixio tenta una mediazione. Ricorda innanzitutto la sua fiducia assoluta nelle capacità militari del Generale: “Quando sotto le armi, militarmente mi dà degli ordini, io li eseguo senza punto discuterli”. E davvero di Garibaldi Bixio è stato il braccio forte, lo scudiero fedele, anche a costo di impegnarsi in azioni controverse, come la repressione a Bronte, che aveva segnato per molti la svolta “gattopardesca” del Generale e il tramonto di ogni ipotesi di riforma agraria e trasformazione democratica in Sicilia. Quanto a Cavour, Bixio rivendica di non avergli mai “fatto la corte” e di ammirarlo disinteressatamente per quello che è stato capace di fare.
La composizione del dualismo tra i due personaggi è, a suo parere, indispensabile e comporta una qualche forma di regolarizzazione dei garibaldini: “L’Italia ha bisogno di tutti i suoi elementi militari. (…) La guerra non è ancora finita, noi non siamo ancora nelle nostre frontiere naturali” . Senza saperlo Bixio sta firmando il suo testamento politico. Il ruolo di mediatore non gli porterà fortuna. Scaricato dai democratici, verrà sempre guardato con diffidenza dai moderati. Alle elezioni del 1865, sconfitto nella sua Genova, rischierà l’esclusione dal parlamento. Sarà ripescato nel collegio di Castel San Giovanni, grazie all’appoggio indeciso di Depretis, e qui confermato nel 1867. Ma ai lavori del parlamento parteciperà senza più entusiasmo, per semplice onor di firma. Come per onor di firma, senza gloria vera, sarà al fianco del generale Cadorna il giorno della breccia di Porta Pia. Sarà nominato senatore, galleggerà nel marasma della politica nazionale, continuerà a sentirsi irrimediabilmente “sradicato”. Fino alla clamorosa decisione di imbarcarsi per Singapore a bordo del Maddaloni, la nave a vela e a vapore che si è fatto costruire nel frattempo, a prezzo di duri sacrifici finanziari, nei cantieri di Newcastle .
Una fuga romanzesca nei luoghi della giovinezza, nei luoghi di Salgari che Salgari non vedrà mai. La fuga di uno spirito nobile e inquieto, come Gauguin e Stevenson dopo di lui. La parabola di Bixio si concluderà dov’era cominciata, tra le acque infide e i tramonti infiniti dei mari del sud. Come se il Risorgimento fosse passato senza lasciare traccia: una parentesi di promesse infrante, di speranze accarezzate e mai del tutto compiute. La scomparsa di Bixio segnerà, in un certo senso, l’evaporazione degli ideali più puri e ingenui del Risorgimento, la trasformazione definitiva dell’epopea in politica.
Ma questa è un’altra storia. Il 18 aprile del 1861 Bixio si gode gli applausi della camera e l’illusione di aver risolto un dualismo che invece è ben lontano dall’essere ricomposto. Dopo una lettera al vetriolo indirizzata dal generale Cialdini a Garibaldi, che farà temere perfino un duello tra i due, il 23 aprile si svolgerà alla presenza di Vittorio Emanuele II un incontro chiarificatore tra Cavour, il capo di stato maggiore e l’Eroe. Tornato a Caprera, Garibaldi scriverà al conte di confidare nelle sue “capacità superiori” e di attendere fiducioso dalla sua voce una nuova chiamata alle armi . Ma il dualismo, pure annacquato dalla morte di Cavour e dalle posizioni più concilianti della sinistra democratica, resisterà. Arriverà a investire la stessa idea dell’Italia unita e segnerà per anni – dietro gli intrighi, gli imbrogli e i “pettegolezzi da cantanti” – la vita parlamentare.
Eletto, in base a un sistema rigidamente censitario, da appena il 2% della popolazione del Regno, il nuovo parlamento italiano è solo la punta dell’iceberg del cambiamento. Eppure rispecchia in maniera sorprendentemente fedele le diverse anime del Risorgimento. Escluso in pratica da tutte le principali decisioni sul processo unitario, il parlamento costituisce, per precisa volontà di Cavour, il luogo in cui si riversano, e non di rado si stemperano, rivalità e conflitti, pulsioni e slanci dell’élite risorgimentale. La corte d’onore di palazzo Carignano, aggiustata a ricevere i 443 deputati del Regno, è una specie di cantiere, un pentolone che ribolle di fermenti, vizi e virtù originarie, e di tutti gli ingredienti che nel bene o nel male hanno contribuito a fare l’Italia. Un calderone di illusioni perdute e astuzie machiavelliche, eloquenza torrenziale e silenziose macchinazioni, slanci poetici e istinti molto ma molto più prosaici.
Letture
Denis Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Laterza, Roma-Bari, 1999
Il parlamento dell’unità d’Italia, 1859-1861. Atti e documenti della Camera dei Deputati, Roma, 1961
Cavour e l’Inghilterra, Reale Commissione Editrice, Bologna, 1933
La liberazione del mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia: carteggi di Camillo di Cavour, Bologna, 1949-54
Massimo D’Azeglio, Scritti e discorsi politici, Firenze, 1931-38
Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, Longanesi, Milano, 1993
Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861. Volume quarto: la liberazione del Mezzogiorno, Reale Commissione Editrice, Modena, 1929
Indro Montanelli, L’Italia dei notabili, Rizzoli, Milano, 1973