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C’è un tema che Obama ha ignorato nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione. La questione del riscaldamento climatico. Una preoccupazione che sembrava in cima all’agenda green del Presidente ma sembra svanita dall’azione di governo della Casa Bianca – complice il documento d’intenti, senza alcun valore legale, sottoscritto al vertice di Copenaghen fra i Paesi pronti a ridurre le emissioni di gas serra. E’ vero che, di solito, nel discorso sullo Stato dell’Unione i presidenti parlano di cose americane e non di questioni globali, e questo spiegherebbe il silenzio di Obama. Il Congresso si è opposto al “Cap and Trade”, una legge dall’impianto modesto che avrebbe dovuto regolare le emissioni negli Usa; dopo la sconfitta alle midterm, far passare provvedimenti simili alla Camera, dove c’è una maggioranza repubblicana, sarebbe impossibile. Eppure il global warming negli ultimi 10 anni è stato uno dei tormentoni del partito democratico; Obama lo ha sostituito con quello che l’Econimist definisce “ambientalismo della prosperità”. Addio scioglimento dei ghiacciai himalayani, che d’altra parte e per fortuna sono sempre lì al loro posto.

Per il futuro il Presidente si è dato obiettivi ambiziosi: un milione di auto elettriche sulle strade americane entro il 2015 e l’accesso alle grandi autostrade garantito all’80 per cento dei cittadini entro il 2035. La produzione dell’80% di tutta l’energia consumata dal Paese da un mix di nucleare, energie pulite, vento sole e gas naturale. “Invito Democratici e Repubblicani a lavorare insieme – ha detto – affinché questo possa accadere”. Non sono mancati gli applausi, bipartisan. In questo momento la Casa Bianca non ha interesse a spingere su temi che dividono invece di unire gli americani. Se l’obiettivo è far passare uno straccio di legge sul clima prima della fine del mandato, sarà meglio ripulirla da argomenti di scottante contrapposizione con i repubblicani. Eppure nel ‘tabù’ di Obama c’è qualcos’altro, qualcosa di più complicato della ragion politica, qualcosa che riguarda gli attuali orientamenti della comunità scientifica. E’ come se il Presidente vivesse la stessa crisi di certezze sperimentata da alcuni dei suoi scienziati, una incertezza che è la cifra di questo mandato.

Judith Curry dirige la School of Earth and Atmospheric Sciences al Georgia Institute of Technology ed è conosciuta per le sue ricerche sugli uragani, la dinamica dei ghiacciai artici ed altri “topics” della questione climatica. Mesi fa, sulla rivista “Scientific American”, la professoressa Curry ha fatto scalpore dicendo che bisogna prestare ascolto ai dissenzienti, alle tesi di chi viene definito spregevolmente un “negazionista”, a chi sfida il consenso sulle cosiddette “cause antropogeniche” del global warming. La Curry, che all’influenza dell’uomo sull’ambiente ci crede, da buona scienziata si è domandata se non fosse il caso di verificare le tesi dei suoi avversari, anche solo per il gusto di contraddirli. Rinchiudersi in una fortezza mentale dove agli estranei è vietato entrare e agli insiders impedito di sbagliare, questo no, non è un atteggiamento scientifico. Così la Curry non ha lesinato critiche, acide, nei riguardi dell’IPCC, il panel delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Lo ha accusato di “corruzione”, di aver pubblicato ricerche “nonpeer-reviewed”, come si dice in gergo, dando lustro e onori a scienziati sconosciuti. “Non voglio dire che la scienza dell’IPCC sia sbagliata,” ha detto la professoressa, “ma non posso sentirmi obbligata a sostituire i miei giudizi personali con quelli dell’IPCC”.

Se gli scienziati vogliono contribuire a tradurre la climatologia in una “politica sul clima”, questo il senso del discorso della Curry, dovrebbero smetterla di mostrarsi riluttanti verso ciò che c’è di oscuro e inspiegabile nei fenomeni ambientali, per paura di scontentare questo o quell’altro politico. Il problema diventa se mai come “comunicare un grado di incertezza ai policymakers”, dice Harold Shapiro, ex preside alla Princeton University, come far comprendere ai politici e alla opinione pubblica che incertezza non è sinonimo di ignoranza e che non esiste una disciplina per quantificare ciò che è ignoto. Secondo la Curry “il peggiore degli scenari possibili parlando di global warming potrebbe rivelarsi qualcosa di molto peggio di quello che abbiamo pensato fino adesso”. La scienza e la conoscenza ci offono continuamente nuove informazioni che alterano le nostre percezioni e credenze. Le decisioni sulla base di informazioni scientifiche, dunque, dovrebbero essere prese in un contesto di incertezza. Uno che di cambi di paradigma se ne intendeva, Thomas Kuhn, già dagli anni settanta ammoniva i suoi colleghi che “some facets of uncertainty are always obscured” e che una dose di ragionevole incertezza doveva essere accettata dalla comunità scientifica.

Facendo un improvviso balzo dalla scienza climatologica alla politica, fino a poco tempo fa Obama ha sfruttato l’onda del consenso derivata dal suo successo elettorale per governare “da sinistra”, con delle certezze. Ha promesso di chiudere Guantanamo, dato vita a un grande piano statalista per il rilancio dell’economia americana, fatto passare una storica riforma sanitaria. In politica estera ha teso la mano a quei Paesi che George W. Bush aveva definito “stati-canaglia” e ha scelto il Cairo per lanciare il suo messaggio di cambiamento al mondo arabo: l’America non vuole più interferire con il destino dei popoli musulmani. Sul cambiamento climatico, come detto, ha sposato la causa di Copenaghen. Questa prima fasegli è costata cara. Guantanamo è rimasto aperto, il bailout ha salvato l’economia senza rilanciarla (e le distorsioni del sistema bancario sono rimaste identiche), la riforma sanitaria non piace alla maggior parte degli americani, lo statalismo ha fatto esplodere il fenomeno del Tea Party che a sua volta ha rinvigorito l’opposizione repubblicana. In politica estera, alla mano tesa l’Iran ha risposto con il pugno chiuso. In Egitto è scoppiata una Rivoluzione, il Nordafrica brucia e forse gli Usa dovranno intervenire in Libia. Sul cambiamento climatico, repubblicani e fronda democratica hanno affossato il Cap and Trade Bill.

Aver espunto ogni riferimento al riscaldamento globale dal discorso sullo Stato dell’Unione, dunque, per Obama rappresenta una fase di incertezza che può essere ben riassunta dallo slogan per la prossima campagna alle presidenziali. “Conquistare il futuro”, un’espressione vaga ed indeterminata. Obama non sa come chiudere Guantanamo e se sia giusto farlo. Ha promesso di mettere un freno, seriamente, alla spesa pubblica, per non alimentare il deficit. Si è accorto che una tassazione ingenerosa verso le piccole imprese impedisce che la riforma sanitaria possa funzionare davvero, ed ha fatto balenare l’ipotesi di sgravi fiscali per i piccoli e medi imprenditori. Dopo la mano tesa, sono arrivate le sanzioni all’Iran e quelle alla Libia. L’agenda sul global warming? Rimandata a settembre. Da un punto di vista politologico il Presidente ha virato da sinistra verso il centro dello spettro politico. Ma il tabù sul riscaldamento climatico è una spia di quella incertezza che, unita alla ‘improbabile’ e molteplice biografia del Presidente, non è detto che abbia per forza un esito fallimentare, presupponendo un risultato che però deve ancora, non si sa bene quando. Potrebbe essere questa, paradossalmente, l’arte di governo di Obama. Il paradigma dell’incertezza.